III. Il tempo nel suo uso esterno
III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità
Nella Critica della ragion pura sono pochi i legami così stretti come quello istituito tra il tempo e le analogie dell’esperienza. Ma l’esposizione riguardante il loro rapporto è, anche in questo caso, complessa e di non immediata comprensione. È tuttavia possibile partire da alcuni punti fermi: per esempio, il compito delle analogie è quello di stabilire determinati tipi di relazioni tra i fenomeni. Nella prima edizione ciò emergeva chiaramente: lì il principio generale delle analogie affermava che «tutti i fenomeni, quanto alla loro esistenza, sono sottoposti a priori a regole
determinanti il loro rapporto reciproco in un tempo»47. Quindi, grazie alle analogie, il
soggetto conoscente può rendere conto di un collegamento importantissimo che intercorre tra gli oggetti fenomenici: quello temporale oggettivo. Nelle relazioni temporali a livello sensibile, invece, si aveva a che fare solo con i rapporti soggettivi basati sulle percezioni o sulle rappresentazioni, tramite i quali non era possibile fondare giudizi obiettivi. Stando a Kant, i tipi di rapporti temporali oggettivi che possono intercorrere tra le percezioni sono tre: permanenza, successione e simultaneità. Questi vengono definiti «i tre modi del tempo», ossia le «tre regole di tutti i rapporti temporali dei fenomeni, le quali dovranno precedere ogni esperienza, rendendola prima di tutto possibile; in base a queste regole, l'esistenza di ogni fenomeno potrà esser determinata rispetto all'unità di tempo»48. Cosa si intende qui per “unità di tempo”? Van Cleve (1999: 108) la spiega così: «tutti gli eventi appartengono ad un solo ordine temporale interconnesso, e ciò significa che due eventi sono tali per cui o uno inizia prima dell'altro o essi sono simultanei». Quindi, grazie alle analogie sarebbe possibile allestire una rete di rapporti che ci fornisca l’immagine delle relazioni tra le diverse rappresentazioni dei diversi fenomeni: se sappiamo che un fenomeno A precede un fenomeno B che, a sua volta, precede C, è possibile avere un’unica sequenza temporale che va da A a C passando per B. A livello macroscopico, è dunque ipoteticamente possibile interconnettere tra di loro tutti i fenomeni di cui si ha esperienza al fine di ricreare una sequenza, per così dire, storica. Questo è ciò che si intende quando si parla di tempo oggettivo prodotto dai principi a priori dell’intelletto.
Andando contro l’ordine dato da Kant, il primo principio che prenderò in considerazione sarà la seconda analogia, quella che si occupa della successione temporale oggettiva, la legge di causalità. Inizio da questo principio per vari motivi: da un lato, su di esso si sono concentrate maggiormente, per ovvie ragioni, le attenzioni dei vari commentari kantiani; dall’altro, ciò non solo ha fornito molto materiale su cui lavorare ma, in aggiunta, le tesi che sono state avanzate dai commentatori anglofoni su questo argomento sono tra le più interessanti.
47 Kant (1781/2005: 216; A 176-7). 48 Kant (1781/2005: 217; A 177/B 219).
Nell’edizione del 1787, la seconda analogia, che nella prima versione rispondeva al nome, ben più anonimo, di «Principio della produzione»49, è chiamata
«Principio della successione temporale secondo la legge di causalità»50 e viene così
definita: «[t]utti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto»51. Anche qui, come nel caso del tempo, abbiamo a che fare con una
nozione a priori che si occupa della successione; che differenza c’è tra i due tipi di sequenze? Per capirlo, possiamo rifarci al celebre confronto di Kant tra la percezione di una casa e quella di una nave in movimento: «l’apprensione del molteplice nel fenomeno di una casa che mi sta innanzi è successiva. Ciò che mi si domanda è ora se il molteplice di questa casa sia successivo anche in sé: nessuno credo risponderà di sì»52. Io posso iniziare ad avere una successione di percezioni inerenti ad un edificio sia che inizi a guardarlo dal retro, sia che cominci dal davanti, dal tetto o dal giardino... In pratica, non esiste una sequenza predeterminata di percezioni, ma esse dipendono dal modo in cui sto esperendo la casa e dalle condizioni in cui mi trovo in quanto soggetto conoscente.
