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L’icona salverà il mondo

Tutta la storia della Russia si è svolta sotto il segno dell’icona. Molte icone miracolose sono state testimoni dirette dei più profondi cambiamenti che la storia del paese abbia mai registrato.

Come già detto in precedenza, i teologi ortodossi hanno sottolineato il ruolo dell’icona come “quadro per gli analfabeti”, un modo per offrire istruzioni visive sulle storie del Vangelo, i giorni di festa, e le vite dei santi. Un esempio diffuso del suo ruolo didattico è l’icona agiografica, in cui la figura del santo è circondata da celle che raccontano gli episodi chiave della sua vita.

Nella tradizione della Chiesa bizantina, il valore essenziale dell’icona è certamente la bellezza, che in russo si esprime con il termine krasota. Riprendendo la celebre frase di Dostoevskij fatta pronunciare al protagonista de L’Idiota, il principe Miškin,

La bellezza salverà il mondo…, è deducibile che la krasota non

racchiude in sé il concetto di bellezza inteso come valore puramente estetico, ma esprime un significato ben più profondo, teologico, ed è subordinato a un fine etico e spirituale. Su questa considerazione anticonvenzionale della bellezza, si fonda il suo valore più intimo e nascosto: una bellezza che riuscirà a ridare ordine alla vita, un senso all’esistenza dell’uomo. Ed è proprio l’icona a incarnare questa bellezza, una

bellezza non esprimibile, interiore, invisibile (nevidimoe) che diventa visibile (vidimoe) nella perfezione dell’immagine. L’icona non è bella per se stessa, come oggetto, ma nel fatto che essa rappresenta la Bellezza66. È un modello teologico, secondo il quale bisogna plasmare il mondo e le coscienze. Questa realtà è ben spiegata in un saggio di Silvia Burini, nel quale si asserisce che “l’icona è la forma artistica in grado di esprimere la rivelazione di Dio e lo svelamento della verità dell’uomo, è il veicolo dell’ineffabile che così viene reso presente nella sua realtà simbolica, è un luogo teologico dove la parola è espressa in immagini…67”.

L’icona non deve rappresentare la realtà o la natura; in essa non trova posto ciò che è casuale e transitorio. Per questa ragione l’icona non rappresenta la carne corruttibile, ma la Carne deificata, trasfigurata, illuminata dalla Luce divina, e si rivela nella somiglianza con il Prototipo68. Tutto ciò che fa parte del mondo terreno è estraneo alla natura dell’icona, perché “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità” (1 Cor 15,50). Il dogma di Calcedonia del 451 afferma che “…il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, […] consustanziale a noi per l'umanità, [è] «simile in tutto a noi, fuorché nel peccato»” (Eb 4,15). Cristo, fattosi uomo, muore nella carne, ma la cristologia orientale, come detto in precedenza, vieta qualsiasi rappresentazione ed esaltazione della sofferenza. Il Cristo rappresentato in croce ha già vinto la morte, e anche se inchiodato69, è visto nella gloria della

66 USPENSKIJ, LOSSKIJ, Il senso delle icone.., cit. p. 33.

67 SILVIA BURINI, La bellezza (delle cose) salverà il mondo, testo di accompagnamento all’articolo di KATYA MARGOLIS, Icone quotidiane, “eSamizdat”, 2007(V) 3, p. 268.

68 USPENSKIJ, LOSSKIJ, Il senso delle icone…, cit. p. 33

69 C’è da notare una sostanziale differenza nella rappresentazione della Crocifissione nelle icone e nelle opere di pittura occidentale. Mentre la

resurrezione. L’arte orientale non è interessata all’aspetto umano e psicologico. La vista dell’icona non deve suscitare sgomento e provocare nell’uomo sentimenti negativi. Motivo per cui, non si ritrova nelle icone russe immagini di Cristo dolorante e sofferente70.

L’insistenza a non rappresentare nell’icona la carne corruttibile pone in rilievo alcuni problemi. Uno dei principali è dato dall’impossibilità di raffigurare il ritratto di un uomo, dato che

tradizione bizantina e russa raffigurano il Cristo in croce con i piedi trafitti da due chiodi e ben distanziati, nella versione occidentale si raffigurano i piedi sovrapposti e perforati da un unico chiodo, per accentuare maggiormente la curva del corpo di Cristo e conferire maggiore senso drammatico.

