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UNIVERSO O MULTIVERSO: FISICA O METAFISICA?

CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

3. MONDI POSSIBILI, ONTOLOGIA E METAFISICA: UN BAROCCO MONDIALIZZATO

3.3. UNIVERSO O MULTIVERSO: FISICA O METAFISICA?

Quando leggo un libro sulla fisica di Einstein e non ne capisco niente, non mi importa: mi farà capire altro.

Pablo Picasso

La storia del pensiero occidentale è una storia di sottrazioni. Seguendo la linea del tempo dalla sua nascita nell’antica Grecia, notiamo una costante differenziazione del nocciolo iniziale in una pluralità di discipline rivendicanti la propria autonomia dall’universale filosofico. Volgendo il nostro sguardo alla sola età moderna, osserviamo come nel Cinquecento la politica, nel Seicento la fisica, nel Settecento l’economia e, nel corso dell’Ottocento, la psicologia e la sociologia evolvano una metodologia specifica che garantisce loro di potersi slegare dall’originario nucleo organico. Alle soglie della contemporaneità, solo le scienze umane mantengono ancora qualche legame con quello che potremmo chiamare pensiero filosofico; unità che il Novecento ha smontato pezzo per pezzo fino a privare quasi completamente la filosofia di oggetti su cui esercitare il proprio pensiero: linguistica prima, semiotica poi, affiancate dalla neonata teoria della letteratura, hanno affinato le proprie sonde analitiche e acquisito così autonomia dalla primigenia matrice comune. Tra coloro che ancora osano chiamarsi filosofi questo fatto non è sicuramente passato inosservato, tanto che in molti si sono domandati che cosa fosse possibile fare di fronte a tale crisi e su che argomenti il filosofo avesse ancora voce in capitolo. Prevale un senso che potremmo definire di svuotamento: che cosa mettere nella «cassetta degli utensili» del filosofo? Wittgenstein si chiede addirittura se la filosofia non sia una specie di malattia che può essere curata con diverse terapie – i metodi filosofici – ma da cui si può guarire definitivamente solo smettendo di filosofare;3 Rorty, invece,

1 Henri Michaux, Postilla, in Un certo Piuma, Milano, SE, 1989, p. 162.

2 In maniera simile la pone anche Anne Cauquelin in À l’angle des mondes possibles, cit., pp. 198-

199.

supponendo che i filosofi abbiano ultimato tutto il lavoro che c’era da svolgere, si interroga se, dunque, da una cultura filosofica non si sia passati a una «post- filosofica».1 Il successo del metodo scientifico – approvato da un’ampia comunità che ha definito un apparato di concetti ben preciso su cui poter discutere evitando, per quanto possibile, noiosi fraintendimenti terminologici – desta invidia: si spiega anche così il tentativo analitico di avvicinare la filosofia alla scienza. Dall’altra parte dell’oceano la crisi non è meno grave, ma le strategie adottate differiscono radicalmente: se in America la filosofia sceglie la via delle scienze, nel vecchio continente la riflessione fenomenologica tende a orientarsi, seguendo l’esempio del secondo Heidegger, verso materiale di tipo poetico- letterario e sociologico, evolvendosi in senso morale o politico, trasformandosi, in alcuni casi, in una diretta critica alle strategie di potere della società tardo- capitalista.2

Uno dei campi in cui l’autorità della filosofia sembra oggi particolarmente messa a repentaglio è proprio, per molti versi, quello in cui il nostro discorso si è fino ad ora addentrato: l’interrogarsi riguardo alla natura e alla relazione tra spazio, tempo e materia è stato, e continua a essere, argomento ontologico fondamentale. Su questo terreno, dal Seicento in avanti, una delle figlie della filosofia, dopo essersi scandalosamente unita alla matematica, ha esibito sempre maggior indipendenza e (troppo) spesso anche un malcelato disprezzo nei confronti della madre: la fisica – ex filosofia naturale – si è infatti candidata, specialmente nel corso del Novecento, come scienza ontologica per eccellenza; nulla di stupefacente visto che, morto Dio, tutto ciò che c’è appartiene al mondo e proprio la fisica si propone di indagarne la natura ultima. Come fanno notare Best e Kellner, nella nostra epoca postmoderna «la scienza ha assunto il ruolo prima tenuto dalla filosofia»:

Ora essa offre la metafisica e la narrazione principale del nostro del nostro tempo. Mentre troppi filosofi sono ossessionati da sterili analisi linguistiche o speculazioni astratte, gli scienziati stanno fornendo visioni della realtà sempre più complete, nonché provocanti speculazioni riguardanti la natura della vita, la coscienza, l’origine e l’evoluzione della specie umana e della religione e altri importanti argomenti.3

Nell’ottica di render conto delle contemporanee concezioni ontologico- metafisiche, quindi, ignorare completamente lo scenario offerto dalla fisica

1 Cfr. Richard Rorty, La svolta linguistica, cit., p. 91.

2 L’esempio più famoso è sicuramente Michel Foucault, ma accanto a lui possiamo fare i nomi

di molti altri strutturalisti e post-strutturalisti francesi tra cui Jaques Derrida, Roland Barthes, Jean-Luc Nancy e François Lyotard. Jean Baudrillard e, ancor prima, Günther Anders hanno invece sviluppato quella che quest’ultimo chiama «filosofia occasionale», il cui discorso critico prende le mosse da precise esperienze, spesso e volentieri molto concrete e dirette. In Italia, ad aver attraversato con taglio personale tutte queste esperienze, troviamo Giorgio Agamben.

sarebbe un’ingiustificabile mancanza, sia per il diffuso interesse suscitato in filosofi e artisti da alcune teorie fisiche, sia per la sempre maggiore credibilità conferita a modelli cosmologici che postulano l’esistenza di una pluralità di mondi. Se queste non vengono considerate ragioni sufficienti perché un umanista s’azzardi a sbirciare nel giardino delle cosiddette scienze dure, si tenga presente che non ci spingeremo in questioni tecniche, le quali devono rimanere dominio esclusivo dei fisici, bensì in un campo che è minato anche per questi ultimi: quello della cosmologia, ultima ammessa nel circolo delle scienze e che si presta ancora come oggetto in bilico tra fisica e metafisica.1 Per comprendere tale diffidenza nei confronti della cosmologia bisogna tener conto che il nostro paradigma scientifico si basa su una certa distanza tra oggetto studiato e soggetto osservatore: queste sono le condizioni da rispettare affinché una data esperienza possa condurre a conclusioni obiettive. La cosmologia, invece, non ha un oggetto di studio all’interno dell’universo, ma studia l’universo stesso, ovvero ‘tutto ciò che esiste’: conosciuto e conoscitore sono così implicati l’uno nell’altro. L’idea che l’universo in cui abitiamo non sia ‘tutto ciò che esiste’ conta numerosi sostenitori, forse ancor più che tra i filosofi, tra le fila dei fisici, i quali affermano che il nostro universo è parte di una molteplicità di universi. Per indicare ‘tutto ciò che esiste’, allora, non si dovrà più parlare di universo, ma di

multiverso, sorta di alter ego fisico della visione metafisica offerta dal realismo

modale di Lewis che abbiamo analizzato nella sezione precedente. Questo, a prima vista, sembrerebbe offrire una soluzione al problema della mancanza di distanza tra osservatore e osservato: avendo a disposizione più di un universo potremmo realizzare un’altra condizione fondamentale di scientificità, ovvero la conferma di un’ipotesi tramite la reiterazione dell’esperienza (ripetibilità) su un vasto numero di esemplari per poi confrontarne i risultati; se non che il multiverso fisico, come la pluralità di mondi postulata del realismo modale, si configura come un classico esempio in cui fisica e metafisica vengono messe in tensione: entrambe le proposte si impegnano nell’affermare l’esistenza di una realtà molto estesa che spesso trascende, anche in linea di principio, la nostra capacità di offrirne prova empirica. In altre parole la spiegazione della natura ultima di ciò che c’è implica inevitabilmente l’esistenza di qualche cosa situato al di

là di esso. Non è un caso, infatti, che scienziati ed epistemologi detrattori del

multiverso lo accusino di essere un’ipotesi metafisica piuttosto che fisica,2 mentre filosofi come Brian Skyrms e Timothy Williamson critichino le argomentazioni semantico-metafisiche di Lewis in quanto inappropriate a

1 Cfr. M.-J. Rubenstein, Worlds Without End, cit., pp. 231-232. L’entrata della cosmologia nel

giardino delle scienze si può situare nel 1965, anno in cui fu accidentalmente scoperta la radiazione cosmica di fondo o CMB (dall’inglese Cosmic Microwave Background), ovvero «un’istantanea della temperatura e delle variazioni di densità dell’universo quando aveva solamente poche centinaia di migliaia di anni».

