Un percorso dialettico nella Francia illuminista Dino Costantini
4 La tradizione democratica: Rousseau
La necessità di ripensare la concezione classica della tirannia è ben pre-sente anche nella filosofia di Rousseau.56 Il rischio della tirannia, tuttavia, viene pensato da Rousseau in termini radicalmente differenti da quelli che danno forma alla riflessione di Montesquieu. Se per la tradizione liberale, infatti, il carattere tirannico di un regime si misura anzitutto sul tema del rispetto delle libertà dei sudditi, e dunque sul piano dell’esercizio del pote-re, per il democratico Rousseau esso pertiene direttamente alla sua forma. Pur avendo uno scopo essenzialmente diverso da quello di Montesquieu, anche il ragionamento di Rousseau prende le mosse da Locke, dal quale accetta la necessità di distinguere tra despota e tiranno. L’indicazione lockeiana – filtrata proprio attraverso la rielaborazione di Montesquieu – serve anche a Rousseau a prendere le distanze dalla tradizione classi-ca, per la quale «tiranno e usurpatore sono due termini perfettamente sinonimi».57 Rimescolando i termini del dibattito, nel Contratto sociale Rousseau propone così di chiamare «tiranno l’usurpatore dell’autorità regia» e di riservare il termine despota a chi usurpi il «potere sovrano». Ad uno sguardo superficiale, una tale distinzione potrebbe sembrare un regresso verso la concezione classica della tirannia, che come abbiamo visto già la collegava in maniera diretta al tema dell’usurpazione. In realtà Rousseau sta qui prendendo le distanze tanto dalla tipizzazione tradizio-nale delle forme del potere quanto dalla rivisitazione che di questa aveva compiuto Montesquieu. Se per Montesquieu infatti la tirannia non era che una delle molteplici forme immaginabili del dispotismo, per Rousseau è vero esattamente il contrario: se «il tiranno può non essere despota», il
55 Le Mercier de la Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, p. 311.
56 Come introduzione a Rousseau si possono vedere tra i tanti: Gatti, Jean Jacques
Rous-seau; Casini, Introduzione a RousRous-seau; Wokler, RousRous-seau; Starobinski, J.J. RousRous-seau; Althusser, L’impensato di J.J. Rousseau; Burgio, Rousseau, la politica e la storia.
57 «Secondo la definizione corrente, un tiranno è un re che governa con la violenza e senza riguardo alla giustizia e alle leggi. Secondo una definizione più precisa, un tiranno è un priva-to che si arroga l’aupriva-torità regia senza averne diritpriva-to. Così i Greci intendevano questa parola tiranno: essi la usavano indifferentemente per i buoni e per i cattivi principi, la cui autorità non fosse legittima» (Rousseau, Il contratto sociale, pp. 117-118).
despota è inevitabilmente anche tiranno. La tirannia si configura in questo modo come un concetto più ampio di quello di dispotismo: così l’usurpa-zione di una linea dinastica (la tirannia in senso stretto, dunque) è solo un caso specifico di un fenomeno ben più vasto, che assomma tirannia in senso stretto e dispotismo, e dà luogo a quella che potremmo chiamare tirannia in senso ampio.
Un tale concetto si comprende solo all’interno della rivoluzione che Rousseau realizza nel modo di concepire la legittimità politica. Intesa nel suo senso più vasto, la patologia politica della tirannia ha infatti per Rous-seau la propria radice nella alienazione della sovranità popolare. È questo, come è noto, il principale lascito di Rousseau alla filosofia politica moder-na: il principio secondo il quale la sovranità appartiene al popolo, non solo per ciò che concerne la sua origine (questa era già stata la posizione di Pufendorf o di Hobbes) ma anche per ciò che concerne il suo esercizio.58
Tutte le società politiche che non riconoscono la sovranità del popolo come unica, indivisibile, irrappresentabile e inalienabile fonte della le-gittimità politica sono infatti da lui considerate società necessariamente dispotiche, e come tali anche tiranniche. Laddove la sovranità popolare non sia riconosciuta «il grande Stato si dissolve, e se ne forma un altro dentro a quello, composto soltanto dai membri del governo, che per il resto del popolo non è altro ormai che il suo padrone e il suo tiranno».59 Siamo qui agli antipodi di quel pluralismo metodologico che ha fatto ritenere Montesquieu come il progenitore dell’idea moderna di partito politico.60 Per Rousseau, al contrario, ogni divisione dell’unità sovrana del popolo è
fazione, residuo particolaristico che una società finalmente regolare non
potrà che aver cancellato.
