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I SINDACATI TRA

Nel documento Sisifo 29 (pagine 80-89)

CONCERTAZIONE

E CONSENSO

di Giorgio Ghezzi

V

i sono vari modi di intendere il sindacato c o m e soggetto a u t o n o m o . L ' a u t o n o m i a sindacale p u ò essere, ad es., concepita c o m e equivalente alla nozione di libertà sindacale, e d u n q u e c o m e i m m u n i t à del sindacato da vincoli giuridici posti al dispiegarsi della sua organizzazione e della sua attività, o v v e r o c o m e esenzione, giuridicamente tutelata, da interferenze provenienti di fatto da altri soggetti privati, e c o n o m i c a m e n t e forti e quindi "costituzionalmente pericolosi", quali sono i detentori del potere e c o n o m i c o . M a la si può a n c h e vedere c o m e indipendenza del sindacato, soprattutto per quanto c o n c e r n e la d e t e r m i n a z i o n e dei suoi indirizzi e l ' a n d a m e n t o dei suoi processi decisionali, dagli organi delle istituzioni e, più spesso, dai centri del potere politico, quali che essi siano. Il primo di questi piani appare da t e m p o sufficientemente presidiato, a l m e n o in linea di principio, dalle garanzie costituzionali, soprattutto in q u a n t o riflesse negli apparati normativi, a n c h e processuali, di tutela e di sostegno disposti dallo statuto dei lavoratori. Il secondo, assai m e n o giuridico e m o l t o più politico, presenta aspetti e nodi da s e m p r e aggrovigliati, ed in ogni caso assai più problematici. Ed è proprio quello che solleva oggi questioni in parte inedite. Il p r o b l e m a è coevo, a ben vedere, all'inizio stesso del sindacalismo post-fascista: anzi, allo stesso o r d i n a m e n t o sindacale del periodo transitorio, se è vero che della C G I L unitaria, che rinacque sotto f o r m a di libera associazione privata con il c.d. patto di R o m a del giugno 1944 (e cioè a n c o r p r i m a della stessa soppressione legale dei sindacati fascisti), f u r o n o levatrici, a n c o r c h é per interposta persona, le stesse tre grandi forze politiche destinate a presiedere, di lì a non molto, un altro patto, ben più importante: quello

costituzionale. M a si ripropone in m o d o assai più drastico - e adesso in tutt'altra chiave, f i n o ad a s s u m e r e colorazioni talvolta d r a m m a t i c h e - , attraverso le successive fasi di scissione e di parziale, m a separata, r i c o m p o s i z i o n e che portano poi, negli anni seguenti, alla f o r m a z i o n e della C I S L e d e l l ' U I L .

È in quei frangenti c h e si a f f e r m a la nozione di «collateralismo» delle

organizzazioni sindacali rispetto ai m a g g i o r i tra i partiti politici (e quindi, per alcune di esse, rispetto allo stesso Governo). Un f e n o m e n o curiosamente destinato, per un lungo periodo, ad apparire sì, da un lato, c o m e una sorta di riflesso necessitato di un sistema politico per definizione bloccato dalla

convellilo ad excludendum, ma anche, dall'altro lato (ed assieme, per differenti aspetti, a gran parte del sistema dei poteri locali), c o m e u n o strumento di riequilibrio, che consente alle forze politiche escluse dall'esecutivo di veder m e n o ingiustamente valutato il loro peso politico effettivo proprio grazie ad una loro più realistica rappresentazione sul piano sociale. Mentre il m e d e s i m o collateralismo si prolunga, per cosi dire, all'interno delle stesse grandi centrali confederali sub specie di «componenti», apparentate appunto ai partiti politici, e non più soltanto a quelli maggiori, c o m e tali rappresentate (per quote d a p p r i m a proporzionali, poi attribuite ed infine tramandate in m o d o sempre più fittizio perché senza verifica) nei loro organi dirigenti.