Si ha tutt’altra situazione, invece, quando siamo in presenza di una successione oggettiva, come nel caso di un’imbarcazione che segue la corrente:
La mia percezione della sua posizione più giù, è successiva alla percezione della sua posizione più su, lungo il corso del fiume, e non si dà possibilità alcuna che nell’apprensione di questo fenomeno la nave possa venir percepita prima giù e poi su. In questo caso l’ordine della successione delle percezioni nell’apprensione è determinato e l’apprensione è vincolata ad esso.53
Ciò che differenzia le due sequenze è appunto una regola, la quale rende «necessario l’ordine delle percezioni susseguentesi (nell’apprensione di questo fenomeno)»54. La regola in questione è, naturalmente, la seconda analogia. Il
49 Kant (1781/2005: 225; A 189). 50 Kant (1781/2005: 225; B 232).
51 Kant (1781/2005: 225; B 232). Nella prima edizione, invece, si poteva leggere: «[t]utto ciò che
accade (incomincia ad essere) suppone qualcosa, a cui segue in base a una regola» (Kant 1781/2005: 225; A 189).
52 Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235). 53 Kant (1781/2005: 228-9; A 192/B 237). 54 Kant (1781/2005: 229; A 193/B 238).
principio di successione impedisce quindi quella “indifferenza di ordine” propria dei casi in cui la serie delle percezioni dipende dalle condizioni del soggetto conoscente (come nell’esempio della casa). Per avere un ordine che sia considerato irreversibile e per avere dunque una successione a sua volta irreversibile, si deve applicare il principio causale; stabilito ciò, si può dunque andare alla ricerca della legge empirica particolare che sta dietro all’evento.
L’indifferenza di ordine, o meglio, la sua impossibilità nel caso di successioni oggettive, è uno dei temi principali di Bounds of Sense, l’opera di Strawson sulla
Critica della ragion pura. Una delle tesi più conosciute del libro è quella del non sequitur. Il fine ultimo di questa teoria sarebbe quello di imputare a Kant alcuni
errori riguardanti il rapporto tra epistemologia ed ontologia. Strawson parte proprio distinguendo un livello soggettivo, che corrisponderebbe a quello fornito dall’intuizione, ed uno oggettivo, fornito dalle analogie dell’esperienza, tra le quali un ruolo fondamentale è giocato dal principio di causalità. Questi due piani si confrontano, in particolare, quando ci troviamo di fronte a percezioni il cui ordine viene ritenuto irreversibile:
se ciò che percepiamo è un mutamento oggettivo, un evento, un caso in cui uno stato di cose oggettivo cede il posto a un altro, allora le nostre percezioni successive di questi stati oggettivamente successivi sono prive del carattere di indifferenza di ordine. Le nostre percezioni successive non avrebbero potuto presentarsi nell’ordine opposto a quello in cui si sono effettivamente presentate. Esprimendoci con maggiore sicurezza, il loro ordine è, in questo caso, un ordine necessario.55
Quindi, conclude Strawson (1966/1985: 121), «[i]l possesso o la mancanza di indifferenza di ordine da parte delle nostre percezioni costituisce, sembra dire Kant, il criterio della successione o coesistenza oggettive»56.
In aggiunta, poco dopo, viene descritto dettagliatamente il procedimento attraverso il quale una serie di percezioni sottostà ad una regola:
55 Strawson (1966/1985: 120).
56 La coesistenza riguarderebbe la terza analogia. In questo caso intendo però concentrarmi
la possibile applicazione empirica (e quindi la possibile comprensione reale) dei concetti di mutamento oggettivo e di coesistenza oggettiva si fonda su un uso implicito delle nozioni di ordine necessario o di indifferenza di ordine delle percezioni. A loro volta, queste ultime nozioni non potrebbero avere alcuna applicazione, se non applicassimo dei principi causali pertinenti agli oggetti delle percezioni a cui applichiamo implicitamente queste nozioni.57
Strawson sta qui considerando sia la seconda analogia (“mutamento oggettivo”) sia la terza (“coesistenza oggettiva”). Diversi autori angloamericani ritengono che le considerazioni sul principio di simultaneità siano ridondanti: o è possibile estendere anche ad esso le valutazioni fatte sul principio di causa – effetto, o il suo compito viene descritto come una sintesi di quello svolto della prima e della seconda analogia58. Molto spesso, infatti, ciò che viene detto per i primi due principi, viene fatto valere per il terzo. Motivazioni simili portano a concentrarsi esclusivamente sulle prime due analogie.