70 Il tema del Cristo umano e sofferente nella morte è stato affrontato anche in alcune pagine di un famoso romanzo di Dostoevskij, L’Idiota, e trae origine dall’emozioni che suscita in Dostoevskij la visione di un famoso quadro di Hans Holbein il Giovane, Il corpo di Cristo morto nella tomba (30.5 x 200 cm). Il dipinto è conosciuto come l’immagine più realistica di Cristo nota fino ad allora. La storia del dipinto è sconosciuta. Secondo la data riportata sulla tela, la data di creazione sarebbe il MDXXI (1521), ma lo studio a raggi X ha permesso di rilevare un’altra lettera “I”, spostando dunque la data di esecuzione di un anno in avanti. Gli studiosi hanno ipotizzato che potesse far parte di un altare, ma la ricerca delle restanti parti non ha portato alcun risultato.

Il quadro di Holbein colpisce per la realisticità della scena: Cristo è raffigurato come un qualsiasi cadavere, senza nessuna aurea di regalità e maestà. Il corpo porta vivi i segni delle ferite e delle percosse, gli occhi vitrei sono semi aperti e le labbra irrigidite. Sul cadavere sono visibili i segni del processo di decomposizione: mani, piedi e volto. Nessuno della famiglia è raffigurato intorno a lui. È un uomo solo davanti alla morte.

Dostoevskij ebbe modo di vedere il dipinto al museo di Basilea nel 1867 e ne restò profondamente colpito. Il suo turbamento e le impressioni suscitate alla vista dell’opera furono affidate ad Ippolit che ne L’Idiota dice: «ll viso di Cristo era atrocemente sfigurato dai colpi, tumefatto, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille storte; il bianco degli occhi, ampio e scoperto, brillava di un riflesso vitreo, cadaverico». Ma il quadro viene citato per due volte. Rogožin ha in casa una copia del lavoro del pittore tedesco e, alla vista del dipinto, il principe Myškin afferma: «Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede». «E infatti si perde», conferma Rogožin. Per approfondire l’argomento, si vedano: JEFFREY MEYERS, Holbein and the

Idiot, in ID, Painting and the Novel, Manchester, Manchester University Press, 1975; OSKAR BÄTSCHMANN, PASCAL GRIENER, Hans Holbein, London, Reaktion Books, 1999.

ciò mostrerebbe solo la sua condizione umana, carnale, non trasfigurata71.

Parafrasando Grabar’, lo sforzo dell’iconografia bizantina (concentrata sui temi teofanici) è di giungere a delle immagini da guardare “con gli occhi dello spirito72”. E qui ci potremmo ricollegare alla filosofia neoplatonica. Ciò vuol dire, infatti, che la visione fenomenica offerta abitualmente dall’immagine agli occhi, può essere elevata a una visione più alta (visione intellettuale) poiché, attraverso la stessa, lo spettatore preparato può contemplare la realtà “noumenica”, la sola che esista, ovvero il Noûs neoplatonico (l’Intelligenza superiore), cioè Dio e il mondo intellegibile che lo circonda73. L’unico elemento reale: il resto è il vuoto, il “Non-essere”.

Quindi, in una visione che cerca di aprire gli occhi dello spirito alla dimensione di una realtà sovrasensibile, si riducono al minimo, sul piano della raffigurazione pittorica, i punti di

71 Il passaggio che conduce ai primi ritratti profani, dalla ikonopis’ (rappresentazione di immagini sacre) alla živopis’ (rappresentazione di ciò che è vivente) inizia a metà tra il XVI e il XVII secolo, quando si avverte un forte influsso della cultura polacca e ucraina su quella russa. In pittura, i cambiamenti riguardano il modo di trattare i personaggi nell’icona: essi perdono la loro parte spirituale, la magrezza, il senso del digiuno e delle sofferenze. I santi vengono dipinti come persone vive, con colori accesi, in cui si da risalto alla parte carnale, rispettando le naturali dimensioni del corpo umano. La penetrazione dei modelli e dei ritratti europei, soprattutto francesi, spinge molti zar e nobili a farsi ritrarre. Si sviluppa la tradizione del