^ m uttavia, anche la nozione ^ f di «collateralismo» subisce % r i suoi alti e bassi. Anzi, entra anche f o r m a l m e n t e in crisi quando, ad un certo punto, la C G I L sancisce l'incompatibilità tra l'assunzione di cariche esecutive nel sindacato e l'esercizio del m a n d a t o parlamentare. Ed è appunto nel corso degli anni Sessanta che i rapporti tra le tre centrali confederali scagliate su orbite differenti d a l l ' i m p l o s i o n e del patto di R o m a si sveleniscono, così c o m e è durante il ciclo di lotte unitarie di base della fine di quel decennio che esse capiscono c h e quanto le unisce p u ò esser più forte di quanto ancora le divide, e che la ricerca d e l l ' u n i t à sindacale, perduta nel 1948, passa ora attraverso inedite figure organizzative di rappresentanza endoaziendale (i consigli di fabbrica). Sorge allora quella spinta unitaria che porta, nel 1972, alla

costituzione, seppur altamente diplomatizzata, di una federazione C G I L - C I S L - U I L che, lasciando i m m u t a t a l'integrità organizzativa dei sindacati firmatari, vi aggiunge però, a ciascun livello territoriale e di categoria, una struttura c o m u n e a c o m p o s i z i o n e paritetica. M a , anche con questo, in realtà, lo spirito del collateralismo non è affatto sepolto. L o si p u ò constatare, nel breve volgere di pochi anni - ed in m o d o del tutto speculare - in a l m e n o due occasioni. U n a prima volta, q u a n d o la stessa f o r m u l a del patto federativo, per a m b i g u a che sia, riesce ad offrire, con la c.d. linea d e l l ' E U R , cioè con la proposta di uno s c a m b i o di a m p i o respiro tra m o d e r a z i o n e salariale da un lato ed obiettivi di m a g g i o r e occupazione, di sviluppo e di r i f o r m a dall'altro, un concreto punto di riferimento sociale (appunto, unitario), anche sul piano delle istituzioni, ad esecutivi di «solidarietà

nazionale» che stanno in piedi, nella seconda metà degli anni Settanta, solo grazie alla non • sfiducia, e poi alla convergenza

(parlamentare, ancorché non : governativa), proprio della

maggior forza politica I storicamente discriminata fino a

quel momento. Una seconda ; volta (ma a segno politico

nettamente invertito), quando, in occasione del durissimo : contrasto che culmina nel

Protocollo (separato) d'intesa del febbraio 1984 (e, con esso, nell'inizio della fine del sistema di scala mobile), e di fronte al mutato atteggiamento dell'esecutivo, che si fa marcatamente interventista, I ognuno fa la sua scelta di | campo, parallela appunto a

quella compiuta dalle forze 5 polìtiche di storico riferimento ) (esemplare, sotto questo profilo. 1 l'opzione filogovernativa della 3 componente socialista della ) CGIL), consentendo così al ) Governo di sottrarsi alla q procedura consociativa e di s assumere, dopo aver a lungo

«trattato», il ruolo davvero s ' anomalo della «parte che 3 decide». Un neocollateralismo, q potremmo dire, che dura fino s . allo sfortunato referendum sul • ¡ «decreto Craxi» dell'anno ? successivo, e che, in ogni caso, i ne contribuisce all'esito ^ negativo: affossando, nel 1 frattempo, il patto federativo.

i si domanda, adesso, se e | M y quali forme di ^ ^ collateralismo potranno q perpetuarsi in un contesto di 3 democrazia almeno 1 tendenzialmente maggioritaria. 1 Ma è bene premettere che gli j ultimi episodi di affiancamento 3 organico a partiti o schieramenti q politici sono proprio quelli or 3 i ora rammentati. E vero: 3 continuano, per qualche tempo, q prassi deleterie, del resto 6 apertamente ammesse (ad es., i f finanziamenti socialisti alla q parallela componente della ) CGIL), ma quel che rileva i maggiormente è il consolidarsi

) ; (e proprio a partire dai 1 Protocolli d'intesa del gennaio 1 1983 e del febbraio 1984) d'una q pratica per molti aspetti diversa: p ; quella della concertazione g sociale.