Siamo qui agli antipodi della tradizione liberale – e tanto più dell’iper-razionalismo fisiocratico – anche per ciò che concerne il rapporto con il diritto di natura. Nella concezione democratica del legame politico che qui Rousseau sta rifondando nei suoi termini moderni, la legittimità politica viene sganciata dal rispetto di qualunque ordine antecedente la politica stessa e riportato alla sua originaria contingenza e dunque anche alla sua costitutiva artificialità. Rousseau afferma questo principio nei suoi termini più perentori sostenendo che «non vi è né vi può essere nessuna specie di legge fondamentale obbligatoria per il corpo del popolo».61 Accade così
58 Su questo e sui complessi rapporti di Rousseau con la tradizione giusnaturalistica si veda Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo.
59 Rousseau, Il contratto sociale, p. 117.
60 Cfr. Cotta, «La nascita dell’idea di partito nel secolo XVIII».
61 Rousseau, Il contratto sociale, p. 26. Si vede qui il sostanziale accordo del testo definitivo del Contratto sociale con il cosiddetto ‘manoscritto di Ginevra’, la sua prima inedita versione pubblicata per la prima volta a Mosca nel 1887. Al suo interno Rousseau dedicava un intero capitolo – poi soppresso nella stesura definitiva – a criticare la nozione di legge naturale.
che sia solo nel contesto del politico che le basi di una società finalmente regolare possono essere poste, ossia costruite artificialmente.62 Se per il pensiero liberale ogni patologia politica è riconducibile, in definitiva, ad un errore di comprensione del diritto naturale (o di deduzione da esso delle leggi umane più adeguate a permetterne il libero dispiegarsi), per Rousseau l’errore che fa sì che gli uomini pur essendo nati liberi siano tutti ancora in catene dipende dalla mancata comprensione della radicale autonomia dell’ordine politico rispetto all’ordine naturale, e dalla mancata assunzione della responsabilità che ne discende. Nell’immaginazione filo-sofica di Rousseau, nella misura in cui la volontà generale è riconosciuta come sovrana, la politica diviene così il fondamento di se stessa.63
Ripudiatone ogni fondamento naturale, Rousseau riconosce un unico limite alla libertà e all’autonomia della politica, ovvero alla sua radicale contingenza. Questo limite corrisponde alla forma che la volontà generale deve rispettare «per essere veramente tale»,64 ovverosia al fatto che essa deve prendere sempre una forma generale, tanto per ciò che attiene al suo oggetto che per ciò che attiene alla sua essenza. Una volontà autenti-camente generale, allora, è solo quella che parte da tutti – rispettando il fondamento essenziale della sovranità, ovvero la sua origine popolare – per applicarsi a tutti. Detto in altri termini la volontà ha carattere di generalità solo quando si esprime come legge, ovverosia quando «considera i sudditi come corpo collettivo e le azioni come astratte, mai un uomo come indivi-duo né un’azione particolare».65 La generalità della forma di legge – che fa della teorizzazione di Rousseau il diretto antecedente del trascendentali-smo politico kantiano66 – è dunque il solo limite che la politica – autonoma rispetto ad ogni determinismo pseudonaturalistico – è tenuta a rispettare, se vuole potersi dire legittima.67
Da questa nuova comprensione della politica e dei suoi compiti discende anche una nuova comprensione della libertà. Se la libertà liberale si confi-gura come la protezione dei naturali diritti dell’individuo di fronte e contro alla volontà sovrana, concepita come allogena e tendenzialmente perversa,
62 «La costituzione dell’uomo è opera della natura; quella dello Stato è opera dell’arte» (Rousseau, Il contratto sociale, p. 119).
63 Per Rousseau «l’atto che istituisce il governo non è un contratto ma una legge»; per questo i suoi contenuti – ivi compreso il patto originario – sono e rimangono continuamente revocabili (Rousseau, Il contratto sociale, p. 134).
64 Cfr. Rousseau, Il contratto sociale, p. 46.
65 Rousseau, Il contratto sociale, p. 53.
66 Cfr. Burgio, Rousseau e gli altri; Weil, «La politique de Rousseau»; Cassirer, «Il problema J.J. Rousseau».
67 «Io chiamo dunque repubblica ogni stato retto da leggi, qualunque sia la sua forma di amministrazione: perché soltanto allora governa l’interesse pubblico […]. Ogni governo legit-timo è repubblicano» (Rousseau, Il contratto sociale, p. 54).
per Rousseau la libertà consiste nella costruzione democratica di questa volontà. In questo modo la libertà democratica si configura non più solo come una libertà individuale coincidente in buona sostanza con la proprietà e la sua difesa, ma come una libertà collettiva: una libertà immediatamente politica, che coincide con l’ubbidienza che i cittadini devono a quella legge che essi stessi si sono data.