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CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

2. IL MONDO O I MONDI?

2.2. PERCHÉ LEIBNIZ?

Dopo aver ripercorso brevemente alcuni punti della filosofia leibniziana riguardanti il rapporto tra individuo e mondo, rimangono da esplicitare i motivi che hanno spinto Deleuze a rivolgersi proprio a Leibniz per tentare di comprendere “la piega” che sta assumendo il mondo che lo circonda.

Molto probabilmente La Piega porta con sé l’intenzione di saldare un debito contratto da lungo tempo con il filosofo tedesco; pur non condividendo il provvidenzialismo e l’impianto armonico, è infatti evidente fin dai primi saggi di Deleuze come il sistema di Leibniz offrisse un buon punto d’appoggio per la costruzione di una metafisica originale di derivazione non kantiana: ad esempio, la Sedicesima Serie dei paradossi contenuti nella Logica del Senso – dedicata alla

1 G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, 30, cit., p. 294.

2 Italo Calvino, Le città invisibili, ora in Id, Romanzi e racconti, vol. II, a cura di Mario Barenghi e

Bruno Falcetto, Torino, Einaudi, 1994-20042, pp. 497-498.

genesi ontologica del mondo e dell’individuo – è interamente basata sulle nozioni leibniziane di convergenza, compossibilità e incompossibilità.1 D’altra parte Morgens Lærke sostiene che sono almeno quattro i concetti, centrali nella filosofia di Deleuze, di chiara ascendenza leibniziana: la nozione di evento, una concezione prospettivistica del soggetto, una visione differenziale dell’inconscio e una riappropriazione dell’infinito che non si accontenti della riduzione a indefinito.2 Mentre le prime due sono già state analizzate in precedenza, l’ultima e la penultima, fortemente intrecciate tra loro, meritano qualche parola in più. L’interesse di Deleuze si focalizza sul modo in cui Leibniz tende a gonfiare la rappresentazione concettuale fino a renderla infinita, ovvero in grado di inglobare la realtà: la distinzione tra virtuale e possibile tende ad azzerarsi o ad avvolgersi su se stessa, in quanto il movimento di realizzazione delle possibilità presenta una regolamentazione tanto infinitamente differenziata e sconfinata da risultare coestensiva ai processi dinamici che «drammatizzano l’Idea».3 Sono appunto i rapporti differenziali selezionati da ciascuna monade a formare le

1 Cfr. Gilles Deleuze, Logica del senso, Sedicesima serie. Sulla genesi statica e ontologica, Milano, Feltrinelli,

1975-20149, pp. 102-108.

2 Cfr. Morgens Lærke, Four Things Deleuze Lerned from Leibniz, in Sjoerd van Tuinen e Niamh

McDonnel (a cura di) Deleuze and the Fold. A critical review, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2009, pp. 25-45.

3 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. pp. 210-213 e 273-279. Il virtuale riguarda

maggiormente lo sfondo informe da cui emerge la forma: nel movimento di formazione non vi è somiglianza tra sfondo e entità emergente; per questo motivo il virtuale indica più una tendenza che una somiglianza, la quale è invece all’origine del possibile: il germe della pianta non ha nulla di simile all’albero in cui (probabilmente) germoglierà, ma nonostante ciò ne è causalità in atto. Il virtuale si presenta come un problema da risolvere: le soluzioni, se sono orientate dalle condizioni poste dal problema, non gli somigliano in alcun modo (cfr. anche G. Deleuze, Logica

del senso, Nona serie. Sul problematico, cit., pp. 53-57). Le figure, una volta prodottesi, gettano una