I Infatti, questa si traduce in e accordi formali, di tipo u tripolare, tra le forze sociali e il ) Governo, che in qualche modo » «saltano» il rapporto diretto con

i il partito politico come soggetto 3 costituzionale e privatistico ad u un tempo, e «saltano» altresì la n mediazione parlamentare: o, n meglio, la posticipano al n momento della traduzione in il termini legislativi del contenuto b degli accordi direttamente li intercorsi con l'esecutivo. Sarà q per la stessa crisi che ormai e attraverso la «forma partito» e -j che in concreto travaglia i partiti il tradizionali, alcuni dei quali il letteralmente deflagrano ed altri,

trasformandosi, perdono quell'identità «forte» che era già andata, per vero, logorandosi e appannandosi da tempo. Sarà per l'estrema complessità delle materie trattate, che non riguardano ormai più - ma questa è, in qualche modo, una costante che si tramanda dalla «linea dell'EUR» in poi -soltanto i lavoratori dipendenti, bensì tutti i cittadini, e che esige un imponente apparato di competenze tecniche e, soprattutto, la diretta disponibilità di risorse che solo il Governo detiene. Il fatto è che, se un problema questi Protocolli d'intesa sollevano più di ogni altro, si tratta d'un aspetto del tutto diverso: l'effettivo consenso (almeno) dei lavoratori (ed è una questione che si manifesta in modo addirittura esplosivo quando il maxiaccordo del 31 luglio 1992, sottoscritto a fabbriche ormai chiuse, pone la parola line alla lunga agonia del sistema di scala mobile, senza però sostituirlo con alcun altro strumento di adeguamento salariale). In effetti, il consenso dei lavoratori verrà cercato ed ottenuto (sia pure in misura modesta) solo con il successivo Protocollo, del 23 luglio dell'anno dopo. Paiono proprie queste - il significato nuovo e la diversa portata che possono assumere le procedure di concertazione sociale in un quadro politico ed istituzionale definito in termini maggioritari, nonché il rapporto con i lavoratori iscritti e non iscritti - le coordinate (di metodo e di merito) entro la quale sembra doversi più correttamente trattare, oggi, la problematica che riguarda l'autonomia del soggetto sindacale, a fronte di un contesto, ormai forse non modificabile nel breve periodo, di radicale modificazione dei meccanismi della

rappresentanza politica.

0 1 Governo — qualunque / m Governo - resta un

^ interlocutore di cui le forze sociali non possono fare a meno. Non soltanto come datore di lavoro pubblico, ma anche come negoziatore dalle risorse da destinarsi ai trattamenti previdenziali e pensionistici oppure a sostegno dei redditi, o di misure di promozione dell'occupazione, e quindi di investimenti e di politiche atte ad incrementare il tasso di crescita del sistema. E, poiché il sindacato tende a dar voce a tutti i lavoratori, iscritti o no che siano, ma anche - sia pur senza potere di rappresentanza e in quanto non surrogato da altri soggetti - a strati più ampi di cittadini come contribuenti o come destinatari della sanità pubblica ovvero come obbligati a determinati prezzi o tariffe ecc., ecco che in questo

negoziato con l'esecutivo non potranno che rientrare vari altri aspetti della politica economica, concernenti il fisco e il welfare nel suo insieme.

Ma, in un contesto di democrazia maggioritaria, o addirittura in un sistema almeno tendenzialmente bipolare, è proprio la disponibilità di un'ampia e stabile maggioranza parlamentare a suo sostegno quel che rafforza,

nell'esecutivo, la sua, del resto fisiologica, vocazione a prendere ed imporre decisioni coerenti alle politiche cui si è elettoralmente impegnato: vi sia o no, o anche se v'è solo in parte, il consenso del suo interlocutore. Come dire che si assottiglia, in concreto, il margine di negoziabilità, e diminuisce il potere contrattuale della controparte. Al limite, quando non vi sia accordo, l'impulso decisionista potrà essere bilanciato (lo si è visto con le lotte d'autunno in tema di pensioni contro il Governo di allora) solo con l'esibizione di un contropotere di fatto, capace, su punti o problemi determinati, di conquistare nel Paese un consenso maggiore. Il metodo delle grandi gransazioni sociali subisce, in questa ipotesi, uno scacco. Ma. anche quando non si arrivi a tanto, è la stessa concertazione che, in quanto condotta esclusivamente con un esecutivo formatosi secondo le regole proprie di un sistema politico maggioritario, rischia di trovarsi offuscata e