2 Cfr. ivi, pp. 223-226; risposte alle obiezioni sollevate contro la scientificità delle ipotesi

rispondere a quella che è essenzialmente una questione fisica. Infatti, sostiene Skyrms, se i mondi possibili sono una realtà fisica, «per provare la loro esistenza,

occorre ricorrere allo stesso tipo di prova addotta per gli altri costituenti della realtà fisica»:

dunque, «per supportare l’affermazione riguardante l’esistenza di molti mondi bisogna dimostrare che la migliore teoria fisica richiede una realtà più ricca che, dal nostro punto di vista, si configuri come una realtà a molti mondi».1 Di conseguenza, secondo Williamson, ci si deve opporre al realismo modale di Lewis in quanto impone una visione cosmologica che è in conflitto con le teorie proposte dai fisici, il cui paesaggio cosmico non ammette l’esistenza di mondi paralleli simili a quelli che popolano la landa metafisica di Lewis, e «in materia ai fisici dovrebbe essere accordata maggiore autorità che ai metafisici».2

A tale proposito è forse necessaria una breve chiarificazione terminologica. Nel caso di Lewis e di altri filosofi abbiamo parlato di una pluralità di mondi che ora pare sostituita da una molteplicità di universi. Il fatto è che i due sono modi diversi di esprimere il medesimo concetto: mondo o universo indicano entrambi una totalità in qualche modo unitaria e affermare che entrambi esistono in numero infinito equivale a dire che siffatte totalità fanno parte di una varietà di entità simili, dalle quali tuttavia risultano in qualche modo separate. Da questo punto di vista, il realismo modale offre senz’altro il modello maggiormente pluralistico in cui i mondi sono completamente separati e indipendenti l’uno dall’altro, laddove le ipotesi multiversali presentano diversi gradi di autonomia e differenziazione. A ulteriore conferma, inoltre, anche gli stessi fisici, come vedremo in seguito, utilizzano ‘mondo’ o ‘universo’ per indicare il medesimo concetto.

Sebbene oggi la parola multiverso richiami alla mente una realtà prevista da diverse teorie scientifiche – quali meccanica quantistica, cosmologia inflazionaria e teoria delle stringhe –, il termine non è stato coniato da un fisico, bensì dal famoso filosofo e psicologo William James che lo utilizza per la prima volta in una conferenza del 1895 intitolata Is Life Worth Living,3 in cui si chiede se l’universo in cui abitiamo sia essenzialmente morale o immorale; si chiede, insomma, se esso possieda un ordine immanente che doni un senso alle azioni e ai pensieri umani. Egli ritiene che la Natura (femminile) sia indifferente all’uomo e ai suoi progetti, rivelandosi dunque come un multiverso privo di significato: è solo in relazione ad un mondo superiore trascendente (e maschile) che la molteplice materia assume una forma riconoscibile. In altre parole, solo lo sforzo di credere che un significato esista trasforma il caos in ordine, ovvero in un universo coerente. Il termine ritorna poi nelle lezioni oxoniane tenute da James tra il 1908 e il 1909, ma, in linea con il radicale cambiamento avvenuto nel

1 Brian Skyrms, Possible Worlds, Physics and Metaphysics, in «Philosophical Studies: An International

Journal for Philosophy in the Analytic Tradition», 30, 1976, pp. 323-332 (corsivo dell’autore).

2 T. Williamson, Modal Logic as Metaphysics, cit., p. XII (trad. mia).

3 William James, Is Life Worth Living, in «International Journal of Ethics», 6, 1895, pp. 1-24, ora

pensiero del filosofo, il suo significato appare trasfigurato. Ogni traccia di trascendenza è ora scomparsa in favore di una visione panteistica della realtà,1 al cui interno si può ancora contrapporre ad una posizione monista – che interpreta il mondo come un’unità completa e indivisibile – una pluralista in cui «le cose stanno le une con le altre in diversi modi, ma nulla include ogni cosa, o domina su ogni cosa […] qualcosa sempre sfugge».2 Mutata è anche la considerazione assiologica della molteplicità: dalla precedente frammentazione priva di senso ora appare una catena infinita di associazioni interdipendenti che uniscono potenzialmente ogni cosa. Nonostante la molteplicità di William James non si presenti unitaria come quella plotiniana, egli può nondimeno affermare che

