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Il miracolo di Natale

Il tema che permea la trama dell’opera è la distruzione, creazione e ricostruzione dei legami familiari, argomento che il regista decide di sviluppare scegliendo come protagonisti delle figure totalmente estranee alla storia del cinema d’animazione, se non a quella del cinema stesso. Si potrebbe azzardare un paragone proprio tra la posizione del regista e quella dei tre personaggi principali: come loro hanno raccolto dalla spazzatura un bambino indesiderato, anche Kon recupera uno spunto scartato. “Le idee

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dei miei film arrivano dalla realtà in cui vivo”93. Tōkyō goddofāzāzu è un film che espone proprio alcune

sfaccettature di questa realtà a cui Kon si riferisce, quella del Giappone odierno. L’intento del regista è quello di realizzare un lungometraggio che porti alla luce tutti quegli aspetti presenti quotidianamente in Giappone, ma che spesso tendono ad essere oscurati. È un film dalle premesse completamente opposte a Sennen joyū: se in quest’ultimo la protagonista è un idolo delle masse, in Tōkyō goddofāzāzu i personaggi principali del racconto sono dei clochard, persone emarginate e ignorate dalle persone che vi camminano accanto.

La realtà dei senzatetto è uno dei gravi problemi che affligge il Giappone, ma che rimane comunque qualcosa di sconosciuto soprattutto all’estero, dove la conoscenza del Paese del Sol Levante è spesso limitata all’immagine del Giappone che traspare dai film esportati in Occidente. Il fenomeno ha origine nei primi anni Novanta in concomitanza con lo scoppio della bolla economica, l’inizio della crisi finanziaria e il conseguente calo del lavoro. Si tratta per lo più di uomini che di loro spontanea volontà si allontanano dalla propria famiglia in quanto non più in grado di mantenerla economicamente. In un primo momento il governo nipponico ha tentato di nascondere questa realtà poiché deturpava l’immagine della città, ma nel 1997 dato il continuo aumento delle stime sul numero dei senzatetto, è stato costretto ad accettarne l’esistenza. Grazie alla manovra di occultamento, si è venuto a creare il mito del Giappone, e in particolare di Tokyo, come stato ricco e prospero, luogo senza difetti in cui è impossibile che esista una realtà controversa come quella dei clochard.

Il regista attinge da questo ambiente proponendo una commedia brillante, ricca di humor e positività, un’opera dalla narrazione indubbiamente più ordinaria rispetto ai suoi precedenti lavori, ma dai personaggi e contenuti tutt’altro che consueti. Kon ha voluto creare un film che lui stesso definisce “un’opera che tocca i sentimenti”94, ma più che concentrarsi sulla rappresentazione dei sentimenti, il

maestro si focalizza sul modo in cui “toccarli”, su come farli arrivare allo spettatore evitando di creare un’opera dai toni eccessivamente stucchevoli. Ciò che permette la comunicazione delle emozioni, creando tuttavia un distacco tra pubblico ed eventi del film, è la scelta di Kon di utilizzare come protagonisti dei personaggi dei bassifondi di Tokyo. Solitamente nelle pellicole drammatiche è necessario creare un legame di empatia tra protagonisti e spettatori, questo vincolo viene tuttavia spezzato in Tōkyō goddofāzāzu perché la classe di appartenenza dei protagonisti, una realtà così tanto distante da quella di un eventuale pubblico, non permette allo spettatore di immedesimarsi in loro. Il

93 OSMOND, Satoshi Kon the Illusionist.

94 「ひねった人情もの」”hinetta ninjō mono”, definizione che lo stesso Kon attribuisce al contenuto di Tōkyō goddofāzāzu nella seguente intervista:

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rapporto che si verrà a creare sarà quello di una sorta di simpatia per i protagonisti e le loro vicissitudini, ma mai una completa immedesimazione in loro. Il risultato è una commedia positiva basata sui lati più negativi di Tokyo, dando la possibilità anche a tutto ciò che viene considerato immorale di redimersi e diventare portatore di un messaggio di gioia.

