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IL REALISMO MODALE: TUTTI I MONDI ESISTONO

CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

3. MONDI POSSIBILI, ONTOLOGIA E METAFISICA: UN BAROCCO MONDIALIZZATO

3.2. IL REALISMO MODALE: TUTTI I MONDI ESISTONO

Perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l’impossibile è escluso.

Jorge Luis Borges Mi appariva chiaro che la vita e il mondo adesso era come se dipendessero da me: mi sarei sparato e il mondo non ci sarebbe stato più, almeno per me. A tacere poi che forse anche nella realtà non ci sarebbe stato più nulla per nessuno dopo di me, e che tutto il mondo, non appena si fosse spenta la mia coscienza, sarebbe svanito subito come un fantasma, […] perché forse tutto questo mondo e tutti questi uomini altro non sono che me solo.1

Queste sono le riflessioni che portano l’uomo ridicolo, scettico protagonista di un breve racconto di Fëdor Dostoevskij, a suicidarsi: stanco di essere indifferente a tutto se non al dolore, decide di farla finita, di compiere quel gesto che a lungo aveva rimandato. Tutto sembra ormai deciso, quando alla mente giunge uno strano pensiero: se in un altro mondo o in un’altra vita avesse commesso un’azione vergognosa e disonorevole, la sua esistenza terrena avrebbe conservato le conseguenze di tale gesto o l’indifferenza avrebbe avuto la meglio? Tali considerazioni lo fanno addormentare di colpo e solo in sogno porta a compimento ciò che si era prefissato: si punta la pistola al cuore e spara. Ma questo è solo l’inizio. Passata la barriera ontologica per eccellenza, quella tra la vita e la morte, anziché raggiungere «l’assoluto non-essere», si ritrova a volare nello spazio guidato da un individuo, «certamente non umano, ma che era, esisteva».2 Dopo aver attraversato «spazi oscuri e sconosciuti», si ritrova in un luogo inspiegabilmente familiare: un sosia del sole, attorno al quale ruota un duplicato della nostra terra; un duplicato, però, abitato da esseri umani non

1 Fëdor Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, a cura di Massimo Rosolini e Umberto Pannunzio,

Latina, L’Argonauta, 1983 [1877], p. 17.

toccati dal peccato che vivono in una sorta di paradiso terrestre come i «nostri progenitori»: un «terra felice» come avrebbe potuto essere la nostra se non fosse stata guastata dalla menzogna, radice di ogni male.1 Il racconto poi prosegue. Pur senza volerlo, il nuovo arrivato – portando in sé il seme del peccato che ammorba il luogo da cui proviene – corrompe gli abitanti, i quali, dimenticando la loro esistenza precedente, finiscono per ritenere che una vita senza menzogna e dolore sia impossibile. La gioia, derivante dalla sensazione di pienezza di una vita in cui non c’è bisogno di avere perché il proprio essere è già sufficiente, viene persa definitivamente: la verità dovrà ora essere appresa attraverso un percorso travagliato e l’unica fiducia, dunque, verrà riposta nella scienza, che non sarà mai in grado di garantire la felicità, bensì al massimo la conoscenza delle leggi della felicità. Il dolore provato dal protagonista è troppo forte, si sente morire e si risveglia; può darsi sia stato tutto un sogno, ma nulla impedisce alla verità di giungere in sogno: «io ho visto la verità, l’ho vista e so che gli uomini possono essere bellissimi e felici, senza perdere la capacità di vivere sulla terra».2

Nonostante il messaggio morale veicolato dal racconto sia di stampo chiaramente cristiano, l’assetto ontologico presenta, anche se molto velatamente, una visione teoretica non propriamente ortodossa che, in una situazione storica e culturale differente, se giunta agli occhi di un attento inquisitore, avrebbe potuto creare non pochi problemi all’autore.3 Sebbene infatti presenti caratteristiche utopiche, la terra visitata dall’anonimo protagonista non è un’utopia in senso etimologico: essa di fatto occupa un luogo raggiungibile per mezzo di un certo tipo di movimento, e in quanto entità di natura spaziotemporale questo pianeta si caratterizza piuttosto come mondo possibile

fisicamente esistente: una realtà alternativa che esemplifica caratteristiche così

simili alla nostra da presentarsi come sua controparte. Di fronte a tale visione sorge spontanea la domanda che anche lo spaesato protagonista rivolge alla sua guida: «Sono dunque possibili tali ripetizioni nell’universo, possibile che tali siano le leggi della natura?»4

