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III. Il tempo nel suo uso esterno

III. 6. Il tempo, i tempi

Il lavoro svolto sin qui dovrebbe aver messo in luce i propositi che hanno spinto ad indagare il tempo in Kant. L’intuizione temporale si è rivelata, infatti, un ottimo caso di studio attraverso il quale osservare lo stretto rapporto tra un tipo di epistemologia e di ontologia particolari. Nell’impostazione kantiana, infatti, può essere considerato un componente della realtà esterna solo ciò che può sottostare alle condizioni epistemiche del soggetto conoscente. Ciò, non solo implica, in un certo qual modo, che l’epistemologia e l’ontologia viaggino di pari passo, ma una tale impostazione rappresenta proprio il nucleo della rivoluzione copernicana che Kant opera rispetto alle dottrine filosofiche precedenti. Una svolta che «non implichi né la priorità dello scopo gnoseologico rispetto allo scopo metafisico, né tanto meno l’idea […] che Kant sia rimasto impigliato in una confusione fallace fra epistemologia e ontologia. La rivoluzione kantiana, infatti, si basa sulla distinzione (non sulla confusione) tra l’essere in sé delle cose e la conoscenza che ne abbiamo; ciò che essa fa ruotare intorno al soggetto conoscente sono gli oggetti in quanto oggetti

conosciuti, non in quanto cose in sé»102. In particolare, la distinzione kantiana regge molto bene finché ci si riferisce alla realtà esterna. In parte, ciò sembra dovuto non solo alla bontà e alla validità delle condizioni epistemiche, ma anche al collegamento che viene instaurato tra di esse e i presupposti delle discipline scientifiche e delle metodologie di misurazione degli oggetti esterni. Tuttavia, come hanno sottolineato in precedenza le parole dello stesso Kant, non è possibile utilizzare la matematica, e quindi le discipline scientifiche che si basano su di essa, per indagare i fenomeni interni. Addirittura, sembrano difficilmente applicabili ai fenomeni esclusivamente

interni anche le sole condizioni epistemiche: eccetto rari casi e situazioni particolari, tra i pensieri o i ricordi l’intuizione spaziale o la seconda analogia possono davvero assumere lo stesso valore che hanno per gli oggetti esterni? Quando il soggetto conoscente tenta di analizzare i propri stati interni, o le proprie condizioni epistemiche, con gli stessi strumenti che vengono utilizzati per i fenomeni, non solo si riscontrano minor precisione e puntualità ma diviene difficile stabilire con esattezza cosa possa essere considerato un fenomeno, indebolendo, di conseguenza, anche la distinzione stessa tra i livelli stabiliti con la rivoluzione copernicana. Infatti, sembra quasi automatico che, se si attenua quell’intelaiatura che permette ai fenomeni di diventare materiale empirico, viene a cadere anche la distinzione netta tra ontologia ed epistemologia.

Dopo tutto, qui non viene fatto altro che ribadire, in una forma diversa, quella che fu una delle critiche di Schopenhauer a Kant: «[l]a verità è, che sulla via della rappresentazione non si può uscire mai dalla rappresentazione: essa è un tutto chiuso e non ha nei suoi propri mezzi alcun filo, che conduca all’essenza della cosa in sé, da essa toto genere diversa. Se noi fossimo solo esseri rappresentanti, allora la via per la cosa in sé ci sarebbe interamente chiusa. Solo l’altro lato del nostro proprio essere ci può dare una schiusa all’altro lato dell’essere in sé delle cose»103. Anche in questo

caso sembra chiaro il richiamo alla componente ontologica del soggetto conoscente. Ciò che si è cercato di fare in più, durante il presente lavoro, è stato mettere in luce come il tramite con cui poter analizzare entrambi i lati del processo conoscitivo potesse essere l’intuizione temporale. Ma, affinché si arrivasse a ciò, era necessario fare chiarezza sul modo di considerare il tempo e le sue funzioni.

Una volta affrontati i maggiori nodi concettuali emersi dall’analisi dei commentari anglofoni, si possono aprire vari scenari. Si può semplicemente, per esempio, riaffermare un primato – almeno al livello interno del soggetto conoscente – dell’ontologia sull’epistemologia. Coloro che decidono di intraprendere questa strada, potrebbero ribadire, metaforicamente, la precedenza dell’hardware rispetto al software utilizzato per rapportarci con la realtà esterna: è infatti plausibile imbattersi in un hardware privo di software, ma non è così semplice immaginare il contrario, a meno che non si abbia una concezione molto aleatoria di ciò che si intende per

“software”. Oppure, contrariamente a Kant, possiamo ritenere che una psicologia empirica sia del tutto plausibile: dopo tutto, lo sviluppo delle neuroscienze, della psichiatria, della fisiologia e della biologia sta lì a confermare che è possibile, almeno fino ad un certo livello, indagare scientificamente i fenomeni interni. La domanda diventa allora: è possibile istituire un rapporto tra i presupposti di queste discipline scientifiche ed un’intelaiatura di tipo kantiano? Si dovrebbe differenziare, cioè, all’interno del soggetto, ciò che vi è di empirico da quello che appartiene al versante “trascendentale”, in modo che ci sia una distinzione di livello tra l’esaminante e l’esaminato.

