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RELATIVISMO CONCETTUALE III: MODI DI VEDERE O MONDI DEL VEDERE? Anche chi voleva scappar via dal Mondo lo traduce.

CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

3. MONDI POSSIBILI, ONTOLOGIA E METAFISICA: UN BAROCCO MONDIALIZZATO

3.6. RELATIVISMO CONCETTUALE III: MODI DI VEDERE O MONDI DEL VEDERE? Anche chi voleva scappar via dal Mondo lo traduce.

Henri Michaux

Il concetto dell’esistenza di un determinato spazio all’interno del quale sia possibile la semiosi – ovvero il processo attraverso cui qualcosa assume il valore di segno – non è certamente riconducibile a una matrice ideale unica: sebbene, una volta creata, sia possibile riconoscerne una genealogia infinita, la formulazione della nozione di semiosfera viene giustamente attribuita a Jurij Michajlovič Lotman.

Lotman nasce come studioso di letteratura russa e, anche quando, in un secondo momento, si interesserà dello sviluppo dei sistemi simbolici e della loro dinamica sociale, gli esempi che trarrà affonderanno sempre le radici nei testi e nella tradizione russa; non a caso detiene, dal 1960 al 1977, la cattedra di Letteratura Russa e successivamente viene eletto direttore del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere all’università di Tartu, scuola che, come ci ricorda lo stesso Lotman nelle sue Non-Memorie, ha dato prova negli anni di una grande

capacità di rinnovamento.1 Nel corso degli anni, infatti, il pensiero di Lotman subisce un’evoluzione che tende ad allargare il concetto di testo a una dimensione sempre più ampia e fluida. Non solo il testo, ma l’intero sistema linguistico non può più venir preso in esame come se fosse autonomo e isolato: già nei saggi scritti assieme a Boris Andreevič Uspenskij nel corso degli anni Sessanta e poi raccolti nel volume Tipologia della cultura – pubblicato nel 19732 – viene elaborato il concetto di «sistema modellizzante secondario» che raccoglie una serie di altre strutture semiotiche – come, ad esempio, miti, immagini e sogni – che sebbene differiscano dal «sistema modellizzante primario» (ovvero il linguaggio naturale), mantengono con esso un rapporto di reciproca interazione. Tale impostazione porta a concludere non solamente che l’intero sistema linguistico non può essere considerato in funzione a se stesso, ovvero avulso dal contesto in cui si è formato, ma anzi che esso è continuamente vivificato dalle differenti formazioni culturali di cui è parte integrante. Per rendersi conto delle potenzialità di questa intuizione basti pensare che non si è in alcun modo vincolati a considerare il sistema modellizzante primario come obbligatoriamente costituito dal codice linguistico. Il contenuto semiotico prodotto dall’interazione di molteplici strutture culturali può quindi essere espresso in un codice diverso, come ad esempio quello musicale: risalendo dal sistema modellizzante primario a quello secondario, a cui è inestricabilmente legato, si aprono nuove prospettive alla comparazione intermediale. Così facendo, procedimenti che a prima vista presentano caratteristiche palmari incommensurabili perché appartenenti a codici espressivi diversi, possono essere messi a confronto risalendo alle strutture culturali comuni che li hanno ispirati; si può dunque mettere simultaneamente in evidenza come una comune volontà comunicativa sviluppi strategie linguistiche differenti e quali siano gli aspetti su cui queste ultime convergono o divergono.3

L’articolazione del sistema pone subito in evidenza la particolarità di Lotman nel contesto strutturalista e post-strutturalista. La sua semiotica, infatti, si distingue sia da quelle derivate dall’impostazione filosofica di Pierce e Morris, sia da quella preconizzata da Ferdinand de Saussure – nonché dagli sviluppi

1 Cfr. Jurij Michajlovič Lotman, Non-memorie, Novara, Interlinea, 2001, p. 86: «[…] a me e alla

scuola di Tartu è toccato più volte toglierci la vecchia pelle».

2 La traduzione italiana del volume appare due anni dopo: Jurij Michajlovič Lotman e Boris

Andreevič Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975.

