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di Martin Weller

2.4. Identità di rete

L’ambito dell’identità accademica digitale è probabilmente quello che ha conosciuto un maggiore sviluppo nell’area della digital scholarship, sia in ter- mini di pratica che di ricerca. Veletsianos e Kimmons (2012) utilizzano l’e- spressione Networked Participatory Scholarship (NPS) per riferirsi all’uso dei social network da parte degli studiosi per “cercare, condividere, riflettere, criti- care, migliorare e validare la loro attività accademica”.

Alcuni dei benefici prospettati nel 2011 sono diventati adesso evidenti. Ad esempio, Stewart (2016) osserva che avere una identità online aumenta la visi- bilità per i ricercatori non ancora di ruolo, e fornisce loro una qualche forma di protezione in un contesto di precarietà della carriera accademica. Nel suo stu- dio, Stewart ha riscontrato che “tra gli accademici junior e gli studenti laureati coinvolti nello studio, le maggiori opportunità in termini di visibilità online, vi- sibilità nei media e perfino posizioni accademiche erano tributate a coloro che facevano un investimento a lungo termine rispetto alla propria identità accade- mica online”. Lupton (2014) riporta che gli accademici usano spesso i social media in maniera strategica, ad esempio per creare reti, condividere informa- zioni, pubblicizzare e sviluppare ricerche, dare e ricevere supporto. Analoga- mente, un altro lavoro sugli accademici blogger (Mewburn e Thompson, 2013) mostra come li usino per affrontare tematiche inerenti al lavoro accademico e alle relative policy, per condividere informazioni e fornire consigli, come a creare una sorta di “economia del dono”.

Le nuove identità possono tuttavia essere in conflitto con quelle tradiziona- li, come sottolinea Costa (2013, p. 171) affermando che “le istituzioni di istru- zione superiore sono più inclini a incoraggiare forme convenzionali di pubbli- cazione piuttosto che approcci innovativi alla comunicazione della ricerca”. L’autrice sostiene inoltre che gli accademici digitali mettono in atto una sorta di “strategia del doppio gioco” attraverso cui introducono lentamente cambiamen- ti nelle proprie pratiche, portando simultaneamente avanti pratiche tradiziona- li per rimanere adeguati alla propria istituzione di provenienza (Costa, 2016).

Nel frattempo, i ricercatori stanno anche identificando gli aspetti negativi dell’attività accademica in rete. Stewart (2016) commenta che “le piattaforme di social networking sono sempre più riconosciute come luoghi di misoginia, razzismo e molestia”. Inoltre, i benefici dell’uso dei social media possono an- che non essere uguali per tutti: Donelan (2016), ad esempio, registra che il li- vello percepito di risultati positivi, compresi quelli riguardanti la progressione di carriera, sono associati con livelli sempre più alti di attività. A fronte di un alto potenziale di democratizzazione dello spazio online, i social network spes- so riflettono e rafforzano l’esistente: le università con il rank più alto sono quel- le che hanno anche gli account Twitter più popolari (Jordan, 2017a), così i pro- fessori (associati o ordinari) generalmente sviluppano i network accademici più ampi di ricercatori o dottorandi (Jordan, 2017b). Mentre l’uso dei social media è di solito riconosciuto e incoraggiato dalle università, Costa (2015, p. 194) suggerisce che “questa apparente libertà per i soggetti di reinventare le logiche della pratica accademica ha in realtà un costo, perché tende a scontrarsi con le convenzioni del mondo accademico, piuttosto conservatore”.

In sostanza, l’accademico si trova a dover negoziare tra due mondi contem- poraneamente, che possono avere modi di operare e sistemi di valore diversi. Come evidenziato da Costa, gli accademici finiscono per giocare su entrambi i fronti: esiste tuttavia una sorta di saldatura tra le due modalità con un sem- pre maggiore riconoscimento del valore dell’identità online per raggiungere gli obiettivi accademici, anche se sono ancora le forme tradizionali quali la scrittura di articoli e la vincita di finanziamenti le modalità più significative di riconoscimento professionale. Ciò contrasta con quanto avviene nel mondo di- gitale, in cui il prestigio è il risultato di identità e capacità di attrarre attenzione (Stewart, 2015a).

In una riflessione sul tema, Ewins (2005) utilizza il termine postmoderno “multifrenico” per riferirsi alla molteplicità delle distinte identità che i ricer- catori proiettano all’esterno in quanto persona esperta della propria disciplina, persona proveniente da una determinata università o persona online. Sarebbe sbagliato ritenere vera solo una di queste identità, poiché sono tutte espressione di diversi aspetti dell’individuo, in ottemperanza alle norme sociali dei diversi

contesti. Dennen (2009) sottolinea che nel momento in cui un accademico crea il suo blog, deve effettuare decisioni rispetto all’identità: che tipo di tono adot- tare nel blog? Quali argomenti affrontare? Quanta parte della vita personale dell’autore verrà condivisa? La studiosa conclude suggerendo che, esattamente come succede in università, anche online esistono una serie di norme sociali, a cui i blogger aderiscono. Le norme relative all’identità si formano attraverso la blogosfera ad alta connessione “basata su un movimento virale di azioni indivi- duali tra blog”. Tutto ciò diventa particolarmente problematico nel caso dei so- cial network, che per loro natura tendono a eliminare i confini tra vita professio- nale e vita personale (Veletsianos e Stewart, 2016) rendendo difficile separarle.