Infine si può tentare di fare quello che hanno fatto gli odierni commentatori di Kant: vedere quanto e cosa è ancora utilizzabile del pensiero di Kant, anche a costo di modificare il modo di intendere le sue condizioni a priori. Il primo passo sarebbe quello di circoscriverne nuovamente le funzioni e le proprietà. Proprio quello che si è tentato di fare con il presente lavoro riguardo all’intuizione temporale, che si trova, in quanto forma del senso interno e forma mediata dei fenomeni esterni, ad essere tra le prime condizioni epistemiche a venir chiamata in causa.

Un modo in cui si può tentare di render conto di un diverso e possibile assetto del tempo è quello di metterlo a confronto con problemi caratteristici del periodo attuale. Se, come abbiamo visto, tra gli scopi di coloro che hanno ripreso le tesi kantiane c’è quello di intessere un nuovo tipo di dialogo tra discipline scientifiche e filosofia – un dialogo un cui le due materie siano considerate su due piani diversi, con diversi compiti e finalità – proprio su una nozione come quella di tempo il dibattito può essere fruttifero dato che, negli ultimi anni, tale concetto è stata sottoposto ad un’attenta analisi sia da parte degli scienziati sia da parte dei filosofi.

È interessante notare come alcuni indirizzi di studio chiamino in causa concetti e funzionalità affini a quelli emersi nel corso della presente ricerca. Il riferimento è, in particolare, alle conclusioni a cui si è arrivati nel paragrafo precedente, riguardanti l’ontologia del tempo e se esso sia da considerarsi o meno un’entità originaria. Ci sono correnti di pensiero, soprattutto tra i fisici teorici, che mettono sempre più in discussione il tempo come entità individuale distinta:

supponendo qualcosa di sbagliato. Se è vero, abbiamo bisogno di isolare la supposizione errata e di rimpiazzarla con un'idea nuova. Quale potrebbe essere il presupposto sbagliato? Secondo me ha a che fare con i fondamenti della meccanica quantistica e con la natura del tempo. […] Ma ho il forte sospetto che la chiave sia il tempo. Sono sempre più convinto che la teoria quantistica e la relatività generale siano entrambe profondamente sbagliate per quanto riguarda la natura del tempo.104

Un modo alternativo di rapportarsi al concetto di tempo, che sembra accomunare vari indirizzi di studio, prevede, al suo interno, tra gli altri, due passaggi molto interessanti e che appaiono riconducibili a quanto detto finora: stando al primo, si devono considerare spazio e tempo come un’unica entità, lo spazio-tempo; quest’entità – e si arriva così al secondo punto – viene ritenuta il “prodotto” di presupposti ancor più fondamentali. Ciò sembrerebbe valere anche per alcuni studiosi impegnati nella ricerca delle stringhe come entità ultime della realtà: stando alle loro ipotesi, «sebbene non si possieda alcuna comprensione del nucleo fondamentale della teoria […] la sua essenza è che lo spazio-tempo [sia] un concetto “emergente”, anziché qualcosa di fondamentale»105. In altri indirizzi di ricerca si è

tentato di circoscrivere ancor più dettagliatamente quali sono i presupposti da cui, per così dire, emergerebbero spazio e tempo. Per i nostri scopi, è interessante notare come, per esempio, nella gravità quantistica a loop ciò che rappresenta la base per una corretta analisi della realtà è formato da concetti che molto hanno in comune con le funzioni incontrate parlando del tempo come senso esterno mediato: «[g]li approcci che per il momento risultano migliori combinano queste tre idee essenziali: che lo spazio sia emergente, che la descrizione più fondamentale si discreta e che

104 Smolin (2006/ 2007: 254-5). Anche studiosi di indirizzi completamente diversi rispetto a quello di

Smolin nutrono le stesse perplessità. Per esempio, Greene (2004/2006: 415): «Un'altra possibilità è che lo spazio e il tempo ordinari non cessino brutalmente di avere significato sotto una certa scala, ma che si trasformino gradualmente in altri concetti più fondamentali. […] A scala ultramicroscopica, dunque, il tempo e lo spazio a noi familiari si trasformano gradualmente in un'entità per cui i familiari concetti di durata o lunghezza diventano non applicabili o privi di senso. […] forse si può continuare a suddividere lo spaziotempo oltre la scala di Planck, ma l'operazione a quel punto diventa insensata. Molti fisici che si occupano di stringhe, me compreso, hanno la precisa sensazione che questa seconda ipotesi sia vera, ma per procedere nelle nostre ricerche dobbiamo ancora capire quali siano queste nuove entità a cui lo spazio e il tempo si convertono».