3 La mancata connessione tra «sistema modellizzante primario» e «secondario» si presenta come

uno dei limiti più evidenti delle odierne comparazioni intermediali: un’analisi delle forme che non si ponga il problema della loro formazione non consente in alcun modo di comprendere la necessità che ha spinto gli artisti a comporre le loro opere in un modo e non in un altro. Un esempio di analisi intermediale che, dopo un’accurata indagine delle somiglianze tra i procedimenti compositivi musicali dell’avanguardia postweberniana e quelli poetici di Amelia Rosselli, non riesce a cogliere fino in fondo il senso di tale scelta estetica è rintracciabile in Paolo Cairoli, Spazio metrico e serialismo musicale. L’azione dell’avanguardia postweberinana sulle concezioni poetiche

anglosassoni di Ivor Armstrong Richards e da quelli strutturalisti di Jakobson, fortemente influenzato dalla teoria dell’informazione elaborata negli anni quaranta da Claude Shannon e Warren Weaver.1 Sebbene la semiotica di Pierce e Morris e quella strutturalista non si basino su identici presupposti – se la prima pone alla base un segno formato dall’unione di significato, significante e referente, il segno di de Saussure è invece composto dai primi due soltanto, e il suo sistema semiotico si fonda sulla dicotomia fra langue e parole2 –, si può tuttavia dire che entrambe le tradizioni scientifiche, pur differendo in modo sostanziale, concordino sul carattere atomico – ovvero non ulteriormente scomponibile – dell’elemento di partenza su cui in seguito verrà costruito il sistema: si va dunque dal semplice al complesso, dal segno dominato da regole precise allo scambio d’informazioni espresso dal codice linguistico. In sintesi, come l’epigenesi del vivente è un prodotto di sintesi ottenuto per composizione di elementi semplici (i quattro nucleotidi del DNA e i venti aminoacidi nel caso delle proteine), così il linguaggio è ottenuto attraverso la produzione secondo regole precise di stringhe ben formate di segni: in entrambi i casi la competenza del vivente in quanto organismo semiotico è di tipo sintattico e – come sottolinea efficacemente Ronchi – «la differenza tra il normale e il patologico è data […] dalla qualità di trascrizione».3 In altre parole, la vita consiste nel passaggio – efficace o meno – di informazioni già date. Lotman si rende conto dei rischi di tale impostazione; infatti, isolando il sistema linguistico e studiandolo come risultato di regole interne a esso, si corre il pericolo di costruire una struttura incapace di render conto della varietà dell’oggetto di indagine: in natura, come nella cultura, è difficile riscontrare sistemi isolati, costituiti da elementi realmente distinti e separati, analizzabili univocamente.4 Tale osservazione conduce Lotman a ribaltare le proposte semiotiche precedenti, sostenendo che non è il singolo linguaggio isolato a essere condizione necessaria per la comunicazione e la semiosi, ma è il «dialogo»: l’«insieme delle formazioni semiotiche precede (non in senso euristico ma funzionale) il singolo linguaggio isolato ed appare la condizione necessaria per l’esistenza di quest’ultimo»; la relazione tra queste

1 Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza, 1967-201023, pp. 25-

27. Per l’intersezione tra le ricerche di cibernetica, genetica e semiotica strutturale cfr. R. Ronchi,

Il canone minore, cit., pp. 269-272.

2 La differenza sostanziale tra la semiotica di stampo anglosassone e quella di matrice

strutturalista risiede nell’«autoreferenzialità» del linguaggio prevista da quest’ultima: mentre per la prima la genesi del senso è data da un’applicazione del gioco linguistico su di un riferimento esterno, ovvero da un nesso linguaggio-mondo, per la semiotica di matrice strutturalista l’evoluzione linguistica è fornita solamente dalle manipolazioni convenzionali del nesso significante-significato. Per una critica del modello semantico (e semiotico) saussuriano e strutturalista cfr. L. Doležel,

Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, cit., pp. 5-6.