A catalizzare la vitalità del film vi sono le musiche di Suzuki Keiichi e del suo gruppo, i Moonriders, musicisti con anni di esperienza ma completamente estranei al campo dell’animazione. Le partiture sono meno cariche di quelle di Hirasawa, ma riescono a cogliere appieno lo spirito dell’opera, aggiungendo enfasi alle varie scene senza scadere in sentimentalismi forzati. Peculiare e simbolica è la scelta del regista di inserire come traccia principale dell’opera una versione remixata della Nona Sinfonia di Beethoven: l’Inno alla Gioia, tema che sublima il messaggio della pellicola.

Il film si apre con l’ormai assodato “falso inizio”, una delle tante peculiarità che contraddistinguono i lavori del regista. La scena iniziale introduce lo spettatore ad un recital di Natale allestito per la comunità dei senzatetto, evento organizzato per regalare anche alle persone meno fortunate una piacevole Vigilia di Natale. Compaiono quindi due dei tre protagonisti del film, il transessuale Hana e Gin, in fila per prendere una porzione di pranzo per se stessi e per la terza protagonista dell’opera, la scontrosa Miyuki. Sebbene in un primo momento la relazione tra i tre personaggi possa sembrare discordante, con il ritrovamento della bambina il quadro riguardante il loro rapporto si farà sempre più chiaro allo spettatore: il trio non si comporta come un semplice gruppo di amici, bensì come una vera famiglia. Ognuno di loro ha sciolto volontariamente i legami che li univa alla propria casa e ai propri affetti, ma sono riusciti a costruirne una provvisoria in cui Gin ricopre il ruolo del padre, Hana della madre, mentre Miyuki si comporta come la figlia adolescente e ribelle. A differenza di Pāfekuto burū e Sennen joyū dove la protagonista è una singola eroina che deve far fronte da

sola alle ombre e ai ricordi, qui il trio di protagonisti dovrà necessariamente muoversi in modo compatto per venire a capo delle svariate situazioni ai limiti dell’assurdo in cui si verranno a trovare per riconsegnare la neonata ai suoi legittimi genitori. È grazie a questa famiglia temporanea, al loro rapporto burrascoso ma sincero, che riescono ad affrontare ogni ostacolo e soprattutto a riallacciare i rapporti perduti con le loro vere famiglie.

Quella che Kon ha voluto inscenare è una storia ricca di coincidenze, il racconto di un vero e proprio “miracolo di Natale”. Nonostante possa sembrare un film lineare che ben rispecchia la realtà, il regista ha saputo introdurre anche in questa pellicola alcuni elementi fantastici che spezzano l’incredibile verosimiglianza che permea il lungometraggio. La serie di fortunati eventi di cui è costellata la trama

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sono il primo e il più evidente stratagemma che utilizza il maestro: il fattore del “miracolo ai giorni nostri” viene sfruttato da Kon come giustificazione per inserire coincidenze fortuite che difficilmente accadrebbero nella vita di ogni giorno. Questi eventi sostengono la narrazione e danno alla luce esilaranti gag comiche volte a spezzare la tensione nei momenti più drammatici del film, come per esempio il “vento divino” che salva Hana con la bambina in braccio in una delle scene finali. È possibile identificare il regista stesso in questa Divina Provvidenza che ricopre l’intero film, l’intervento decisivo del maestro per ribaltare una situazione che avrebbe altrimenti potuto concludersi in tragedia. Un altro elemento che accentua la componente irrealistica del film sono le espressioni caricaturali dei volti dei personaggi. Vi è una riscoperta da parte del regista della tecnica parodistica tipica dei manga: la mimica facciale accentuata ricorda molto quella dei disegni di Wārudo apātomento horā, recuperando così anche parte della vitalità energica caratteristica del fumetto. Espressioni e posture dei personaggi sono state accuratamente studiate dal regista per canalizzare il pathos di una determinata scena, senza tuttavia scadere nell’eccessiva teatralità. Se da un lato lo stile parodistico è ciò che aiuta a rendere entusiasmante il film, dall’altro consiste in nell’ennesima tecnica per distanziare lo spettatore dalle figure dei protagonisti, nonché mezzo che il regista utilizza per passare abilmente dalla tragedia alla commedia. Se i personaggi di un’opera si presentano esteticamente piacevoli risulterà più facile per lo spettatore instaurare un rapporto di empatia nei loro confronti, ma volendo Kon evitare proprio tale nesso, il regista ne ha intenzionalmente amplificato la fisionomia e i gesti, caratterizzandoli tuttavia in modo da risultare umani e credibili.