parsun, che si potrebbe definire come una forma di “protoritratto”. I dogmi

dello stile iconografico tradizionale cedono il passo a una raffigurazione più “veridica”: si rispettano i volumi, le luci e le ombre, la prospettiva rovesciata viene abbandonata in favore di una prospettiva più lineare, al fine di trasmettere l’idea della materialità del mondo. Tuttavia, è necessario attendere fino ai primi anni del XVIII secolo, quando i mutamenti nel campo della raffigurazione divengono sostanziali. Il ritratto appare in tutte le sue varianti tipologiche: da cavalletto, da camera, da parata. In esso si sviluppano e si distinguono tutte le caratteristiche semantiche e tipologiche della tradizione pittorica occidentale: la proporzionalità anatomica della figura umana, l’uso reale dei colori, la profondità dello spazio, la tridimensionalità e la plasticità delle forme.

72 ANDRE GRABAR, Les Voies de la création en iconographie chrétienne:

Antiquité et Moyen, Paris, Flammarion, 1979, p. 21.

contatto tra la rappresentazione e la natura. L’immagine

tradizionale dell’arte classica si “smaterializza” per divenire più

conforme a un’evocazione dell’Intelligibile: scompare il volume, l’ombra, lo spazio, il peso, la varietà dei gesti, delle forme e dei colori, scompare ogni punto prospettico; il ritratto – semplificato, depurato, astratto, composto nella sua aspirazione all’immobilità – si serve di tipi precostituiti che ignorano o quasi i tratti individuali74.

Rifacendosi alla filosofia di Plotino75, al quale, secondo Grabar’, risale l’estetica medievale, si può affermare che, per contemplare con gli “occhi interiori” la bellezza e rivelare il riflesso dell’Intelligibile, l’Io deve uscire da sé ed essere assorbito dal tutto76.

74 Ivi, p. 23.

75 Secondo Plotino, la visione fenomenica rimane al servizio della realtà noumenica, della rivelazione divina. Solo abbandonando il rapporto con la realtà sensibile, l’immagine può finalmente accedere alla visione astratta dell’Intelligibile. Si può dedurre che, sul piano della teoria dell’immagine, paganesimo e pensiero cristiano tendono a trovare molti punti di similitudine. Per Plotino, infatti, la materia non è che il riflesso dell’intelligenza: in tal modo il mondo diventa trasparente allo spirito quale mezzo imperfetto per approdare a una verità superiore. Cioè, il mondo spirituale è superiore e preferibile a quello materiale. La bellezza da questo punto di vista, deve essere contemplata con “occhio interiore”, poiché l’anima, nel cercare di risalire all’amore del Bene, disdegna le bellezze terrene. Si comprende allora il ruolo dell’arte rispetto al “modello ideale”. Si legge nell’Enneadi (V, 8, 31): “Se qualcuno disprezzerà le arti perché le loro creazioni sono imitazioni della natura, diremo anzitutto che anche la natura imita un’altra cosa. E poi bisogna sapere che le arti non imitano semplicemente le cose che si vedono, ma si elevano alle forme ideali, dalle quali deriva la natura. E si dica inoltre che esse producono molte cose di per se stesse, in quanto aggiungono alla natura qualcosa che a esse manchi, poiché possiedono in se stesse la bellezza”. Cfr: PLOTINO, Enneadi [III sec. D. C.], a cura di GIORGIO FAGGIN, Milano, Rusconi, 1992, pp. 905-907.

76 “Lo stato di contemplazione dell’Intelligibile non è accompagnato da una coscienza di se stessi, ma tutta la nostra attività è diretta verso l’oggetto contemplato: noi diventiamo questo oggetto, noi ci offriamo a lui come materia cui esso dà forma, noi non siamo più noi stessi se non in potenza. Per vedere bisogna perdere la coscienza di sé, e per avere coscienza di questa visione bisogna in qualche modo cessare di vedere. Se dunque vogliamo vedere avendo coscienza della visione, dovremmo distaccarcene sufficientemente…” (Ivi, p. 24).