3 R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 274.

4 Cfr. Jurij Michajlovič Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia,

formazioni crea la necessità di un linguaggio e ne regola l’evoluzione.1 Analizzare un particolare regime simbolico senza tener conto del ruolo attivo degli agenti e delle istituzioni che attualizzano l’ordine culturale stesso significa ignorare la semiosi come processo. Perché vi sia uno scambio informativo (e quindi un linguaggio), bisogna vi sia qualcosa da scambiare, ma questo qualcosa non esiste al di fuori dello scambio (e quindi del linguaggio) in cui è dato: in opposizione agli altri modelli semiotici, dunque, per Lotman l’informazione veicolata dal linguaggio non è data, ma creata nell’interazione tra due attori impegnati in una conversazione che ha luogo in una situazione sempre determinata e che si innesta su di una catena di enunciazioni anteriori, prospettandone al contempo di ulteriori. Tale impostazione è probabilmente dovuta all’influenza del circolo di Bachtin, all’interno del quale – secondo le parole di Ronchi – si è delineata «la più potente obiezione al modello linguistico di derivazione ingegneristica».2 In altre parole, per Lotman – come per Bachtin – la competenza del vivente è

dialogica, non (solo) sintattica: in uno scambio comunicativo il significato non

precede la relazione, ma nasce dalla relazione, nel cui farsi si può scorgere al massimo una tendenza, un «senso» che orienta di volta in volta le domande e le risposte. Il termine ‘dialogo’, però, appare ancora inadeguato a rendere conto di tale dinamica: a esso – fa notare Ronchi – si dovrebbe preferire il termine ‘conversazione’, poiché convenzionalmente un dialogo è una conversazione che subordina il suo strutturarsi a un significato trascendente sul quale i due attori dovranno infine convenire; una conversazione, invece, si mostra più libera e i due attori, adeguando vicendevolmente le proprie domande e risposte, creano un significato che non preesiste all’interazione, ma sarà evidente (emergerà) solo al suo termine.3 Non è un caso che la nozione di semiosfera deve molto al concetto di biosfera, elaborato nel corso degli anni Venti e Trenta dal biologo Vladimir Ivanovič Vernadskij.4 L’idea base della biosfera è che tutte le formazioni organiche (e non solo) siano legate tra loro in modo molto stretto: l’umanità che osserva la natura deve sempre considerarsi parte funzionale di quest’ultima. L’osservatore è perennemente all’interno del sistema che osserva: così come l’uomo e il mondo si ripiegano l’uno nell’altro, anche la stessa cultura si presenta come soggetto e oggetto in se stessa.5 Avvicinando il linguaggio alla natura, dunque, non la si vuole certamente umanizzare prestandole la struttura della parola; l’intento è piuttosto quello di naturalizzare il linguaggio – e con esso l’essere umano – ritrovandovi all’opera il medesimo schema generale: anche i

1 Cfr. ivi, pp. 68-69.

2 R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 275. 3 Ivi, p. 276.

4 J. M. Lotman, La semiosfera, cit., p. 56: «Chiamerò questo continuum semiosfera in analogia con

il concetto di biosfera introdotto da Vernadskij».

5 Per parafrasare il titolo di un saggio di Lotaman del 1989, poi pubblicato in versione inglese

nel 1997 (cfr. Jurij Michajlovič Lotman, Culture as a subject and an object in itself, in «Trames», 1 (51/46), 1997, pp. 7-16).

linguaggi naturali fanno parte dell’insieme organico e agiscono tanto su se stessi quanto sulle altre formazioni semiotiche in un intreccio funzionale inestricabile.

L’universo semiotico può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni. È però più feconda l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare come un unico meccanismo (se non come un organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il «grande sistema» chiamato semiosfera.1

La priorità non è dunque accordata ai singoli organismi, bensì a quello che potremmo chiamare un sistema di sistemi in perenne interazione, il quale è al centro del concetto di semiosfera, che è, secondo le parole di Lotman, lo «spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi».2 Questa definizione ha il merito di contenere implicitamente due aspetti fondamentali: innanzitutto sottolinea, come abbiamo detto, l’insensatezza e l’errore cui si è costretti nel momento in cui si tenta di isolare soltanto un aspetto culturale senza tener conto dell’ambiente complesso in cui è immerso, ma soprattutto ci fa capire che, se il concetto di semiosfera è applicabile universalmente a qualsiasi formazione culturale, essa, in quanto unità all’interno della quale avviene la semiosi, non è universale, ma particolare. La semiosfera occupa infatti una

determinata regione spaziotemporale e presenta un comportamento specifico orientato a