A creare una maggiore distanza tra lo spettatore e le vicende dei protagonisti sono gli innumerevoli espedienti comici rintracciabili all’interno del film: il regista affronta con ironia anche le situazioni più cupe, non soltanto tramite battute e reazioni esilaranti, ma anche prendendo in prestito alcuni artifici appartenenti ad altri mezzi di espressione quale la poesia oppure i videogame. Durante la rissa che avviene tra Gin e un gruppo di teppisti, situazione oggettivamente tragica, Kon ne attenua la drammaticità simulando l’inquadratura dei giochi di lotta, con le luci degli edifici che compaiono sullo sfondo come citazione delle classiche barre di energia rappresentanti la vita dei personaggi che si sfidano sul ring. Oppure ancora, nei momenti che Hana recepisce come particolarmente toccanti, ai lati dello schermo compaiono scritti gli haiku95 che lei stessa compone sul momento.

Nonostante gli accorgimenti presi dal regista per distaccare il pubblico dalle vicende della pellicola, gli scenari sono realizzati con grande ricercatezza per riprodurre fedelmente la città di Tokyo. È

95 Lo haiku「俳句」è un breve componimento poetico composto da tre versi tramite i quali il poeta esprime i propri sentimenti ispirandosi al paesaggio che lo circonda.

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un’immagine diversa dalla solita metropoli affollata che viene generalmente presentata nei film, i distretti gremiti vengono dipinti in una prospettiva differente, quella dei tre senzatetto.

Benché le strade siano frequentate da persone, il trio di protagonisti sembra passare inosservato alle masse, affievolendo la sensazione claustrofobica che l’instancabile Tokyo è solita comunicare. Nonostante la loro condizione sociale, quando i protagonisti camminano per le strade non sembrano fuori luogo, ma persone comuni come coloro che li circondano inconsapevoli. Gli unici casi in cui i tre clochard vengono notati dalla gente è quando questi si ritrovano dentro ai locali pubblici – come nella scena del conbini – oppure all’interno del tram, dove la folla di pendolari li addita per il loro olezzo. Anche quando vengono notati, quindi, lo sguardo che gli viene rivolto è uno sguardo negativo, quello di persone che si sentono libere di giudicare la loro posizione di indigenti senza nemmeno conoscere il loro passato. Al contrario, questo tipo di critica non viene espressa nei quartieri meno abbienti della città, luoghi su cui il regista concentra la propria attenzione.

Essendo i protagonisti dei senzatetto, sono le zone appartenenti ai bassifondi, come i vicoli o il retro delle vie principali, i luoghi in cui si muoveranno i personaggi. Per realizzarli, Kon e il suo staff hanno scattato svariate fotografie di diversi paesaggi della città, e di queste hanno scelto solo alcuni dettagli per poi riassemblarli insieme in nuovi scenari. Il film è stato realizzato interamente in computer grafica, permettendo al regista di utilizzare un interessante stratagemma per la composizione dei fondali: i grattacieli che contraddistinguono il panorama della capitale sono stati disegnati su un unico grande foglio di lavoro, successivamente ritagliato in scorci differenti a seconda della necessità richiesta dalla scena. La rappresentazione su più livelli ha favorito l’utilizzo di questa tecnica, nonché conferito una maggiore fluidità al movimento della camera. L’aggiunta di alcune texture sulle strade e sulle pareti degli edifici, garantisce una certa profondità al panorama e un conseguente aumento del grado realismo. Grazie a tutta questa serie di accorgimenti, lo spettatore è in grado di “entrare” nei luoghi del film, presenziando agli avvenimenti della storia.