il nostro ‘multiverso’ è ancora un ‘universo’; poiché ogni parte, sebbene possa non essere in connessione attuale o immediata, è nondimeno in connessione possibile o mediata con ogni altra parte, per quanto remota, in quanto ogni parte è unita a quelle che la circondano in una mescolanza insolubile (inextricable

interfusion).3

Si può dunque dire che multiverso e universo sono concetti utilizzati da James per configurare la sua risposta all’eterno problema filosofico dell’Uno e del Molteplice: l’infinita molteplicità delle cose è animata da un universo di connessioni in cui non esiste oggetto sovradeterminato che domina su tutti gli altri, bensì una «mescolanza insolubile» che avvolge e plasma gli enti del mondo pluralista.

Sebbene faccia uso degli stessi termini di James, quando un fisico parla di universo o multiverso non ha alcuna intenzione di inserirsi all’interno di alcuna tradizione filosofica, né tantomeno di rianimare millenari dibattiti metafisici. Come chiarisce il cosmologo Max Tegmark, generalmente gli astrofisici definiscono ‘nostro universo’ quella sfera di 4x1026 metri di raggio, oltre cui, per diversi motivi, non è possibile osservare alcunché: è questo il limite del nostro «volume di orizzonte» o «volume di Hubble», ovvero la distanza a cui sono collocati gli oggetti visibili più lontani da noi.4 Date le circostanze, ogni volta che ci si interroga sulla possibilità che esistano altri volumi di Hubble posti al di là del limite da noi osservabile, si sta già ipotizzando l’esistenza di un multiverso. È bene infatti tener presente, ricorda Tegmark, che «gli universi paralleli non sono una

teoria, ma la previsione di certe teorie»: sebbene il multiverso non sia stato ancora

1 Cfr. William James, A Pluralistic Universe. Hibbert Lectures at Manchester College on the Present Situation

in Philosophy, Lincoln and London, University of Nebraska Press, 1996, p. 30: «le uniche opinioni

su cui valga la pena di soffermare la nostra attenzione cadono nell’ambito di ciò che potrebbe essere grossomodo definito il campo della visione panteistica» (trad. mia).

2 Ivi, p. 321 (trad. mia). 3 Ivi, p. 325 (trad. mia)

4 Max Tegmark, The multiverse hierarchy, in Universe or Multiverse, a cura di Bernard Carr, New York,

Cambridge University Press, 2007, p. 99. Il titolo della presente sezione prende spunto da quello dato a questa raccolta di saggi.

pienamente accolto tra le discipline scientifiche, è stato predetto da molte che lo sono già da un pezzo e dunque, dal momento che i modelli cosmologici meno controversi prevedono già l’esistenza di un’infinità di volumi di Hubble, «la domanda chiave non è se esista un multiverso […], ma piuttosto quanti livelli esso abbia».1

Le prime ipotesi multiversali moderne sono state formulate dai fisici negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma solo parecchi anni dopo, alla fine degli anni Settanta, hanno cominciato ad acquistare sempre maggior credito entrando a pieno titolo nel dibattito scientifico, fino a configurarsi come un vero e proprio cambiamento di paradigma nei primi anni del nuovo millennio. Esiste una ragione in grado di spiegare il fenomeno: il successo del multiverso è direttamente proporzionale a quello di un concetto filosofico, ancor prima che fisico, che prende il nome di principio antropico; vale dunque la pena di chiarire che cosa questo significhi, prima di presentare la gerarchia dei multiversi proposta da Tegmark.

Per quanto critici si possa essere nei confronti delle conseguenze di ciò, risulta impossibile non notare come il Novecento sia stato caratterizzato da una brusca accelerazione del progresso scientifico e tecnologico. All’inizio del secolo la relatività di Einstein e poi, pochi anni dopo, la rivoluzione quantistica, ci hanno condotto a riconsiderare, radicalmente e più volte, la nostra immagine del mondo. Accanto ad una serie di nuove teorie scaturite dalla sfida di riunire microcosmo quantistico e mondo relativistico, mezzi tecnici raffinati ci hanno consentito di osservare oggetti sempre più piccoli, fino a mostrarci la trama più sottile della materia. Di fronte all’occhio del fisico lo spettacolo in technicolor della natura appare sempre più perfetto, forse anche troppo perfetto: le quattro forze fondamentali della natura – interazione nucleare debole e forte, interazione gravitazionale e elettromagnetica – e le altre costanti appaiono incomprensibilmente ben calibrate in modo tale da permettere l’esistenza di forme di vita complesse in grado di contemplare a loro volta la bellezza dell’universo che le ospita.2 I fisici teorici non sembrano in grado di accettare questi parametri così come sono, ovvero senza una ragione manifesta in grado di spiegare il motivo per cui otteniamo certi valori e non altri. Questa loro inesausta capacità di chiedersi ‘perché’, che li accomuna a filosofi e bambini, li ha spinti a formulare domande di questo tipo: perché l’universo ci appare così