Il primo a pensare che l’universo sia talmente vasto da ospitare un’infinità di mondi – così tanti da non poter escludere l’esistenza di una terra gemella – non è di certo stato Dostoevskij: è una tradizione, per vari motivi ostracizzata nel corso della storia, che possiamo far risalire a Leucippo e Democrito;5 in tempi più vicini a noi, uno tra i più famosi sostenitori di tali idee pagò le sue convinzioni a caro prezzo: l’immagine cosmologica fornita nel racconto da Dostoevskij presenta, infatti, qualche analogia con quella offerta da Giordano Bruno nel suo

1 Cfr. ivi, pp. 25-29. 2 Ivi, p. 43.

3 Sicuramente il potere sovversivo è attenuato dall’onirismo che racchiude l’esperienza, ma la

possibilità che non si sia trattato di un semplice sogno è più volte adombrata.

4 F. Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., p. 26.

5 Cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, IX, 30-31, 44, a cura di Giovanni Reale,

celebre dialogo De l’infinito universo e mondi. Il filosofo italiano, contrapponendosi ad Aristotele, nega la finitezza dell’universo e l’unicità del mondo in virtù della sua concezione del vuoto. A differenza dei peripatetici, i quali consideravano il vuoto privo di potenza contrapponendolo al mondo, ovvero alla totalità perfetta di tutto ciò che esiste, Bruno lo ritiene una potenza ricettiva ugualmente diffusa: il nostro pianeta sorge su uno spazio che senza di esso tornerebbe ad essere vuoto, il pieno è quindi potenzialmente vuoto. Sarebbe assurdo dunque negare la possibilità al vuoto esterno di accogliere altri mondi simili al nostro: la potenzialità del vuoto, dunque, si esplica nell’atto degli infiniti mondi che popolano l’universo illimitato. Nel perpetuo rinnovarsi della vita-materia, non dovuto a un «motore estrinseco» ma a un «principio interno» immanente, Bruno trova la sua ragione cosmologica: Dio esiste nell’universo in quanto questo ne è l’incarnazione sin dal principio; vale a dire che non esiste distinzione reale tra creatura e creatore, poiché un Dio infinito non avrebbe potuto esprimersi altrimenti se non in un Creato del medesimo ordine di grandezza, ovvero in quella molteplicità di mondi ove il vuoto si insinua nella materia che in esso si distende infinitamente.

In questo modo diciamo esser un infinito, ciò è una eterea regione inmensa, nella quale sono innumerabili et infiniti corpi come la terra, la luna et il sole; li quali da noi son chiamati mondi composti di pieno e vacuo: perché questo spirito, questo aria, questo etere non solamente è circa questi corpi, ma ancora penetra dentro tutti, e viene insisto in ogni cosa.1

In un certo senso, lo spirito che guida l’argomentazione di Giordano Bruno, e prima di lui quella di ascendenza atomista fatta propria da Epicuro e Lucrezio, è condiviso dal filosofo americano David Lewis: se già esiste il mondo che abitiamo, perché non dovrebbero esisterne degli altri? L’esistenza di un mondo soltanto sembra circoscrivere arbitrariamente l’orizzonte ontologico offerto dal vuoto indifferenziato o dal «vasto reame dei possibilia»2 a uno sguardo umano,

1 Giordano Bruno, De l’infinito, universo e mondi, Dialogo secondo, cit., p. 348. Giordano Bruno

mescola qui in modo originale stoicismo ed epicureismo. Come per gli stoici il principio divino è irriducibilmente interno al cosmo stesso, mentre per gli epicurei gli dei, se esistono, non hanno alcun rapporto con i mondi degli uomini. L’idea, invece, secondo cui la molteplicità di mondi che popola l’universo infinito è formata da materia e vuoto viene ripresa da Bruno dalla cosmologia epicurea, laddove gli stoici, seguendo Aristotele, postulavano una materia continua che crea l’unico mondo esistente, sebbene questo si rigeneri ciclicamente. Per la concezione stoica cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, VII, 134-143, 147-148; mentre per quella epicurea cfr. Epicuro, Lettera a Erodoto, 39-40, in Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più

celebri filosofi, X, 35-83, ora in Opere, Frammenti, testimonianze, a cura di Gabriele Giannantoni e

Ettore Bignone, Roma-Bari, Laterza, 1966-20034, p. 44; e Lucrezio, De Rerum Natura, I, 368-369,

430-432.