organizzare la «dipendenza funzionale fra le parti» con modalità di aggregazione specifiche:3 al suo esterno esiste una realtà extrasemiotica che può essere dominio di un’altra semiosfera o semplicemente realtà non semiotizzata: «testi che le sono estranei» o «non testi». Esiste dunque del materiale che non ha mai avuto o che ha perso valore semiotico per una determinata formazione culturale e quindi, al suo interno, non esiste linguaggio in grado di comunicarlo. Attraverso una metafora visuale cosmica si può dire che le differenti culture formano un multiverso di universi regolati da leggi differenti: lo sguardo di un essere in grado di fare astrazione da ogni formazione culturale coglierebbe le varie semiosfere come una sorta di «universi-bolla», caratterizzati ognuno da una specifica geometria interna potenzialmente infinita, che, tuttavia, da una prospettiva esterna tende a sfumare verso i confini, i quali a volte si toccano senza particolari conseguenze, altre volte, invece, si uniscono e si inglobano. La (post-)modernità della visione di Lotman è confermata dal fatto che il rapporto tra culture appartenenti a semiosfere differenti mostra affinità molto forti con la nozione di «differenza culturale», tanto cara ai Cultural Studies americani e alla critica postmodernista in genere: la discontinuità tra culture non appartenenti alla medesima semiosfera non è di tipo semplicemente

1 J. M. Lotman, La semiosfera, cit., p. 58. 2 Ibidem.

epistemologico, ovvero riguardante ciò che una cultura conosce o è in grado di conoscere, ma è una differenza intrinseca al processo di enunciazione, riguardante ciò che le varie affermazioni della e sulla cultura riconoscono, ovvero autorizzano o non autorizzano, come «conoscenza/conoscibile».1 In altre parole, due enunciati, anche se identici nell’aspetto, inseriti in due semiosfere diverse innescheranno processi associativi disparati: essi non saranno semplicemente diversi, ma incommensurabilmente differenti.2 Potremmo così dire che la differenza che intercorre tra diversità culturale e differenza culturale è analoga a quella che intercorre tra modi di dire e mondi del dire, o – per continuare la celebre analogia tra percezione, in cui la vista occupa una posizione tradizionalmente privilegiata, e conoscenza – tra modi di vedere e mondi del vedere.3 La situazione, solo apparentemente astratta, riguarda la realtà quotidiana. Se, ad esempio, una persona manca della più elementare cultura scientifica può non comprendere la richiesta ‘Versami un bicchiere di H2O’, ma con l’opportuna spiegazione il divario culturale è colmabile: è quindi in linea di massima possibile, se emittente e destinatario abitano la medesima semiosfera, trovare una perifrasi alternativa che ottenga il medesimo risultato o riesca a fornire all’interpretante le competenze necessarie a decodificare l’enunciato di partenza. Situazione completamente diversa si sono trovati ad affrontare i missionari cristiani in India e in America. Si può provare a spiegare a un induista che per vedere la “luce divina” dovrà rinascere una seconda volta, ma difficilmente afferrerà che il missionario cristiano sta pensando alla rinascita in paradiso e non alla reincarnazione. Il senso letterale è lo stesso, ma i punti di sovrapposizione tra le due semiosfere sono solo apparenti, poiché l’impianto metaforico è incompatibile: un’affermazione è necessaria nel contesto di una qualsiasi organizzazione del sapere – o «episteme», per utilizzare un termine foucaultiano di nota fama4 – solamente quando è resa tale da una o tutte le sue concezioni dell’ordine, del segno e del linguaggio; in caso contrario l’enunciato di partenza non verrà compreso se non a prezzo di una totale ricostruzione di un mondo di

1 Cfr. Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001-20062, pp. 52-60.

2 Così ad esempio in Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano,

Feltrinelli, 1981-20143, p. 51.

3 Cfr. E. Cassirer, Linguaggio e mito, cit., p. 18: «La domanda su cosa sia il reale in sé […] è una

domanda che non ci si deve porre. Infatti visibile per lo spirito è soltanto ciò che gli si mostra in una determinata configurazione; ma ogni determinata forma dell’essere scaturisce innanzitutto da un determinato modo del vedere, da un’attività ideale che conferisce forma e significato». Il «modo del vedere» di cui parla Cassirer è qui divenuto un mondo del vedere, in quanto con tale perifrasi si intende tutto ciò che può essere colto all’interno di un particolare sistema di forme e significati. All’interno di ogni mondo del vedere, ci possono essere punti di vista differenti da cui si osservano le cose: sono questi i modi di vedere il mondo. Tuttavia, porre un discrimine oggettivo e non arbitrario tra i casi in cui si possono identificare diverse descrizioni rivali del medesimo oggetto e quelli in cui invece si è in presenza di descrizioni non concorrenti di enti diversi non si dimostra affatto semplice, se non, in linea di principio, addirittura impossibile.