compromessa nel lungo cono d'ombra dell'interesse pubblico, così come interpretato dal Governo. A poco varrà, allora, la stessa «concertazione della concertazione», cioè la predeterminazione di «sessioni» di confronto sulle politiche economiche e di bilancio, come operata, ad es., dal Protocollo d'intesa del luglio 1993. A ben vedere, però, il destino del sindacato come soggetto politico autonomo non è, neppure in questo contesto, segnato da una qualche maligna costellazione di astri. Ciò che importa è rimediare a certe gracilità dei suoi attuali strumenti. Il che può avvenire, ad una prima approssimazione, lungo tre precise direttrici. La prima di esse è data dalla necessità di decidersi a costruire forme davvero unitarie attorno ad un progetto comune perché condiviso. Solo in questo modo, di fronte ad un esecutivo che il sistema maggioritario rende, almeno in prospettiva, se non un monolite, almeno assai più coeso e sicuro, potranno divenire più difficili cedimenti ulteriori, ad es. in veste di accordi separati: nel caso contrario, il rischio è quello della formazione di sindacati, se non di comodo, per lo meno accomodanti da un lato, e, dall'altro, di sindacati di pura

rivendicazione e protesta. Il vero problema, però, è come arrivare all'unità: se

diplomatizzata dai vertici, o se, invece, come proiezione del generalizzarsi delle attuali rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro (RSU) e del loro diretto coinvolgimento nelle strutture e dunque nelle politiche, anche «orizzontali», del sindacato stesso.

Il che si lega direttamente ad un secondo aspetto, di carattere strettamente qualitativo: saper scegliere, cioè, tra un modello di sindacato nel quale, almeno in estrema istanza, a decidere debbano essere i titolari dei diritti sui quali si esercita la contrattazione, o invece un modello diverso, in cui - fatte salve sia le regole della democrazia interna associativa, sia procedure certe per la consultazione dei lavoratori anche non iscritti - l'ultima a decidere non possa che essere l'organizzazione. Ora, se è vero che l'unità da cercarsi, nei nuovi frangenti istituzionali, può essere vincente solo se è immune da rilevanti dissensi interni, ne consegue che dovrebbe accordarsi la preferenza ad un sindacato che, senza minimamente sottrarsi al diritto-dovere della proposta, riconosca però a tutti i lavoratori interessati il diritto di esprimere la loro opinione, e la assuma come vincolante. La terza direttrice dovrebbe essere data - in connessione, anch'essa, con la prima - da un'autonomia programmatica che possa farsi valere non sole nelle stanze dell'esecutivo, ma anche nelle commissioni parlamentari (contribuendo, così, a rivalutarne il ruolo). Un'identità da intendersi come l'esatto contrario dei vecchi collateralismi, e da spendersi nei confronti del Governo, ma anche (e in modo sistematico) rispetto a tutte le altre forze politiche, e dunque anche con l'altro corno d'un sistema ipotizzato come

(tendenzialmente) bipolare; e che sappia perseguire un collegamento costante e interattivo tra l'elaborazione progettuale di più lunga gittata e le dinamiche reali di una prospettiva politica di immediato o breve termine: curando cioè che la differenza logica tra i due momenti, fra loro necessariamente distinti, non dia luogo ad intervalli di disomogeneità e di incertezza. Anche perché sarebbe veramente importante (ma, a

questo punto, può diventare essenziale) se le risposte, anche le più immediate, date dal sindacato alle proposte o ai disegni governativi potessero sottrarsi alle pratiche

dell'estemporaneità e contenere, sia pure in nuce, volta per volta, gli elementi portanti dì un più ampio e complesso quadro propositivo.