luce retrospettiva dando così l’impressione di essere state già da sempre presenti da qualche parte sotto forma di possibili non attualizzati: il possibile figura dunque come «immagine del reale». In sintesi, il virtuale “precede” in un certo senso il reale (è lo sfondo da cui emerge), mentre il possibile non precede mai il reale, ma ne è l’effetto retrospettivo: che le cose avrebbero potuto andare diversamente è una speculazione fatta sulle cose come stanno, e queste speculazioni sono sempre limitate dai dati in nostro possesso. In questo senso Bergson o Deleuze possono affermare che il tempo «[…] “fa” emergere qualcosa che prima di attualizzarsi non era nemmeno possibile» e che «a differenza del possibile il virtuale non ha nessuna autonomia rispetto all’attuale» (cfr. Cfr. Rocco Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 32 e 191). La coincidenza tra virtuale e possibile individuata da Deleuze in Leibniz è appunto dovuta al trasferimento della speculazione sul possibile a un intelletto divino onnisciente in grado quindi di calcolare la totalità delle possibilità, non solo quelle disponibili in un istante o in un mondo: per questo intelletto non vi è alcuna “imprevedibile novità”, sebbene essa così si presenti a un abitante di quel mondo. Lo stesso appiattimento può essere riscontrato nel realismo modale di Lewis, secondo cui i possibilia non vanno ristretti alle possibilità accessibili dal mondo in cui ci si trova, come stipulazioni controfattuali (potrebbero accadere cose simili a quelle che sono accadute), ma contemplano mondi alieni che esibiscono proprietà non esemplificate nel nostro (cfr. Libro I, par. 3.2).

percezioni che compongono la parte chiara,1 ma la concezione leibniziana dell’idea come rapporto inesauribilmente variabile del chiaro con l’oscuro – inseparabili, come lo saranno per Hegel, l’uno dall’altro – e il perpetuo avvicendarsi delle percezioni emergenti dalle serie infinite racchiuse confusamente nella monade, secondo l’interpretazione di Deleuze, aprono le porte allo «stordimento propriamente filosofico». Siamo ai confini del pensiero razionale (o della possibilità logica) che per comprendersi deve spingersi nel delirio; i due domini, della ragione e della follia, sfumano l’uno nell’altro senza confine netto: «mancava poco perché sulla riva del mare o presso il mulino ad acqua, Leibniz sfiorasse Dioniso».2 Ovviamente l’intento di Leibniz è opposto a quello del teorico del rizoma e del nomadismo: dove il primo indaga il fondo oscuro della monade attraverso il meccanismo differenziale per serrare il mondo ed escludere le serie divergenti, il secondo lo fa per ritrovare il caos e la dispersione nella ragione, un’ipotesi di libertà e di apertura, non di chiusura.

E anche se la produzione della differenza è per definizione “inesplicabile”, come evitare di implicare l’inesplicabile nel pensiero stesso? Come potrebbe l’impensabile non trovarsi nel fondo del pensiero? E il delirio, nel cuore del buon senso? Come ci si potrebbe contentare di relegare l’improbabile all’inizio di una evoluzione parziale, senza concepirlo anche come la più alta potenza del passato, come l’immemoriale nella memoria?3

Se l’ispirazione leibniziana è evidente, lo è altrettanto il mutamento di spirito che guida l’indagine: già la forma interrogativa in cui sono volte le affermazioni leibniziane apre un varco nel dubbio, nella possibilità alternativa che ci garantirà la libertà. Nella filosofia di Deleuze, infatti, le proposizioni leibniziane hanno cambiato di segno: il tuffo nel proprio inconscio, nel rapporto tra le infinte pieghe della serie, ci offre la possibilità di ritrovarci – come di perderci – ritornando a galla all’interno di un mondo o d’un io privi di necessità o privilegio esistenziale.

Accanto a ragioni d’ordine personale, per un filosofo come Deleuze così attento alle dinamiche della cultura contemporanea nella più vasta accezione, è difficile non tenere conto dell’influenza esercitata da un certo tipo di pensiero scientifico sviluppatosi nel corso della seconda metà del Novecento. Ne La Piega, infatti, oltre a fare esplicitamente riferimento all’epigenesi moderna comparandola con il preformismo barocco ed evidenziandone somiglianze e differenze,4 sono le ultime novità della chimica e della matematica a giocare un

1 Cfr. G. W. Leibniz, Monadologia, 60-61 cit., p. 462. 2 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 276. 3 Ivi, p. 294.

