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RELATIVISMO CONCETTUALE II: MONDI-CANTIERE

CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

3. MONDI POSSIBILI, ONTOLOGIA E METAFISICA: UN BAROCCO MONDIALIZZATO

3.5. RELATIVISMO CONCETTUALE II: MONDI-CANTIERE

Gli esseri umani non costruiscono il mondo in un certo modo in virtù di ciò che sono, ma in virtù delle loro concezioni delle possibilità. E queste possibilità sono solo limitate dal potere dell’immaginazione.

Tim Ingold

Dal punto di vista del relativista concettuale si può dire che non esista alcuna differenza tra un mondo plurale e una pluralità di mondi, poiché entrambe le perifrasi sottintendono il medesimo significato: esistono varie somme totali di rappresentazioni oggettive – o, semplicemente, di oggetti – che rispondono a differenti modelli concettuali o strutture di riferimento tra loro incompatibili perché orientate da diversi insiemi di interessi, desideri, speranze, convinzioni, i quali a loro volta informano la conoscenza a priori attraverso cui viene modellata l’esperienza. Dell’origine di queste griglie concettuali offre un esempio Cassirer nel suo Linguaggio e mito. Nel fluire costante e uniforme di impressioni sensibili, improvvisamente emerge una che si impone su tutte le altre, e in essa si concentra in quel momento tutta l’esperienza, nulla esiste all’esterno di essa. L’espressione di stupore che ne consegue costituisce la «metafora primitiva», ovvero «la trasposizione di un determinato contenuto di intuizione o di sentimento in suono»:1 entriamo così nella fase aurorale o mitica del linguaggio, in cui vige ancora un rapporto d’identità tra immagine e cosa, nome e oggetto.

A questo punto alla tendenza alla concentrazione comincia ad opporsi una forza contraria che dal particolare porta all’universale: il pensiero logico tende a differenziare sempre di più i concetti, allargandosi su sfere intuitive sempre più vaste e articolando i vari enti in categorie sempre più raffinate; dalla rottura dell’originaria identità di immagine e cosa, che lo sviluppo del sistema comporta, nasce il simbolo, organo base della conoscenza. A partire dall’intuizione iniziale viene così costruita una totalità complessa in grado di spiegare differenti fenomeni, i quali assumono realtà soltanto attraverso il sistema simbolico in cui sono inseriti; tuttavia, se la conoscenza teoretica è sempre preceduta dal concetto mitico-linguistico,1 è sempre possibile pensare che dalla molteplicità delle impressioni sensibili ne sarebbe potuta emergere un’altra e che, qualora si fosse imposta su tutte, i futuri sviluppi teoretici sarebbero stati sensibilmente diversi: differenti origini, differenti evoluzioni, differenti sistemi simbolici, differenti realtà. Per questo motivo Cassirer insiste molte volte sull’importanza di comprendere la «prospettiva del configurare» o «direzione del caratterizzare» delle varie forme di significazione:2 in altre parole, ‘che c’è davanti a me’ dipende non solo dalle mie aspettative e scelte, bensì da quelle dell’intera comunità a cui appartengo, la quale ha già da tempo selezionato una delle possibili forme di organizzazione del reale, che, però, da una prospettiva interna, appare l’unica realtà possibile. Non sono i leibniziani concetti che solo Dio intende compiutamente e nemmeno le realtà parallele a cui pensa Lewis: i mondi del relativista concettuale sono le differenti e attuali organizzazioni della realtà, le quali affermano verità tra loro incompatibili.

«Mito, linguaggio e arte» – secondo Cassirer – «costituiscono inizialmente una concreta e ancora indivisa unità, che soltanto gradatamente si scompone in una triade di attività spirituali formatrici indipendenti tra loro».3 L’immagine, come la parola, infatti, originariamente non rappresenta alcunché, coincide con l’oggetto stesso; solo in seguito svilupperà la sua funzione simbolica all’interno dell’organizzazione del reale selezionata dalla comunità che l’ha prodotta. Sostenere che le immagini non esibiscano tali caratteristiche e che il loro significato non risenta della struttura concettuale con cui le leggiamo sarebbe una forzatura evidente e inaccettabile; tuttavia, se condividiamo senza riserve la posizione di Cassier, l’affermazione precedente – secondo cui esiste una pluralità di mondi in quanto le varie comunità sviluppano sistemi simbolici regolati da una differente «prospettiva del configurare» – si presenta, se non completamente scorretta, perlomeno problematica. Nella maggior parte delle società attuali, infatti, esistono più sistemi simbolici tra loro inconciliabili: è difficile dire in che modo arte e scienza condividano lo stesso linguaggio e, anche restringendo la nostra analisi all’ambito estetico, pittura, scrittura e musica rispondono a codici

1 Si può sostenere che l’intuizione mitico linguistica, nella visione di Cassirer, esplichi ciò che

tiene implicato.