D E M O C R A Z I A ® ' referendum Segni sulla D O M A U T I P A ? legge elettorale del Senato, "u m H n l 1 la strategia maggioritaria di Mario Dogliarti del Pds ("i cittadini h a n n o

il diritto di eleggere il governo", e quindi bisogna "restituire lo scettro al principe"), il m o d o con cui è stato interpretato il vincolo derivante dalla pronuncia popolare, l'ispirazione delle attuali leggi elettorali, i precedenti che il G o v e r n o Berlusconi - e la sua ex maggioranza, anche durante la f o r m a z i o n e del governo Dini - hanno cercalo di porre interpretando

"maggioritariamente" la f o r m a di governo, l'accoglienza che è stata riservata da più parti alle pronunce della Corte che nel gennaio del 1995 h a n n o dichiarato inammissibili i r e f e r e n d u m elettorali proposti da Pannella, il dilagare della "sondocrazia", il largo c o n s e n s o che riscuotono le proposte presidenzialiste (a destra e nel centro-sinistra: da Fini a Segni)... sono tutte manifestazioni di un unico f e n o m e n o : in Italia, nel popolo e nelle elites, nelle forze della destra e in quelle della sinistra, è diventata d o m i n a n t e la "concezione romantica della d e m o c r a z i a " ; quella che, secondo Ota W e i n b e r g e r (Neil M a c C o r m ì c k , Ota W e i n b e r g e r , Il diritto come istituzione, Milano. 1990, p. 314) «viene espressa nella maniera più grossolana dalla tesi "il popolo non sbaglia mai"».

/ f / f / A a hi tesi della M È f ^ giustezza i m m a n e n t e

della volontà popolare obietta W e i b e r g e r -«è significativa solo fintantoché ... stabilisce che in d e m o c r a z i a l'utilità sociale è determinata dagli interessi del popolo», e tenendo presente che «anche qui vigono delle limitazioni», perché «le soluzioni dei problemi sociali non p o s s o n o essere rinvenute dalla m a s s a del popolo» e perché «la

valutazione dei provvedimenti sociali dipende dall'analisi delle loro conseguenze, da

informazioni e da esperienze valutative, che di regola non sono mai accessibili alla m a s s a del popolo». «Le posizioni valutative delle m a s s e -prosegue il nostro autore - sono, inoltre, in misura elevata manipolabili. Le masse popolari si lasciano entusiasmare anche per la guerra totale, sebbene la fame, milioni di morti ed altre c o n s e g u e n z e della guerra non corrispondano affatto agli interessi del popolo. La concezione romantica della d e m o c r a z i a si f o n d a s u l l ' a s s u n z i o n e assai p o c o plausibile che mentre il singolo deve agire sulla base di informazioni e di analisi sistematiche, le decisioni collettive deliberano "per puro istinto" il giusto, un po' secondo il detto "vox populi, vox dei". La

concezione romatica della democrazia produce si slogan efficaci, ma al costo della rovina della democrazia».

Proprio per evitare il dominio del pensiero per slogan - e, p o t r e m m o aggiungere tenendo presente l'esperienza italiana, della politica fatta "per c a m p a g n e " - W e i n b e r g e r propone una "teoria della democrazia strutturata", i cui punti salienti sono che «bisogna introdurre f o r m e differenziate di decisione» che «bisogna preferire alle decisioni prese per m e z z o di semplici votazioni quelle alle quali si giunge mediante deliberazioni e partecipazioni alla discussione», e che bisogna intendere la funzione delle elites democratiche « c o m e attività creativa nell'interesse del popolo», nel senso che «le elites creano idee direttrici. Esse non sono meri portavoci delle opinioni delle masse» (ivi, p. 320).

La prima edizione, in lingua tedesca, del libro di Neil M a c C o r m i c k e Ota W e i n b e r g e r , è del 1985. Da allora il rischio della rovina della d e m o c r a z i a ad opera di questa concezione della volontà popolare c o m e intrinsecamente ed aprioristicamente giusta si è fatto, in tutto l'Occidente, sempre più grave ed incombente, e la versione " r o m a n t i c a " della d e m o c r a z i a ha lasciato il posto a quella "nazional-populistica", ben più minacciosa ed inquietante.