2 David Lewis, On the Plurality of Worlds, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 1986-

troppo umano. Nella prefazione al suo celebre saggio On the Plurality of Worlds, Lewis esprime chiaramente la sua posizione teoretica:

il mio realismo modale è semplicemente la tesi secondo cui ci sono altri mondi e individui che li abitano; e che questi possiedono una determinata natura e sono adeguati a giocare determinati ruoli teoretici. È una rivendicazione esistenziale, non dissimile da quella che farei se dicessi che ci sono mostri di Loch Ness, o spie all’interno della CIA, o controesempi alla congettura di Fermat, o serafini.

Non è una tesi riguardante la nostra competenza semantica, o sulla natura della

verità, o sul principio di bivalenza, o riguardo ai limiti della nostra conoscenza. Per me, è una questione riguardante l’esistenza di oggetti – non l’oggettività di un’argomentazione.1

È proprio il termine ‘realismo’ ad opporre la filosofia di Lewis alla semantica attualista presentata in precedenza. Sostenere una posizione realistica vuol dire affermare che l’esistenza di un oggetto è in qualche maniera indipendente dalla mente che lo contempla e dalla rappresentazione che essa produce: i mondi possibili di Lewis non sono né stipulati né creati, essi esistono indipendentemente dalla nostra capacità di immaginarli.

Se, da una parte, i mondi possibili del realismo modale differiscono sostanzialmente dai costrutti ipotetici di Kripke, essi non vanno in alcun modo confusi con gli infiniti mondi immaginati da Bruno o dall’uomo ridicolo, protagonista del racconto di Dostoevskij:

I mondi son simili a pianeti remoti; fatta eccezione per il fatto che molti di loro sono molto più grandi dei semplici pianeti, e non sono affatto remoti. Non sono però nemmeno vicini. Non sono ad alcuna distanza spaziale da dove siamo noi. […] non stanno ad alcuna distanza temporale da quando ci siamo noi. Sono isolati: non sussistono relazioni spaziotemporali tra cose che appartengono a mondi diversi. Allo stesso modo qualsiasi cosa accada in un mondo, non può causarne alcuna in un altro. Non si sovrappongono e non hanno nemmeno parti in comune, con l’eccezione, forse, degli universali immanenti […].2

In questo passaggio Lewis fornisce una delle caratteristiche fondamentali del suo modello metafisico: i suoi mondi non sono le stelle che vediamo in cielo e non si trovano nemmeno al di là di queste. Essi – come quelli di Kripke – non vengono scoperti per mezzo di potenti telescopi: essendo isolati causalmente e spaziotemporalmente, non è possibile osservarli, né, tantomeno, viaggiare dall’uno all’altro.

Prima di illustrare le principali caratteristiche del realismo modale, però, è necessario fare chiarezza su di un paio di nozioni la cui relazione è divenuta problematica: attualità e realtà. Fino ad ora i due concetti, sebbene non

1 Ivi, p. VIII. 2 Ivi, p. 2.

perfettamente congruenti, qualora formulati in coppie oppositive, sembravano condividere la medesima metà campo: da una parte reale-attuale, dall’altra possibile-immaginario. Nel momento in cui tutti i mondi possibili varcano la soglia dell’esistenza, il criterio di realtà risulta inadeguato a distinguere il nostro mondo: l’aggettivo ‘reale’ sarà attribuito ad un assieme di oggetti molto più vasto, mentre ‘attuale’ non sottolineerà uno statuto ontologico privilegiato, bensì solamente un punto di vista relativo al contesto.1 Il mondo nel quale trascorriamo le nostre vite sarà ancora qualificato come attuale, ma tale nozione non indicherà più una proprietà assoluta. Discutendo della semantica attualista abbiamo già incontrato una teoria indessicale della referenza: mancando espressioni non equivocabili, l’atto di riferimento è inscindibile dalle circostanze comunicative in cui avviene. Si tratta ora di estendere tale concetto, sviluppando una teoria indessicale dell’attualità: riferirsi ad un mondo chiamandolo attuale vuol dire soltanto indicare che quello è il mondo di cui si è parte.2 Come già aveva affermato nel suo articolo Anselm and Actuality e poi in Counterfactuals, dunque, per Lewis la parola «attuale» ha lo stesso significato della perifrasi «in questo mondo». L’attualità è un concetto relativo analogo a ‘qui’, ‘io’, ‘te’, ‘presente’: dipende dal contesto in cui viene utilizzato; il mondo attuale è semplicemente quello di cui fa parte l’entità che fissa il riferimento.3 Nella teoria indessicale dell’attualità il nostro mondo è attuale per noi, mentre per un abitante di un mondo diverso ad essere attuale sarà il suo. Il nostro mondo non è “più attuale” degli altri o attuale in senso assoluto: non abbiamo nessuna ragione per credere di essere stati più fortunati di tutti gli altri individui possibili.