2 Cfr. E. Cassirer, Linguaggio e mito, cit., pp. 18 e 45. 3 Ivi, p. 115.

completamente differenti. A complicare ulteriormente la situazione si aggiunge il fatto che abbiamo definito i differenti mondi come somme ideali di oggetti, le quali corrispondono a contrastanti insiemi di verità: un enunciato è vero quando descrive un determinato oggetto in maniera adeguata, ma cosa possiamo dire di un quadro? Ovviamente il sistema di rifermento adottato per giudicare una rappresentazione pittorica sarà almeno parzialmente incompatibile con quello utilizzato per una teoria scientifica, un romanzo o una sonata, nonostante si sia evoluto assieme agli altri all’interno della medesima comunità. Dovremmo allora concludere che ogni società produce una molteplicità di mondi differenti tra loro incompatibili e che i vari individui passano in qualche modo dall’uno all’altro. Proprio questa si presenta come una delle idee centrali del pensiero di Goodman, il quale, sottolineando la difficoltà di mettere a confronto la versione del mondo descritta dalla psicologia e dalla fisica con quella rappresentata nei quadri di Van Gogh o Canaletto, sostiene che

Versioni di questo genere, in quanto raffigurazioni e non descrizioni, non hanno alcun valore di verità in senso letterale, e non si possono combinare a costituire una congiunzione. La differenza tra la giustapposizione e la congiunzione di due enunciati non ha nessun chiaro corrispondente nel caso di due immagini o di un’immagine e un enunciato. Versioni del mondo drammaticamente contrastanti possono ovviamente essere relativizzate: ognuna è corretta in base a un dato sistema – per una data scienza, un certo artista, o per un determinato soggetto di percezione e una situazione.1

La cartina al tornasole per verificare se due descrizioni o raffigurazioni sono modi diversi di vedere lo stesso mondo oppure si riferiscono a mondi differenti è offerta dalla possibilità di trasformazione: se la trasformazione non distrugge completamente l’informazione veicolata, allora possiamo dire che ci troviamo di fronte a modi di dire, altrimenti avremo a che fare con rappresentazioni e descrizioni afferenti a mondi diversi e incompatibili. Goodman ci fa tuttavia notare che ogni qual volta operiamo una simile trasformazione, non confronteremo tra loro due sensi letterari, bensì metaforici, o già trasposti, come scriverebbe Cassirer. L’unico modo che abbiamo per determinare la correttezza di una versione di mondo è, infatti, di compararla con il suo mondo di riferimento, ma

Non possiamo mettere alla prova una versione confrontandola con un mondo non descritto, non raffigurato, non percepito […]. Mentre si può parlare di determinazione a proposito di quali versioni sono corrette nel senso di ‘ciò che si viene a sapere del mondo’, dove ‘il mondo’ si suppone sia quel che viene

descritto da tutte le versioni corrette, ciò che veniamo a sapere del mondo è interamente contenuto nelle versioni corrette che ne diamo.1

In altre parole, secondo Goodman, all’interno di ogni comunità esistono diversi sistemi simbolici apparentemente inconciliabili che possono nondimeno essere confrontati tra loro in base al loro valore metaforico: ogni oggetto deve essere letto all’interno di una struttura di riferimento che non fa parte di ciò che viene descritto, bensì del sistema di descrizione stesso, e in assenza della quale gli oggetti stessi sono privi di qualsiasi caratteristica. Un romanzo, un quadro o una teoria scientifica non solo sono privi di significato in sé e lo assumono soltanto in base al sistema di coordinate in cui sono inseriti, ma in assenza di tale sistema si può dire che non esistano affatto.