on è solo l'Italia a vivere questa deriva. Il f e n o m e n o tocca anche quei paesi cui la cui f o r m a di g o v e r n o o le cui leggi elettorali vengono, nel nostro dibattito, assunte a modello di

democrazia, m a che invece, agli occhi dei loro osservatori interni, presentano i preoccupanti caratteri della d e m o c r a z i a non strutturata. Il 10 gennaio 1995 Jean-Marie C o l o m b a n i , direttore di Le Monde, ribadiva la linea del giornale r i a s s u m e n d o l a con queste parole: «le parti pris de la raison contre la folie des h o m m e s , l ' e n g a g e m e n t du pluralisme contre

l ' u n i f o r m i s a t i o n des idées, 1 a confiance dans une société riche de ses acteurs contre

l'identification à un chef, l'espoir dans la renaissance des corps intermédiaires contre le face-à-fàce entre l'Etat et

l'opinion qui laisse le champ libre au nationaux-populismes, la coscience enfin que la

volonté tranformatrice ne doit j a m a i s être en repos» (corsivo mio).

E ovvio che i corpi intermedi cui fa riferimento C o l o m b a n i non sono i gruppi di interesse che influenzano dal di fuori la politica statuale. L'espressione è certamente derivata da

Montesquieu, e designa i corpi la cui presenza, in quanto base materiale della divisione del potere, è condizione necessaria, e garanzia, della libertà: nel costituzionalismo del Novecento questi corpi intermedi sono stati i partiti di massa e le organizzazioni delle "forze produttive" (sindacati dei lavoratori e associazioni rappresentative del padronato).

iù esplicito nell'augurarsi la presenza di forti partiti, • A - contro le insufficienze e i rischi della attuale democrazia non strutturata, è stato (in riferimento all'esperienza degli USA) Robert Dahl. In una intervista a l'Unità del 9 febbraio 1994 il politologo che ha teorizzato la forma poliarchica delle moderne democrazie, dopo aver sottolineato come positivo il «forte ampliamento dei gruppi di interesse organizzati ... perché alcune parti della società che prima non avevano voce in capitolo adesso riescono a essere meglio rappresentate (... le donne, gli anziani... gli ambientalisti)», ha affermato: «il problema però è che a questa crescita dei gruppi di interesse, che sono anche di tipo economico, non ha corrisposto un'adeguata crescita delle istituzioni che dovrebbero integrare e armonizzare gli interessi diversi, e quindi portare ad un percorso legislativo che tenga conto dell'armonia necessaria e della compatibilità tra gli interessi degli uni e degli altri. ... Le istituzioni preposte a questo sono appunto i partiti: so che in Italia i partiti possono portare più alla frammentazione che alla armonizzazione, ma negli Usa funziona esattamente al contrario. Quello che succede adesso ... è che, mentre il partito è molto forte in Congresso, non lo è altrettanto nei periodi elettorali e preelettorali, anzi si frammenta. ... Quindi la mediazione diventa difficilissima Io penso che sarà necessario arrivare a cambiamenti costituzionali ... dobbiamo prendere in considerazione un modello parlamentare». E per un modello parlamentare Dahl intende un sistema

caratterizzato dalla presenza di un Parlamento di partiti fortemente rappresentativi (capaci già di una prima mediazione tra gli interessi e i gruppi sociali), il che sarebbe pur sempre compatibile col fatto che «la base fondamentale del sistema politico americano [resti] quella di un sistema presidenziale». Ciò che gli interessa sottolineare sono i limiti di una democrazia che non riesce ad organizzare in modo stabile la rappresentanza "intermedia", e dunque non

riesce a configurare la vita istituzionale (legislativa) come una mediazione e una armonizzazione continua tra gli interessi in conflitto.

ostenendo queste tesi, Dahl mostra preoccupazioni analoghe a quelle che aveva denunciato Rawls in una pagina della sua A Theory of Jastice (1971, tr. it., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 194-6). Anche Rawls, in quel testo ormai classico, prende posizione, in modo nettissimo, a favore della democrazia organizzata in partiti. Ed argomenta in questo modo. Il nucleo della

democrazia - egli dice - consiste nel fatto che tutti devono godere di uguale libertà politica. Questa

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