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4.8.1 Una sentenza “pilota”

4.15. I rapporti con la Magistratura di sorveglianza

Come si può desumere dal predetto articolo 5 della Legge 21 febbraio 2014, n. 10, già esaminato, il campo di azione del Garante è dunque la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, ma in un ottica collaborativa e solo con eventuali raccomandazioni finali. Al magistrato di sorveglianza, invece, resta sempre il più pregnante

106 Disegno di Legge n. 383, articolo 3

107 M. QUATTROCCHI, Diritti dei detenuti , in Diritto e territorio: il valore delle

autonomie nell’ordinamento repubblicano, a cura di A. Morelli – L. Trucco, Giappichelli, Torino, 2015, p. 23

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potere di portare ad esecuzione la propria decisione mediante gli strumenti degli artt 35-bis e 69 l. 354 del 1975. I due organismi operano, dunque, su due piani diversi perché diversa ne è la natura, ma concorreranno a svolgere, quali obiettivi comuni, interventi di tutela dei diritti.108 Del resto, questo era già evidente nella relazione al disegno di legge 668, dove il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è stato presentato come un organo indipendente, non solo dall’amministrazione, ma anche dalla Magistratura di sorveglianza. La sua posizione deve essere vista però non sotto il concetto più stretto di indipendenza, dovendo considerare i due organi – Garante nazionale e Magistratura di sorveglianza – come paralleli tra loro e in un certo senso cooperanti. Infatti, l'attività di monitoraggio e valutazione delle condizioni di detenzione, da parte del Garante nazionale dei diritti, non sostituisce né comprime in alcun modo le funzioni ed i poteri del magistrato di sorveglianza. Al contrario quest'ultimo potrà avvalersi della proficua attività del Garante nazionale dei diritti, della sua competenza specifica, derivante dalla formazione culturale diversa da quella propria della Magistratura, nonché dall'approfondita conoscenza della realtà carceraria da parte del Garante nazionale dei diritti, resa possibile anche dalla sua assidua e costante presenza nelle strutture di detenzione. Il Garante nazionale, quindi, esplica una funzione complementare e parallela a quella della Magistratura di sorveglianza, realmente idonea garantire la salvaguardia dei diritti delle persone private della libertà personale, nella prospettiva peraltro di un miglioramento complessivo delle condizioni delle strutture di detenzione e di un'attenuazione delle tensioni, spesso presenti al loro interno e suscettibili di determinare reazioni non sempre ponderate da parte dell'amministrazione penitenziaria, certamente gravata da un

108 G. DI ROSA, Il garante dei dritti dei detenuti e dei soggetti privati della libertà

personale, in C-CONTI- A. MARANDOLA- G. VARRASO (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia personale, Cedam, 2014, p. 141

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ruolo di estrema difficoltà. Il Garante dei diritti vigilerebbe poi sul rispetto, da parte dell'amministrazione, delle decisioni emesse dalla magistratura di sorveglianza, colmando quel deficit di effettività riscontrato nella Sentenza n. 135 del 2013, con cui la Consulta ha risolto un conflitto di attribuzioni sorto proprio a seguito della mancata esecuzione – disposta da un provvedimento ministeriale – di una pronuncia di sorveglianza.109

In conclusione, dunque, sul piano strettamente interno, la funzione che il Garante è chiamato a svolgere è quella di affiancare la tutela giudiziaria facente capo alla Magistratura di sorveglianza con un compito di promozione e di tutela extragiudiziale dei diritti dei detenuti che, prende avvio da proprie iniziative (per lo più come conseguenza di attività d’ispezione o di vigilanza) o da sollecitazioni individuali (in seguito a colloqui ex art. 18 ordinamento penitenziario o reclami ex art. 35 ordinamento penitenziario). Come si può evincere dalle speculari esperienze di molti altri Stati europei dove la figura è attiva da più tempo, il ruolo dell’autorità garante presenta perciò caratteri eminentemente persuasivi e conciliativi, andandosi così ad affiancare e non a sostituire a quello svolto dall’autorità giurisdizionale.