Si è soliti separare, come abbiamo visto, l’attività produttiva in testi che «raffigurano il mondo» e testi che «costruiscono un mondo»,2 ma tale ripartizione non ha qui alcun senso. È chiaro, a questo punto, che per distinguere versioni fittizie o scorrette da quelle vere o accettate non si può mai ricorrere alla cosiddetta verità dei fatti – ovvero ad un assetto del mondo indipendente dal nostro modo di rappresentarlo –, in quanto il fatto non è meno costruito della finzione: ‘che c’è davanti a me’ dipende inevitabilmente dal sistema di riferimento che adottiamo per definirlo.3 La migliore definizione della filosofia di Goodman, infatti, è ancora quella data da Robert Cohen e Marx Wartofsky nella Premessa all’edizione del 1977 de La struttura dell’apparenza:

dietro una facciata di analisi fredde e metodiche delle condizioni per la costruzione di sistemi, sta in agguato una tesi radicale quanto inquietante; che il mondo non abbia, in se stesso, una struttura anziché un’altra: e che lo stesso valga per noi. La struttura dipende dai modi in cui lo consideriamo, e da ciò che facciamo. Ciò che facciamo, in quanto esseri umani, è parlare e pensare, costruire, agire e interagire. […] Le condizioni della costruzione di sistemi simbolici sono, generalizzando, condizioni della costruzione di mondi da parte nostra, e della costruzione di noi stessi in quanto parte dei modi di essere «del» mondo.4

Non solo gli oggetti sono costrutti sociali, ma anche la stessa soggettività che li coglie non è che un fascio di credenze dinamiche che si costruiscono operando all’interno di uno o più mondi attuali. Come per Cassirer, anche per Goodman gli esseri umani agiscono più che contemplare, o meglio, secondo lui l’atto di

osservazione è già un atto di creazione:5 comparare mondi differenti e tentare di

1 Ibidem.

2 Cfr. Libro I, par 3.1.

3 Cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, cit., p. 108.

4 Robert S. Cohen, Marx W. Wartofsky, Premessa, in N. Goodman, La struttura dell’apparenza, cit.,

p. 5.

5 E. Cassirer, Linguaggio e mito, cit., p. 52: «Nella misura in cui il particolare agire dell’uomo si

comprenderli consiste nel «trovare un adattamento», ovvero nel costruire un modo o mondo in cui le cose possono stare assieme coerentemente; un solo motto può dunque riassumere tutta la sua filosofia: «Comprendere e creare vanno di pari passo».1

I mondi-cantiere in cui abitiamo sono perennemente in costruzione, ma, a differenza di Cassirer, la loro origine non interessa Goodman: in quanto «il fare è un rifare», il materiale di costruzione non viene fornito da intuizioni mitiche, bensì «da altri mondi».2 Nell’universo di Goodman i diversi agenti culturali non fanno altro che riciclare parti considerate interessanti da altri sistemi e inserirle all’interno di strutture meglio adeguate agli scopi contingenti; in ciò consiste la sua critica anti-essenzialista: la scienza quanto l’arte non operano su ‘dati’, bensì su ‘presi’; l’oggetto è infatti considerato per il suo valore funzionale, mai per le sue proprietà intrinseche, o meglio, la sua stessa sostanza viene stabilita dallo scopo assegnatogli dal sistema rappresentativo in cui è inserito.3 Proprio sulle modalità di costruzione di questi mondi, comuni ai più svariati campi del sapere, si concentra l’attenzione del filosofo, il quale, nel suo Vedere e costruire il mondo, distingue cinque modalità di fabbricazione, anche se la classificazione proposta, per sua stessa ammissione, non è sentita come esauriente.4

I. Composizione e scomposizione. È l’attività principale attraverso cui i mondi

vengono creati: materiali provenienti da altri mondi sono ricondizionati allo scopo di formare tanto soggetti quanto oggetti. È ugualmente possibile che gli elementi vengano addizionati o moltiplicati; differenti serie precedentemente autonome si intrecciano per formare una nuova unità: l’esempio della sinestesia, in cui avviene una coordinazione intermodale tra impressioni sensibili appartenenti a sfere sensoriali differenti, è forse il più evidente.