Il regista ha voluto aggiungere una forte carica ironica persino nel paesaggio, a sottolineare ancora di più il surrealismo dell’opera: già nei titoli di testa i nomi dei membri dello staff compaiono integrate nel paesaggio sotto forma di insegne al neon o ancora di scritte su cartelli e automobili. Le luci e le fattezze degli edifici sembrano spesso adeguarsi all’umore della scena, creando una carica sinergica che tuttavia non distoglie l’attenzione dello spettatore da ciò che sta succedendo.

In Tōkyō goddofāzāzu Kon rielabora in chiave parodistica alcuni degli aspetti più bui e spesso ignorati della società nipponica: accanto ad una grottesca rappresentazione della mafia viene mostrato uno dei problemi sociali più consistenti del Giappone, ovvero quello della discriminazione in tutte le sue forme. Il regista ribadisce di non aver realizzato l’opera con un intento critico, tuttavia è innegabile che realtà come quella dei protagonisti, o dell’impossibilità di integrazione di minoranze come quelle che

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compaiono nel film siano dilemmi incredibilmente attuali. Sotto questo punto di vista si potrebbe dire che Tōkyō goddofāzāzu, oltre a ricalcarne lo stile grafico, riprende anche i temi toccati in Wārudo apātomento

horā in merito alla questione dell’integrazione delle comunità etniche. Esattamente come avviene nel

fumetto, anche qui il tema della discriminazione raziale è affrontato con ironia per sdrammatizzare le condizioni reali degli immigrati, ed è sempre simile a quello del manga il messaggio che il regista vuole comunicare allo spettatore. Kon si conferma incerto su quale posizione possa assumere il Giappone in futuro in merito al rapporto con i migranti residenti nel paese, ciò che voleva mettere in scena in questa pellicola è un annuncio positivo, la possibilità di comunicare e venirsi incontro nonostante la lingua e le differenze culturali.

Il film si dimostra un curioso agglomerato di culture e tradizioni: oltre alla presenza di comunità straniere, le vicende sono ambientate durante il Natale, festa in realtà poco sentita in un paese in cui soltanto l’1% della popolazione si definisce cristiana. “Ho cercato di rappresentare nel mio film questo incrocio di culture e il modo in cui i giapponesi guardano ad esso”96 L’ultima settimana di dicembre è

di fatto una mescolanza di usanze occidentali e orientali. Il 25 dicembre si festeggia il Natale, ricorrenza cristiana in un paese tendenzialmente ateo, in Giappone è usanza trascorrerlo insieme alla persona amata uscendo fuori a cena e scambiandosi dei regali. Spogliata del suo simbolismo religioso, il Natale è quindi una festa prevalentemente consumistica, molto simile a quella di San Valentino in Occidente. Esattamente sei giorni dopo, il 31 dicembre, si celebra il capodanno, una delle ricorrenze più importanti e sentite in Giappone. I festeggiamenti in questa data sono legati per lo più alla tradizione buddhista, i giapponesi si recano nei templi dove i sacerdoti suonano 10897 rintocchi di campana, gesto simbolico

per augurare un felice anno nuovo. Se da un lato la religione cristiana non è particolarmente diffusa in Giappone, la chiesa e le associazioni ad essa collegate sono le uniche ad avere un occhio di riguardo per i senzatetto, realtà di cui fanno parte i tre protagonisti. L’intero film è costellato di riferimenti al Natale: la scena iniziale è una rappresentazione della natività, i numeri che compongono la data, 12/25, sono un motivo ricorrente per tutta la durata del film – come ad esempio la cifra sul monitor del taxi -, così come le figure dei angeli. Nel sogno di Miyuki, Kiyoko compare con le sembianze di un angioletto, “Angel Tower” è il nome del locale in cui lavorava Hana e una delle ragazze che vi lavora compare a Gin travestita da angelo e non solo, Angelo è anche il nome del defunto gatto di Miyuki. La

96 OSMOND, Satoshi Kon the Illusionist.

97 Questa pratica viene chiamata “Joya no kane” 「じょやの鐘」108 è il numero dei desideri terreni che precludono all'essere umano di raggiungere l'illuminazione, ogni rintocco di campana rappresenta una preghiera nella speranza che l'anno a venire sia privo di questi peccati.