Ritornando al brano precedente, la prima frase sembra riferirsi ai casi particolari (“possibile applicazione empirica”) in cui si utilizza la legge di causalità: la cera che si scioglie al sole, la nave che scende lungo la corrente, il ghiaccio che si liquefà con il caldo... Il principio di causalità, infatti, dovrebbe valere sia per la conoscenza quotidiana, sia per le leggi empiriche – fisiche o chimiche – corrispondenti. La seconda parte del periodo, invece, vuole proprio evidenziare che dietro qualsiasi successione considerata causale, si cela la seconda analogia, anche se il soggetto conoscente non ne è pienamente consapevole. Entra in gioco, quindi, la sua apriorità e quella delle categorie in generale: dalle parole di Strawson sembra quasi che i principi a priori agiscano automaticamente indipendentemente dalla volontà dei soggetti.
Sebbene non appaia in tutta la sua evidenza, tra le maglie di questa ricostruzione si riesce ad intravedere uno dei problemi più famosi nell’impostazione epistemologica kantiana: è possibile stabilire quando, effettivamente, un evento cade sotto un principio a priori? È possibile che, in un primo momento, un dato evento
57 Strawson (1966/1985: 123).
non sia collegato ad una qualche categoria ma lo sia in seguito? Oppure, almeno implicitamente, la presenza dei principi a priori deve sempre, per così dire, aleggiare sullo sfondo? Il processo grazie al quale, inizialmente, una sequenza di percezioni non sia sussunta sotto un determinato principio a priori ma lo sia solo in seguito, è alla base della nota distinzione, formulata da Kant nei Prolegomeni, tra giudizio di percezione e giudizio di esperienza:
I giudizi empirici, in quanto hanno una validità obbiettiva, sono giudizi di esperienza; ma quelli che sono validi soltanto soggettivamente, io li chiamo semplici giudizi di percezione. Gli ultimi non hanno bisogno di alcun concetto puro dell’intelletto, ma soltanto del nesso logico delle percezioni in un soggetto pensante. Laddove i primi richiedono sempre, oltre le rappresentazioni dell’intuizione sensitiva, ancora dei peculiari concetti originariamente generati dall’intelletto, i quali appunto fan sì che il giudizio di esperienza sia oggettivamente valido.59
E non sembra essere un caso che la distinzione tra i due tipi di giudizi sia introdotta parlando proprio del principio di causalità:
Un giudizio di percezione non può mai valere come esperienza senza la legge per cui, percepito un evento, questo vien sempre riferito a qualcosa che precede, e a cui esso segue secondo una regola universale; ovvero se mi esprimo così: tutto ciò che l’esperienza mi insegna che accade, deve avere una causa.60
In presenza di una sequenza, la differenza tra giudizi di percezione e di esperienza è dovuta, in aggiunta, alla diversità dei due piani su cui agiscono l’intuizione temporale – semplice successione da un oggetto o da uno stato all’altro – e la seconda analogia – successione dovuta ad una causa (evento).
La distinzione tra questi due tipi di giudizi rientra nella già di per sé articolata concezione kantiana dell'esperienza. Tutti i maggiori commentatori hanno notato che
59 Kant (1786/2003: 105; 298). 60 Kant (1786/2003: 101; 296).
nella prima Critica “esperienza” ha almeno due significati, anche se ci sono diverse sfumature sul senso da attribuire ora all'uno ora all'altro delle due espressioni61. Per
esempio, Dicker (2004: 89) si accorge che Kant non usa il termine in modo univoco: «[c]osì ‘esperienza’ potrebbe significare conoscenza empirica o potrebbe significare solo consapevolezza (consciousness)». Il termine “coscienza” di Dicker dovrebbe corrispondere alla “conoscenza di oggetti”, sebbene le due locuzioni sembrano avere sfumature semantiche leggermente diverse. Ben più classica e canonica è l’interpretazione di Beck (1978: 40) il quale, con particolare semplicità, formula questa distinzione: «“esperienza” può voler dire “il materiale grezzo delle impressioni sensibili”, oppure “conoscenza di oggetti”», lasciando trapelare, appunto, la diversa maniera di considerare, da un lato, i dati e, dall’altro, l’organizzazione o la struttura sotto la quale tali dati vengono sussunti.