II. Peso e importanza. I mondi, molto spesso, non differiscono l’uno dall’altro

per la presenza o l’assenza di determinate componenti, ma per la rilevanza loro attribuita.5 Limitandoci all’ambito artistico, basti pensare alla notazione musicale: è evidente che sul pentagramma non vengano segnati tutti gli aspetti dell’esecuzione, ma solamente quelli giudicati

progressiva suddivisione, una sempre più determinata “articolazione”». Cfr. anche Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, Milano, il Saggiatore, 1976-20032, p. 208: «L’“atteggiamento”

estetico è un atteggiamento mobile, di ricerca, di esplorazione – è meno atteggiamento che azione: creazione e ri-creazione»

1 Cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, cit., pp. 24-25. 2 Cfr. ivi, p. 7.

3 Cfr. ivi, pp. 8 e 10. 4 Cfr. ivi, pp. 8-19.

5 Tale modalità di fabbricazione appare in filigrana già in E. Cassirer, Linguaggio e mito, cit., p. 113:

«Se ad esempio noi supponiamo che nella designazione dell’uccello, e quindi nel suo concetto linguistico, il momento del “volo” sia evidenziato come l’elemento decisivo ed essenziale, allora, in virtù sua e grazie alla sua mediazione, la farfalla entra effettivamente a far parte della classe degli uccelli».

rilevanti per un certo scopo, mentre altri vengono lasciati all’arbitrio o alla prassi; ovviamente, l’analisi delle motivazioni che hanno spinto a dare peso ad alcune caratteristiche piuttosto che altre ci aiuta a comprendere come la musica viene vissuta da una specifica comunità. III. Ordinamento. Se i mondi si differenziano non solo per gli individui che li

compongono, ma altresì per il peso e l’importanza a questi attribuita, lo potranno fare anche in base alla modalità con cui i vari elementi vengono ordinati e posti all’interno di particolari tassonomie.

IV. Eliminazione e integrazione. Al variare delle condizioni di vita corrisponde

una diversa relazione pratica tra individui e mondo; di conseguenza alcuni materiali appartenenti al mondo precedente verranno abbandonati: tale tendenza è controbilanciata dall’immissione di nuovo materiale proveniente da altri mondi, che si presta meglio allo scopo. In campo musicale, ad esempio, l’eliminazione tanto degli «accordi classati» quanto di glissandi e clusters, caldeggiata da Pierre Boulez, è esito di tale dinamica: la logica che presiedeva la composizione musicale del periodo faceva apparire tali elementi come approssimazioni inadeguate ad inserirsi coerentemente nella struttura seriale delle composizioni; rinuncia tuttavia controbilanciata da un approfondimento della fisica acustica che ha autorizzato l’immissione nel linguaggio musicale di una serie di concetti provenienti dal mondo della matematica e delle scienze.1 V. Deformazione. L’ultima modalità di fabbricazione proposta consiste nel

deformare o dare nuova forma alle vecchie componenti; all’interno di tale procedura ricade una vastità di pratiche differenti dagli esiti più disparati: dalla ricontestualizzatine alla parodia, dalla deformazione grottesca alla messa a nudo delle meccaniche di potere tipica della rivendicazione politico-sociale.

Che la visione del mondo degli esseri umani si modifichi nello spazio e nel tempo è fuori di dubbio, e altrettanto sicuro è che tale mutamento si verifichi sia nell’arte sia nella scienza. Ma Goodman non sta affatto asserendo simili truismi, nel corso dell’intera sua vita ha insistito sulla tesi ben più radicale secondo cui non vi è motivo di ritenere la legge di gravitazione universale di Newton maggiormente adeguata a spiegare le dinamiche reali rispetto a un quadro di Paul Klee o a Gargantua e Pantagruele. Un’idea sconvolgente che, all’indomani dell’uscita di Vedere e costruire il mondo, non aveva mancato di scatenare la reazione di Quine – suo collega ad Harvard con cui nel 1947 aveva scritto il manifesto del nuovo nominalismo costruttivista.2 Della replica di Quine – concretizzatasi in una recensione non troppo lusinghiera pubblicata sulla rivista ad ampia tiratura