Dati questi presupposti, ne consegue che anche le categorie astratto e concreto dovranno essere riviste. Una semantica che riconosce valore assoluto al termine ‘attuale’ concede uno statuto ontologico privilegiato ad ogni oggetto a cui tale aggettivo viene attribuito: questo sarà concreto, mentre le varianti non attualizzate, alla stregua di numeri e idee, saranno necessariamente astratte. All’interno di un modello come quello di Lewis, i due termini appaiono inadeguati a caratterizzare opposizioni di tal sorta: si finisce per dire che gli altri mondi sono astratti per noi, ma noi siamo per loro astratti quanto loro per noi.

1 Cfr. David Lewis, Counterfactuals, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 1973-20012, p.

86.

2 Cfr. D. Lewis, On the Plurality of Worlds, cit., p. 123. Quest’idea, poi sviluppata nei lavori

successivi, è già presentata da Lewis in Anselm and Actuality, in «Noûs», 4, 1970, pp. 175-188, ora in Philosophical Papers, vol. I, Oxford, Oxford University Press, 1983.

3 D. Lewis, Counterfactuals, cit., pp. 85-86. Siamo di fronte ad una forte assonanza del pensiero di

Lewis con quello di Cusano e Bruno. Ricordiamo la famosa immagine, ripresa e resa famosa da Pascal nel Pensiero 72, della sfera il cui centro è in ogni luogo e la circonferenza in nessuno. Per tutti costoro, infatti, l’universo infinito non ha centro, o meglio il centro è ovunque uno si trovi ad essere. Cfr. N. Cusano, La dotta ignoranza, II, 11, 161 e II, 12, 162, in Id., Opere filosofiche,

teologiche e matematiche, cit., pp. 191-193; G. Bruno, De la causa, principio et uno, Dialogo quinto, in Dialoghi filosofici italiani, cit., pp. 279-280; B. Pascal, Pensieri, II, 72, in Id., Le Provinciali, Pensieri, cit.,

Per quanto sia difficile definirle, questo sembra in contrasto con l’intuizione secondo cui le nozioni di astratto e concreto paiono essere proprietà fondamentali e non dipendenti dal punto di vista dell’osservatore; tale resistenza, però, è dovuta in parte all’ambiguità dei due concetti,1 in parte all’incapacità di accettare i postulati del realismo modale. I mondi, alcuni almeno, sono composti sia da entità che potremmo definire reali – ovvero che occupano una posizione determinata nello spazio-tempo – sia da entità dipendenti da stati mentali, se così si vogliono definire rispettivamente gli oggetti concreti e quelli astratti: è ovvio che per gli abitanti del medesimo mondo gli altri mondi possibili tendono a rientrare nella categoria degli abstracta, ma questa impressione è data solamente dal fatto che queste entità non entrano in relazione causale e spaziotemporale con noi.2 Abbandonando tale prospettiva, i mondi possibili, a differenza di numeri ed idee, sono quindi entità concrete.

Attuale, pertanto, è il mondo di cui noi facciamo parte, gli altri mondi sono possibilità non attualizzate, ovvero che non si sono realizzate nel nostro mondo. Fin qui il realismo modale non sembrerebbe discostarsi dalla semantica attualista, se non che, secondo la tesi semantica adottata da Lewis, quando parliamo facciamo riferimento ad una serie di possibilità non attualizzate (oggetti ed eventi), le quali non risultano riducibili a un discorso che non coinvolga riferimenti ed entità meramente possibili. L’attualista afferma che ‘tutto ciò che esiste’ è attuale, mentre chi condivide la tesi di Lewis si qualifica solitamente come sostenitore del possibilismo. Tuttavia, anche all’interno di quest’area semantica, lo statuto dei suddetti referenti può variare per spessore ontologico e, in questo senso, la posizione di Lewis pare sicuramente la più radicale, poiché i suoi mondi possibili esistono realmente e fisicamente: alla tesi semantica, dunque, fa da supporto una tesi metafisica – ovvero riguardante la natura ultima della realtà – secondo cui le possibilità non attualizzate non hanno consistenza puramente speculativa, bensì corrispondono ad uno stato di cose esistente in un mondo diverso da quello in cui abitiamo. In tal modo si converte la modalità in

quantificazione: «esiste la possibilità che ci siano cigni blu se e solo se, dato un

mondo w, in w ci sono cigni blu».3 È questo uno dei principali vantaggi offerti dalla filosofia di Lewis; infatti, non solo il realismo modale riesce a spiegare i concetti modali centrali mostrando come siano legati ad altri più familiari, ma è attualmente l’unica teoria della possibilità che riesce a offrirne una definizione in termini di esistenza: ‘è possibile che x’ se e solo se in (almeno) un mondo w*: x

1 Cfr. Francesco Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Bari, Laterza,

2010, pp. 234-240.