significati estraneo al destinatario della comunicazione. Caso analogo è quello del frate domenicano che mostra all’imperatore degli Aztechi il Vangelo dicendo «Questa è la voce di Dio»: l’indigeno se la porta all’orecchio, ma, non udendo nulla, lo getta a terra.

I suddetti esempi ci illustrano, inoltre, come la molteplicità organica di mondi culturalmente determinati prospettata da Lotman, seppur suggestiva, presenti, oltre a quelle affrontate per accettare l’esistenza di una pluralità di mondi attuali, nuove difficoltà filosofiche, sebbene queste ultime rimangano intimamente collegate alle precedenti. Sebbene Lotman ritenga che le semiosfere siano tra loro separate e indipendenti – e la differenza culturale è proprio l’esito di tale disgiunzione –, insiste contemporaneamente sulla possibilità che materiale non semiotizzato entri a far parte del capitale simbolico di una determinata cultura. Ma se una data semiosfera «non può avere rapporti con testi che le sono estranei […] o con non testi», come è possibile che essi vengano tradotti in uno dei suoi linguaggi? Se il «non testo» viene etichettato come testo nel momento in cui assume un significato per una particolare cultura, che cosa esso fosse prima è impossibile da determinare: il «non testo» e il niente appaiono difficilmente distinguibili. La situazione non migliora per i «testi che le sono estranei», i quali vengono identificati attraverso una definizione doppiamente oscura: non solo, infatti, pretendiamo di distinguere tali testi dal niente, ma affermiamo che, per una cultura che risponde a schemi concettuali completamente differenti dai nostri, questi hanno un preciso significato. In entrambi i casi, ammesso e non concesso che ‘qualche cosa’ possa ‘entrare’ a far parte di una specifica semiosfera, essa non sarebbe ‘tradotta’, ma ‘tradita’, ovvero non vi sarebbe alcun rapporto tra il significato antecedente e quello successivo; in altre parole, un oggetto comparirebbe improvvisamente dal nulla e verrebbe considerato immediatamente come eterno, un altro, una volta scomparso, non sarebbe mai esistito. Lotman si dimostra ben consapevole del problema, al quale offre due soluzioni, in un certo senso complementari.

La prima soluzione, avanzata ne La semiosfera, è quella che potremmo chiamare dei filtri. Il confine della semiosfera è infatti costituito da una serie di «filtri» che hanno come scopo «la trasformazione delle non comunicazioni esterne in comunicazioni»:1 solo all’interno della semiosfera, infatti, possono avvenire i processi comunicativi. All’interno di una cultura, determinati agenti possono svolgere il ruolo di filtri tra mondi differenti in quanto, in virtù di doti particolari (come lo stregone) o del loro mestiere (ad esempio il coltivatore della terra), sono incaricati del ruolo di traduttori; essi svolgono la loro attività al confine rendendo assimilabile per una cultura ciò che è esterno ad essa.

Il confine è un meccanismo bilinguistico, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la

1 J. M. Lotman, La semiosfera, cit., pp. 58 e 61.

semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasemiotico o non semiotico.1

Dal momento che «il confine è un meccanismo bilinguistico», nella sua interattività tra meccanismi di traduzione interni e oggetti culturali esterni si innesca un processo di produzione di novità, in quanto l’atto di ricodifica riveste il testo – nella sua più vasta accezione semiotico-strutturalista – di un significato non completamente sovrapponibile a quello che aveva nella cultura di partenza: si passa da un sistema d’ordine a un altro mantenendo tuttavia un minimum informativo necessario per riconoscere il nuovo oggetto come realtà tradotta e non prodotta da zero.2 Sebbene tale trasformazione il più delle volte alteri il testo fino a renderne irriconoscibili i tratti originari, è innegabile che la cultura riconosca una realtà esterna a essa con la quale è in un qualche tipo di rapporto; ogni cultura, infatti, tematizza questa dinamica interno-esterno costruendo una