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stessa neve che nel film ricopre interamente la città di Tokyo è un simbolo che rievoca il Natale, considerabile parte del “miracolo natalizio”, considerando che raramente nevica sulla capitale nipponica.

La presenza della neve è una delle tante contraddizioni che il regista inscena in quest’opera. In questo film Kon mette da parte i suoi virtuosismi e lascia che la narrazione fluisca tramite il concatenarsi di svariate coincidenze. Queste, unite all’animo contraddittorio dei personaggi, danno vita alla serie di episodi che insieme formano la trama del film. Per arrivare a questo risultato è stato necessario avere prima ben chiaro il quadro collettivo, l’impronta che il film avrebbe dovuto avere. Successivamente sono state elaborate le varie casualità, studiate in base agli eventi in cui ogni singolo personaggio viene coinvolto in modo che l’esito corrisponda al progetto iniziale del regista. Ognuno dei protagonisti ha un diverso carattere e modo di pensare, di conseguenza saranno differenti anche le reazioni alle situazioni che ognuno di loro si ritroverà ad affrontare. Nonostante le scelte dei singoli personaggi, il regista interviene nella trama forzandone i processi narrativi, ricompattando il trio diviso dall’ostinazione presente in ciascuno di loro con la sua “divina provvidenza”.

Lo spettatore rimane sorpreso dalla linearità di una trama priva del dualismo tra realtà e finzione caratteristico dei film di Kon. L’unico momento in cui è riconoscibile l’impronta del maestro è la visione onirica di Miyuki: presentato inizialmente come un flashback, lo spettatore realizza che si tratta di un sogno solamente quando le figure dei genitori della ragazza verranno sostituite con quelle di Gin e Hana con in braccio la piccola Kiyoko. L’allucinazione della ragazza è l’unica sequenza ambigua di tutta la pellicola, il solo intralcio alla linearità del film. Non può essere tuttavia definito un lungometraggio dallo svolgimento completamente coerente: le contraddizioni e le coincidenze unite agli elementi comici incidono profondamente sull’intreccio creando un’ambiguità riguardo il carattere di serietà dell’opera.

Tōkyō goddofāzāzu rimane comunque l’opera di Kon che più di tutte ha mosso il suo pubblico a domandarsi come mai il maestro non abbia optato per una realizzazione della pellicola con attori dal vero. La verosimiglianza degli ambienti, unita alla regolarità dell’intreccio – ben lontano dai trip onirici di Pāfekuto burū e dal collage dei ricordi colorati di Sennen joyū – sono gli elementi che più hanno suscitato questo dilemma nei suoi fan. Come già ribadito più volte però, il regista ama esprimersi attraverso il disegno, anche in questo caso la scelta di girare il film con attori dal vero limiterebbe il potenziale dell’opera. Riprodurre in studio gli ambienti sarebbe stato troppo complicato e dispendioso, mentre girarlo in esterno avrebbe privato il film di un elemento che contribuisce in maniera importante ad esprimere l’idea del Natale: la neve. Realizzarlo con degli attori, inoltre, avrebbe potuto aggiungere una sfumatura provocatoria di denuncia sociale della condizione dei clochard in Giappone, assolutamente indesiderata dal regista. L’animazione conferisce all’opera un carattere di universalità mettendo lo

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spettatore nella condizione di recepire i differenti messaggi che il regista vuole comunicare e apprezzare il film per quello che è, una commedia natalizia in grado di scaldare il cuore della gente.