Strawson, dal canto suo, si concentra principalmente su altri aspetti di Kant, ed è su questi che l’analisi mostra tutta la sua originalità. Stando alla lettura strawsoniana, Kant non si limiterebbe ad affermare che l’applicazione del principio causale sia il presupposto per un ordine irreversibile delle percezioni a livello empirico. Secondo Strawson, la conoscenza empirica dell’ordine immutabile di ciò che viene percepito indicherebbe, in aggiunta, l’immutabilità dei rapporti tra gli oggetti che stanno dietro le percezioni stesse, vale a dire le cose in sé, consentendo, pertanto, di andare dal versante epistemologico riguardante i fenomeni a quello ontologico riguardante i noumeni:
se l’ordine delle percezioni è concepito come un ordine necessario, allora lo stesso cambiamento o mutamento da A a B viene concepito come necessario, cioè come soggetto a una regola o legge della determinazione causale. In altre parole, si ritiene che il mutamento o cambiamento sia preceduto da una condizione tale che un evento di quel tipo segua invariabilmente e necessariamente da una condizione di quel tipo.62
61 La maggior parte dei commentatori si rifà a questo brano di Kant (1781/2005: 73; B 1): «Non c’è
dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che mai la nostra capacità di conoscere sarebbe altrimenti messa in moto se no da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi [...] in vista di quella conoscenza degli oggetti che si chiama esperienza? Quanto al tempo, pertanto, nessuna conoscenza precede in noi l'esperienza e tutte incominciano con essa».
Stando al testo di Strawson, A e B sono due stati di cose, presumibilmente ciò di cui si ha percezione, e quindi due cose in sé.
Tutto ciò porterebbe Strawson alla sua famosa conclusione, resa celebre anche dalla perentorietà delle sua asserzione: «l’argomentazione [kantiana] procede attraverso un non sequitur di grossolanità paralizzanti»63. Lo snodo delle “grossolanità” marcia su due livelli: uno che si potrebbe definire metodologico, ed uno più prettamente concettuale. Quello metodologico riguarda il procedimento appena descritto: secondo Strawson, non si può passare dall’irreversibilità delle percezioni all’irreversibilità degli stati di cose, soprattutto in una prospettiva dicotomica come quella kantiana.
In secondo luogo, il non sequitur riguarderebbe difficoltà logiche più profonde, legate naturalmente alle precedenti: si avrebbe uno spostamento da una necessità concepita concettualmente, stabilita su un certo livello (empirico), verso una necessità ontologica, dipendente dalla precedente, che riguarda l'ordine degli stati di cose (“necessità causale”):
la necessità invocata nella conclusione dell'argomentazione non è affatto una necessità concettuale; si tratta, piuttosto, della necessità causale di un mutamento che accade, dato uno stato di cose antecedente. Si tratta, in effetti, di una contorsione molto strana, in cui una necessità concettuale che si fonda su un mutamento viene fatta coincidere con la necessità causale del mutamento stesso.64
L’interpretazione di Strawson, come già detto, è stata un traino per ritornare a studiare nuovamente Kant in ambienti angloamericani. Ma lo è stata soprattutto come lettura da controbattere e sconfessare. Per tanti autori, infatti, la “contorsione molto strana” è stata quella operata da Strawson sul testo di Kant. Secondo Allison, ad esempio, le ipotesi strawsoniane riposerebbero su una sorta di realismo trascendentale che non è minimamente imputabile al pensiero critico: Strawson tratterebbe Kant come se quest’ultimo fosse «interessato a fondare una conclusione che riguardi le relazioni causali di cose – e di eventi – ontologicamente distinte sulle