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CONCLUSIONI

A seguito di un’attenta lettura sistematica, si è arrivati a constatare che se si guarda ai tempi antichi, possiamo accorgerci di quanto il sistema della tutela non giurisdizionale sia cambiato, acquisendo sempre più un carattere organizzato e diventando sempre più indispensabile. Ha assunto nel tempo ruoli sempre diversi, nascendo come strumento di

blanda vigilanza esterna sull’azione dell’amministrazione

penitenziaria esercitata nei confronti dei detenuti, e diventando un valido strumento di garanzia per i loro diritti fino a collaborare quotidianamente con gli organi preposti alla tutela giurisdizionale. Si è evoluta nel tempo quantitativamente e qualitativamente, con figure sempre nuove ed al passo con la società contemporanea, sempre più esperte e competenti, a livello nazionale ed internazionale. Solo in Italia in pochi secoli, seppur a singhiozzi, siamo partiti dalla Commissione visitatrice nel 1861, passando all’introduzione del reclamo non giurisdizionale ex art 35 nell’ordinamento penitenziario, per poi giungere negli ultimissimi anni ad istituire il Garante territoriale e adesso, finalmente, anche quello nazionale. A livello europeo invece ne è espressione di questa tutela il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti, che da anni nonostante il suo potere di mera prevenzione e sollecitazione è riuscito a raggiungere ottimi risultati.

Con lo studio effettuato è emersa l’importanza raggiunta da questa “altra” forma di tutela nel grande sistema dei diritti fondamentali dei ristretti, e questo è emerso soprattutto ponendola in comparazione con la tutela giurisdizionale offerta dalla Magistratura di sorveglianza. Infatti un velo di scetticismo è emerso nei confronti della Magistratura stessa, attanagliata da problemi che rischiano di diventare sempre più strutturali come la carenza di organico e sovraccarico di lavoro. Ciò a portato ad affidare un ruolo al Garante, o chi per lui offre una tutela

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non giurisdizionale, che non si presenta come un’alternativa a quella del Magistrato, anche perché ciò sarebbe impossibile dato i piani di operatività diversi. La tutela non giurisdizionale vuole essere uno strumento che affianca, uno strumento complementare,capace di ampliare le possibilità di impedire il protrarsi delle violazioni denunciate dai detenuti o addirittura capace di prevenirle.

Certo è che l’istituzione del Garante Nazionale non deve presentarsi solo come una risposta alle molteplici sollecitazioni dell’Unione Europea, né come un strumento per colmare le lacune mostrate dalla tutela giudiziale, ma come una soluzione reale ai problemi che oggi, in particolare per il sovraffollamento come all’ora per le torture, attanagliano il sistema penitenziario italiano. Sicuramente ne può essere già un esempio di questo l’introduzione del Garante all’interno dell’Ordinamento Penitenziario, o i maggiori poteri riconosciutigli rispetto ai garanti territoriali, ma purtroppo, date le lungaggini dello Stato italiano, è ancora impossibile comprendere quanto realmente sia in grado questa figura di tutelare.

Fin tanto che non venga nominato il Garante nazionale e fin tanto che non cominci ad operare concretamente, potremo solo continuare a sperare che un giorno l’ombra delle sbarre diventi sempre meno fitta da permetterci di capire, anche a chi è disinteressato a questa triste realtà, che proprio i ristretti necessitano di maggior cura,attenzione e soprattutto protezione. E forse, nonostante l’ampliamento dei poteri riconosciuti a questa figura rispetto a quelle territoriali, o della forte cooperazione che ad oggi ha con la Magistratura di sorveglianza, sarà ancora necessario riconoscere ulteriori poteri, che non facciano invadere il confine della tutela giurisdizionale, ma che creino nelle autorità il timore del controllo e nei detenuti la certezza di essere protetti.

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Ineffettività o meno, insufficienza o no, per chi vive in una condizione di restrizione della libertà, questa forma di tutela rappresenta una speranza. Il detenuto sperimenta un costante vissuto di impotenza, una condizione di chi si sente inascoltato e non visto, la percezione di essere dimenticato. Il filo diretto con il Garante, anche attraverso il solo ricorso alla corrispondenza, può ridare il senso di fare ancora parte di una società e di una realtà da cui ci si sente respinti.

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