2.5. Aspetti critici della Digital Scholarship

Sulla scia del riconoscimento degli inconvenienti legati all’identità accade- mica online, possiamo collocare quel crescente corpo di studi che esaminano in maniera critica la digital scholarship.

A fronte di una molteplicità di approcci, un aspetto critico prominente sem- bra essere quello delle tecnologie educative in generale, con un accento sul ruo- lo delle aziende. Una delle conseguenze dell’avvento della digital scholarship e delle pratiche open è la crescente attrattiva che le aziende hanno verso il merca- to dell’educazione. Larga parte della narrazione sulla digital scholarship è asso- ciata al tema del cambiamento, che viene velocemente fagocitato da fenomeni di commercializzazione, mercificazione e massificazione dell’educazione.

Ad esempio, un report sulle mutazioni dell’istruzione superiore (Barber, Donnelly e Rizv, 2013) argomenta che un cambiamento sistematico è inevita- bile, perché “gli elementi dell’università tradizionale sono minacciati da que- sta valanga che avanza. Nei termini di Clayton Christensen, le università sono prossime al punto di rottura”. Il concetto di rottura di Christensen (1997) è for- temente collegato con quello della Narrativa della Silicon Valley (Weller, 2015) che cerca di connettere il cambiamento tecnologico con le riforme del settore commerciale, spesso per favorire qualche nuovo arrivato. L’educazione, perce- pita come lenta, resistente al cambiamento e antiquata è vista da Christensen, Horn e Johnson (2008) sull’orlo di una rottura poiché – osservano – “la rottu- ra è come un capitolo necessario e in ritardo per le nostre scuole pubbliche”. Waters (2013) sostiene che la rottura sia diventata una sorta di mito culturale nell’industria tecnologica. Ciò lo si può, ad esempio, riscontrare nei discorsi re- torici che hanno accompagnato i MOOC, che sono stati proclamati come una ri- voluzione nell’istruzione superiore, per poi invece scoprire che attraevano solo un certo target ristretto di studenti.

La Digital Scholarship è quindi sempre più chiamata a reagire davanti a si- mili pretese sul ruolo della tecnologia, interrogandosi sulle ricadute sugli stu- denti, sulla pratica accademica e sulle loro implicazioni. Prendiamo ad esempio le learning analytics: da una parte molti lavori hanno confermato la loro utilità nell’aiutare studenti e docenti (ad esempio Toetenel e Rienties, 2016), ma altri hanno messo in discussione il loro ruolo rispetto all’autonomia e alla consape- volezza dello studente e al monitoraggio dei suoi progressi (McCarthy, 2016), oppure rispetto alle implicazioni di natura etica (Slade e Prinsloo, 2013). Lup- ton, Mewburn e Thomson (2017) mettono in guardia rispetto al fatto che l’uso troppo zelante dei dati è accompagnato dal sottovalutarne le implicazioni: “I dati vengono usati per stabilire delle norme in base alle quali vengono giudicate le persone (insegnanti e accademici, ma anche studenti)”.

Selwyn (2015) sottolinea l’importanza per gli educatori di approcciarsi in maniera critica all’impatto delle tecnologie in educazione, dal momento che “la concezione contemporanea di un ambiente educativo pervaso di dati digita- li richiede una ricerca e una critica capillari”. Questo include il fatto di essere auto-critici, così come la capacità di analizzare assunti e avanzamenti nel movi- mento della Digital Scholarship. Ad esempio, Gourlay (2015) sostiene che l’e- ducazione aperta, nonostante la vocazione ad essere anti-gerarchica, potrebbe in realtà rafforzare le strutture esistenti, e con esse l’immagine di “un apparato istituzionale onnipotente e onnipresente”.

In linea con questi approcci, la stessa ricerca sulla Digital Scholarship è pas- sata da una fase di advocacy per promuovere l’uso delle nuove tecnologie a una prospettiva più critica. Questo si deve in parte alle evoluzioni nei quattro am- biti tematici precedentemente descritti: poiché la digital scholarship è diventata parte del mainstream e la spinta verso la logica open ne ha creato un profilo più pubblico, il suo impatto è diventato più visibile, portando a riflettere sulle ri- cadute sociali delle tecnologie e sul ruolo stesso dell’educazione nella società.