63 Strawson (1966/1985: 124). 64 Strawson (1966/1985: 123).
caratteristiche delle nostre percezioni (la loro irreversibilità)»65, ignorando del tutto
la componente trascendentale dell’impostazione critica. Allison sta cercando di riportare la discussione sulle intenzioni originarie di Kant: il punto di partenza della sua filosofia è proprio un realismo che possiamo chiamare empirico, il quale ha come intento principale quello di porre dei limiti ad una certa metafisica legata ad un tipo specifico di ontologia. A questo realismo empirico si unisce un idealismo trascendentale riguardante le forme del soggetto conoscente. È ciò viene dichiarato in maniera plateale sin dall'Estetica trascendentale, in cui viene esplicitamente negata, ad esempio, la possibilità di un accesso, attraverso l'idealità trascendentale del tempo, ad una realtà che non sia empirica:
Le nostre considerazioni insegnano dunque la realtà empirica del tempo, ossia la sua validità oggettiva rispetto a tutti gli oggetti che possano comunque essere dati ai nostri sensi. E siccome la nostra intuizione è sempre sensibile, non potrà mai esserci dato nell'esperienza un oggetto che non cada sotto la condizione del tempo. Per contro contestiamo al tempo ogni pretesa di realtà assoluta, cioè ogni pretesa di inerire in modo assoluto alle cose come loro condizione o qualità a prescindere dalla forma della nostra intuizione sensibile. Le proprietà inerenti alle cose stesse non possono in alcun modo esserci date per mezzo dei sensi.66
La validità oggettiva a cui fa riferimento il testo, non va intesa, come nel caso delle analogie, come validità delle relazioni temporali oggettive a livello concettuale, ma è la validità che si attribuisce a tutto ciò che accede all’interno dell’intuizione temporale. Con un sapore quasi fenomenologico, si ribadisce che tutti gli oggetti che vengono a trovarsi nel senso interno possono, eventualmente, essere accolti all’interno della nostra esperienza, intesa come insieme organizzato. Una volta che il soggetto conoscente ha acquisito delle rappresentazioni, si può dubitare, casomai, che esse siano in una successione oggettiva, ma non si può dubitare che esse siano, oggettivamente, materiale per una possibile esperienza. A questo livello l’attività temporale è, per così dire, indiscutibile.
65 Allison (1983/2004:255).
Anche i problemi inerenti all’irreversibilità, da cui era partito il ragionamento di Strawson, erano del tutto presenti a Kant. Ci sono passaggi nella prima Critica che illustrano come non si possa passare da un’irreversibilità delle percezioni a quella degli oggetti sui quali le percezioni si fondano67. Ad esempio, Kant sembra rendersi pienamente conto della differenza riguardo al concetto di oggetto che hanno gli idealisti rispetto a quella propria dei realisti trascendentali. Una tale differenza viene illustrata alla luce della sua distinzione tra fenomeno e cosa in sé:
Se i fenomeni fossero cose in sé, nessuno sarebbe mai in grado di stabilire, sulla scorta della successione delle rappresentazioni del loro molteplice, in qual modo tale molteplice sia connesso nell’oggetto. Ma in realtà noi non abbiamo a che fare se non con le nostre rappresentazioni; ed è assolutamente al di là della nostra sfera conoscitiva determinare in qual modo le cose possono stare in sé stesse.68
Nella vasta platea delle obiezioni sollevate contro Strawson, Guyer compie un passo in più con una replica precisa e puntuale che cerca di colpire la sua ricostruzione dell’impiego della seconda analogia. Strawson formulerebbe implicitamente tre premesse: in primo luogo, egli presuppone «la sequenza di rappresentazioni»; di seguito, stabilisce «che ogni rappresentazione stia nella stessa relazione temporale con il suo oggetto»; infine, ne deduce che «gli stati di cose oggettivi siano davvero ordinati come lo sono le loro rappresentazioni»69. Ma Guyer fa notare che «l'argomento di Kant per la causalità tra gli stati di oggetti inizia precisamente dal rifiuto delle due premesse di tale deduzione»70. È infatti difficile capire, senza che si sia stabilito l'ordine della successione oggettiva, quale sia l'ordine delle percezioni di tale successione:
67 Guyer sottolinea come l'ordine oggettivo e l'indifferenza di ordine siano proprio ciò che stiamo
cercando e che non può essere ammesso come punto di partenza: «non essendo direttamente deducibile dalla sequenza Ar-allora-Br la sequenza A-allora-B, la sequenza stessa Ar-allora-Br deve essere deducibile dalla sequenza A-allora-B. E, sicuramente, poiché la medesima sequenza A-allora-B non è direttamente data, ciò può essere dedotto solo da una legge la quale detti che, nelle date circostanze, B deve venire dopo A. Ecco una legge che davvero faccia collegare A a B e non solo Ar a A e Br a B; e ecco il vero senso in cui “dovrò dunque inferire la successione soggettiva dell'apprensione dalla successione oggettiva dei fenomeni” (A 193/B 238)». Guyer (1987: 257).
68 Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235). 69 Guyer (1987: 256).
le leggi causali che governano i meccanismi della percezione non potrebbero essere confermate indipendentemente da determinate conoscenze riguardo l'ordine di stati di cose oggettivi – così quei tipi di leggi non potrebbero essere