1 Cfr. Pierre Boulez, Pensare la musica oggi, Torino, Einaudi, 1979, pp. 39-40, 45 e passim.

2 Nelson Goodman e Willard van Orman Quine, Steps Toward a Constructive Nominalism, in

The New York Review of Books1 – può certamente stupire l’intempestività: non era di certo il primo libro in cui Goodman esponeva chiaramente le sue idee in proposito. Non è invece difficile comprendere le ragioni del gesto di Quine, filosofo che, come già in precedenza è trasparito, aveva fatto dell’imperscrutabilità del riferimento e della relatività ontologica due capisaldi del suo pensiero:2 spingersi ancora in questa direzione, fino ad accettare altre versioni del mondo accanto a quelle scientifiche, avrebbe significato spalancare le porte al relativismo concettuale più estremo; molto meglio, come egli stesso suggerisce nella recensione, «fermarsi dopo il primo passo: le teorie fisiche».3 Tuttavia, dal punto di vista di Goodman, la presa di posizione di Quine appare immotivata: prendendo seriamente il problema kantiano della teoreticità dell’osservazione – «i fatti sono teorie di taglia piccola, e le teorie vere sono fatti di taglia grande»,4 scrive nel libro bersaglio degli strali del recensore –, le molteplici versioni possiedono la medesima legittimità in quanto hanno tutte come referenti mondi reali.5 Arte e scienza, in altre parole, sono mezzi ugualmente appropriati per esprimere ciò che emerge dall’esperienza. Il relativista concettuale, infatti, non intende minimamente disconoscere i meriti della scienza, ma sostiene che non vi sia modo di assegnare una posizione privilegiata a una versione anziché a un’altra:

molte versioni del mondo diverse sono indipendentemente interessanti e importanti, senza che si debba richiedere o presumere la loro riducibilità ad un’unica base. Il pluralista, ben lontano dall’essere contro la scienza, accetta le scienze nel loro pieno valore. Il suo tipico avversario è il materialista o il fisicalista che pretende a un monopolio, col sostenere che un sistema, quello fisico, è preminente e onnicomprensivo, per cui ogni altro sistema deve in ultima istanza essere ridotto ad esso oppure respinto in quanto falso o privo di significato.6 Non solo – come afferma Goodman punzecchiando il collega di Harvard – è illecito sostenere che tutti gli altri mondi siano in qualche modo riducibili a una base fisica, ma anche un’eccessiva separazione tra il modo di operare dell’arte e quello della scienza è analogamente errata. Poiché «i mondi che abbiamo li ereditiamo dagli scienziati, dai biografi o dagli storici quanto dai narratori, dai drammaturghi o dai pittori»,7 ogni agente culturale sarà influenzato da una molteplicità di sfere differenti e ogni suo prodotto risentirà di tale interferenza costruttiva. L’esempio più famoso è forse quello fornito da Darwin, che ebbe l’intuizione sulla competizione che guida la selezione naturale suggestionato dal

1 Willard van Orman Quine, Otherworldly, cit. 2 Cfr. anche Id., Ontological Relativity & other essays, cit. 3 W. O. Quine, Otherworldly, cit., p. 25 (trad. mia). 4 N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, cit., p. 114. 5 Cfr. ivi, pp. 122-123.

6 Ivi, p. 5. 7 Ivi, p. 121.

reazionario teorico sociale Thomas Malthus, proiettando in tal modo una metafora sociale nella natura; i darwinisti sociali fecero poi appello alla sanguinaria lotta della natura per legittimare la competizione capitalista per il controllo della società, richiudendo così il metaforico cerchio sociale-naturale. O ancora, se si può affermare con sicurezza che Edwin A. Abbott non avrebbe potuto scrivere Flatland senza i contemporanei lavori di Bernhard Riemann, è parimenti ragionevole ritenere che, se Hugh Everett III e David Lewis non fossero stati accaniti lettori di fantascienza, l’«interpretazione dei molti mondi della meccanica quantistica» e il realismo modale non sarebbero mai nati.1 Assistere alla nascita di un’idea è un evento piuttosto raro: la maggior parte delle volte dobbiamo accontentarci di vederle rimbalzare da una parte all’altra nel campo da gioco della cultura.

Oltre a non differenziarsi per modalità di costruzione né per grado di aderenza alla verità, arte e scienza, dunque, sembrano intrecciarsi infinitamente l’una con l’altra. Sebbene una totale coincidenza tra le due risulti ancora difficile da accettare, Goodman riesce a spazzar via un altro luogo comune, ovvero l’idea secondo cui la scienza persegua uno scopo pratico, mentre l’arte sia il regno dell’«esplorazione disinteressata». Come scrive ne I linguaggi dell’arte, infatti,

non ogni esplorazione disinteressata è estetica. Pensare che la scienza abbia le sue motivazioni ultime in scopi pratici, e sia giudicata o giustificata a partire dai ponti, dalle bombe e dal controllo della natura, significa confondere la scienza con la tecnologia. La scienza ricerca la conoscenza senza pensare alle conseguenze pratiche, ed è interessata alla previsione non come guida per il comportamento ma come prova di verità. La ricerca disinteressata include tanto l’esperienza scientifica che quella estetica.2

Se arte e scienza non si distinguono nemmeno negli scopi che si prefiggono – o meglio, come vorrebbe il senso comune, per l’assenza o la presenza di scopo –,