2 Cfr. D. Lewis, On the Plurality of Worlds, cit., pp. 84-86.

3 Ivi, p. 5 (trad. mia). Lewis utilizza la lettera W per designare indistintamente mondi singoli e

insiemi di mondi; si è qui scelto di normalizzare la simbologia, utilizzando w per indicare singoli mondi, mentre W denoterà solamente insiemi di mondi.

si avvera, ‘è necessario che x’ se e solo se in ogni mondo w: x si avvera.1 Applicando il realismo modale, l’attitudine modale del nostro linguaggio, dunque, non si presenta più come primitiva, ma può essere analizzata come derivata da una quantificazione sopra mondi possibili diversi per carattere, ma non per statuto ontologico. In altre parole, l’espressione ‘Avrebbero potuto esserci più stelle di quelle che ci sono’ ha un significato che va al di là di un sentimento, e il concetto di possibilità che essa esprime – ‘È possibile che ci siano stelle che attualmente non esistono’ – non è un «fatto bruto» appartenente al nostro mondo, ma indica una comparazione tra la quantità di stelle del nostro mondo e quelle di un altro mondo possibile.2 Nell’Introduzione all’edizione del 1980 del suo Nome e necessità, Saul Kripke ha scritto:

il filosofo dei “mondi possibili” deve badare a che il suo apparato tecnico non lo spinga a porre domande la cui sensatezza non sia assicurata dalle nostre intuizioni originarie di possibilità, che sono quelle che danno senso all’intero apparato.3 Nell’ottica di Kripke, dunque, è l’idea di mondo possibile a derivare dai concetti di possibilità, impossibilità, necessità e contingenza intesi come primitivi – o di base – per qualsiasi discorso che includa la modalità. Lewis ribalta questa prospettiva, sostenendo che l’attitudine modale del nostro linguaggio deriva dall’implicita «quantificazione esistenziale» insita nella convinzione di senso comune che «ci sono molti modi in cui le cose avrebbero potuto essere, al di là di come effettivamente (actually) sono»:4 i «modi in cui le cose avrebbero potuto

1 Cfr. ivi, pp. 13-17. Cfr. anche A. Borghini, Che cos’è la possibilità, cit., p. 49. Alcuni autori fanno

risalire questa definizione della modalità in termini di mondi possibili allo stesso Leibniz, ma quest’ultimo, sebbene avesse tutti gli elementi per farlo, non definisce mai esplicitamente la modalità in tal maniera: il suo modo di definire la modalità ha piuttosto a che fare con la natura della verità e l’analisi delle proposizioni. Una proposizione è necessaria se la sua analisi è finita, ovvero consente di arrivare a «idee semplici, di cui non si potrebbe dare una definizione»: «assiomi e postulati o […] princìpi primitivi, che non potrebbero essere provati e non ne hanno alcun bisogno», poiché sono delle identità, cioè proposizioni «il cui opposto contiene una manifesta contraddizione». Un semplice esempio è fornito dall’aritmetica: ‘2+2 = 4’. Dal momento che ‘2 = 1+1’ e ‘4 = 1+1+1+1’, possiamo ridurre la proposizione originale ‘2+2 = 4’ in ‘1+1+1+1 = 1+1+1+1’. È dunque evidente che il predicato – in questo caso ‘4’ – è contenuto nel soggetto ‘2+2’, o ‘(1+1) + (1+1)’. Nel caso delle verità contingenti, invece, l’analisi è infinita: «la risoluzione in ragioni particolari potrà andare avanti nel dettaglio senza limiti». Cfr. G. W. Leibniz, Monadologia, 35-37, cit., p. 458; cfr. anche Id., Il nuovo sistema. VIII: Sulla libertà, la

contingenza e la serie delle cause, sulla provvidenza (1689), in Scritti filosofici, vol. I, cit., pp. 422-427 e