essa implichi in un modo fondamentale la causalità»106. È interessante notare come,

agli ovvi riferimenti a spazio e causa, associabili all’intuizione spaziale e alla seconda analogia, il riferimento alla “descrizione discreta” potrebbe essere associato alla proprietà logica di procedere unità dopo unità: in pratica, non si ha un

continuum, ma la base ultima della realtà sarebbe costituita da elementi che si

possono accostare l’uno all’altro; situazione simile a quella che caratterizza ciò che è stato chiamato “l’attività logica” dell’intuizione temporale. Oltre a tutto questo, in una situazione simile, le varie funzioni e capacità dell’intuizione temporale vengono, per così dire, scorporate e ridistribuite su altre funzioni e concetti. Quella principale, la successione, sarebbe assunta dalla causa: non si avrebbe un’entità “tempo” che scorre costantemente, ma avremmo molteplici catene causali, collegate le une alle altre, le quali ci forniscono un’idea di successione temporale grazie agli elementi costituenti l’evento posti uno di seguito all’altro; questo scorrere o succedersi continuo viene chiamato tempo.

In filosofia, le teorie sulla natura causale del tempo si erano presentate già molti anni fa, soprattutto a seguito delle interpretazioni della teoria della relatività. Per esempio, già Earman (1972: 74) definiva così un certo modo di intendere quel tipo di teorie:

La teoria causale del tempo è un tipo speciale di teoria relazionale del tempo. Una teoria relazionale sostiene che non è necessario postulare l’esistenza assoluta degli istanti di tempo per considerare gli istanti come parte di un ente, anch’esso assoluto, il quale sia ritenuto una sorta di contenitore di eventi, la cui esistenza è indipendente dall’esistenza dagli eventi che contiene; piuttosto, si afferma che il tempo non sia nient’altro che oltre e sopra – che sia costituito da o riducibile a – rispetto alla struttura delle relazioni temporali tra gli eventi. Il genere causale di questa teoria afferma che le relazioni temporali possono essere ben definite in termini di “relazioni fisiche”, relazioni che, qualsiasi altra cosa siano, non sono “specificatamente temporali”.

Tuttavia, come sostiene Malament (1977: 293), già in quel periodo, un filosofo come Friedman «non vedeva alcuna ragione del perché si sarebbe dovuta adottare una

teoria causale del tempo».

Però, stando al lavoro svolto fin qui, la novità consisterebbe nel sottolineare come, a spingere verso teorie di questo tipo, non sia solo una certa volontà di andare incontro alle più recenti ipotesi scientifiche, ma anche un modo nuovo di considerare la temporalità all’interno del soggetto conoscente. Una temporalità che, al livello di ciò che Kant chiamava senso interno, viene slegata dal concetto di misurazione e associata alla produzione di una successione discreta frutto della spontaneità propria del soggetto: c’è quindi la possibilità di vedere la temporalità come protrarsi avanti, di unità dopo unità, del soggetto conoscente stesso. È importante che le unità siano tra di loro distinguibili. Come si è tentato di spiegare in precedenza parlando del tempo come forma del senso interno, due unità distinte rappresentano già ciò che si può chiamare una successione temporale: essendo l’una diversa dall’altra, possono essere considerate una sorta di coppia binaria, la quale, appunto, non necessità di una misurazione più complessa del computo di due elementi. Ciò non esclude, ma anzi costituisce una base affinché, in seguito, una temporalità così concepita possa avere uno status tanto generale da poter dialogare anche con le ipotesi scientifiche precedentemente esposte. Tuttavia, prendendo spunto dalle quelle teoria fisiche precedenti, qui si avrebbe una temporalità che non presuppone nessun ente “tempo” ontologicamente indipendente: diviso nelle sue proprietà e rese indipendenti quest’ultime, il tempo diventa un fenomeno emergente, ovvero, un complesso di più funzioni le quali, per comodità o metodologicamente, vengono chiamate “tempo”. Seguendo questo filo conduttore, un nuovo rapporto tra epistemologia e ontologia, e una nuova concezione del tempo non sono altro che i presupposti per tentare una riformulazione – l’ennesima – dell’idealismo trascendentale e del realismo empirico kantiani.

In un quadro simile, la radice oscura a cui si stava avvicinando Kant sembra diventare un vuoto, un abisso: si chiede all’impianto critico fare a meno della forma stessa del senso interno del soggetto conoscente e di una nozione cardine di tutto il suo impianto gnoseologico. È possibile avanzare una richiesta simile a Kant, che aveva già voltato lo sguardo forse a causa delle limitate possibilità di indagine dell’epoca – la psicologia aveva ancora da arrivare e le rivoluzioni scientifiche erano di là dall’arrivare – forse perché più interessato a sviluppare e portare avanti principi

che potessero avere un collegamento con discipline già ben avviate? Eppure, i cambiamenti avvenuti nella seconda edizione, sembrano compiuti quasi più per insicurezza che per paura. Rileggendo oggi le pagine di Kant si ha la costante sensazione che egli abbia visto o pensato più di quanto abbia messo sulla carta. Ciononostante, basta quello che ha messo per iscritto affinché, a più di duecento anni dalla sua morte, si sia ancora qui, a prendere ispirazione da lui.

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