1 Ivi, p. 100 (trad. mia).

2 Va ricordato che preoccuparsi per la situazione di equilibrio instabile in cui si trova l’universo

non è prerogativa dei fisici contemporanei. Newton, ad esempio, era convinto che la messa a punto del macchinario cosmico richiedesse un periodico intervento attivo della divinità al fine correggere la sua connaturata tendenza al caos. Proprio tale punto è stato oggetto di contesa tra Newton e Leibniz: quest’ultimo, infatti, sosteneva che, se Dio fosse stato costretto a ricalibrare per via straordinaria la sua creatura, questa non sarebbe stata perfetta; l’imperfezione della creatura, però, avrebbe così esibito l’imperfezione del creatore, dimostratosi incapace di agire nel modo più regolare e perfetto (cfr. G. W. Leibniz, Carteggio Leibniz-Clarke, II scritto di Leibniz, 8, III scritto di Leibniz, 16-17, in Scritti filosofici, vol. III, cit., pp. 494 e 502-503).

perfettamente bilanciato per consentire la vita? In altre parole, la nostra maggiore acutezza nel sondare la realtà sembra, a sorpresa, offrire all’ipotesi teista del disegno intelligente l’opportunità di riemergere; il nostro universo si presenta così come l’opera di una divinità che, nella sua infinità bontà, lo ha creato secondo un fine, quello di permettere alla vita di svilupparsi. Tutti questi ragionamenti pongono l’attenzione sull’esistenza degli osservatori come criterio di selezione per definire ciò che ci potremmo trovare ad osservare; il principio antropico, che ne costituisce il presupposto, è stato formulato per la prima volta, in ambito scientifico, dal fisico teorico Brandon Carter nel 1974: «ciò che possiamo aspettarci di osservare deve essere limitato dalle condizioni necessarie alla nostra presenza in qualità di osservatori».1

Se, come abbiamo detto, il successo del multiverso è strettamente legato a quello del principio antropico, ci possiamo chiedere come mai, se quest’idea risale al 1974, è solo all’alba del nuovo millennio che tale modello cosmologico si è imposto con forza. La risposta è che i problemi riguardanti il bilanciamento delicatissimo dell’universo sono andati aggravandosi. Questa catastrofe prende il nome di costante cosmologica, meglio conosciuta come energia oscura o «energia del vuoto». Quest’ultima denominazione, ci fa notare il fisico teorico Leonard Susskind, appare ossimorica: se il vuoto per definizione è «lo spazio che non contiene nulla», come può avere un’energia?2 In effetti la definizione di vuoto è in certo senso fuorviante: infatti questo spazio vuoto è popolato dalle cosiddette «particelle virtuali», le quali «appaiono e scompaiono così rapidamente che in circostanze normali non riusciamo ad osservarle».3 Tale energia gioca un ruolo fondamentale: agisce come una sorta di antigravità, un suo valore positivo eccessivamente alto lacererebbe l’universo smembrando galassie e protoni, mentre un suo valore negativo condurrebbe l’universo a implodere (big crunch).4 In questo caso, dunque, il limite antropico impone di trovare dei risultati che cadano in un intervallo veramente ristretto, molto vicino allo zero: il disastro avvenne quando i fisici fecero una stima dell’energia del vuoto complessiva, ottenendo un valore 10120 volte più grande di quanto si aspettavano. Possono esserci forze sconosciute che bilanciano questo risultato fin quasi ad annullarlo? L’idea che, per qualche oscura ragione, la costante cosmologica sia così piccola per sua natura e non a causa di una compensazione sembra a molti più probabile.5 Quando lo scienziato alza le mani in segno di sconforto, ecco arrivare il neo-teista per proporre la sua soluzione che, immancabilmente, suona come