4 G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit, pp. 17-18: «[…] nella misura in cui il preformismo

non si risolve in semplici variazioni metriche, tende ad avvicinarsi a un’epigenesi, così come l’epigenesi è costretta a postulare una sorta di preformazione virtuale o potenziale. L’essenziale sta dunque altrove. L’essenziale sta nel fatto che le due concezioni concepiscono comunque

ruolo decisivo nell’orientare la scelta di Deleuze su Leibniz. Da sempre lettore onnivoro, cita in più luoghi di Che cos’è la filosofia? – libro che proseguirà le problematiche aperte dal saggio dedicato al filosofo tedesco – i lavori di Ilya Prigogine e in particolare La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, scritto in coppia con la filosofa Isabelle Stengers e dedicato a illustrare i concetti base di quelle ricerche che rientreranno sotto l’etichetta di «scienza della complessità», caratterizzata – in contrapposizione alla scienza classica – da uno spostamento di interesse «dalla sostanza alle relazioni, alla comunicazione, al tempo».1 Con l’obiettivo di superare la linea di confine tra organico e inorganico, fornendo così un terreno comune a fisici e biologi, la «scienza della complessità» si presenta come un fortissimo operatore di integrazione e convergenza tra ricerche afferenti a diverse aree del sapere: dal momento che le conclusioni tratte osservando il mondo naturale (fisica e biologia) paiono trasferibili su quello sociale, il paradigma della complessità sembra la chiave per tracciare una mappatura olistica della realtà. Per ottenere questo risultato, tuttavia, come scrivono Steven Best e Douglas Kellner, la scienza deve riconoscere «il caso, il processo, l’indeterminazione […], la complessità e la non linearità come aspetti fondamentali del mondo piuttosto che come difetti dei modelli ideali, limitazioni nelle tecnologie di misurazione, o mancanze del pensiero soggettivo».2 Si tratta di quella che i due studiosi definiscono la «svolta postmoderna» delle scienze: le nozioni di determinismo o ordine non vengono espulse, ma si legano piuttosto «alle loro controparti dialettiche dell’indeterminismo, del cambiamento spontaneo e dell’auto-organizzazione» per produrre «un modello del mondo più complesso – e verosimilmente più accurato – che consente un miglior grado di esattezza e predicibilità».3 Le problematiche tipiche dei sistemi di cui si occupano Prigogine e gli altri teorici della complessità – come ad esempio il ruolo giocato dal caso nell’organizzazione complessiva o l’interazione di variabili multiple inseparabili dal flusso temporale in cui sono inserite – devono aver esercitato un indiscutibile fascino sul pensiero di Deleuze. Tale vicinanza non è affatto casuale: nel corso de La nuova alleanza, infatti, i riferimenti alla filosofia francese contemporanea non si contano e lo stesso Deleuze appare più volte citato esplicitamente, soprattutto quando si affronta l’inadeguatezza dello schematismo

entrambe l’organismo come una piega, come una piegatura o un ripiegamento originale […]. Il preformismo è la forma nella quale si intravedono queste verità nel XVII secolo, con l’ausilio dei primi microscopi. […] Certo, non vanno trascurate le differenze tra i due punti di vista: per l’epigenesi, la piega organica si produce, si scava o si accresce a partire da una superficie relativamente piatta e uniforme […]; mentre per il preformismo una piega organica deriva sempre da un’altra piega, quantomeno all’interno di uno stesso tipo d’organizzazione: ogni piega viene da una piega, Plica ex plica, piega su piega».

1 Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Torino, Einaudi,

1981, p. 11.

2 Steven Best, Douglas Kellner, The Postmodern Adventure: Science, Technology, and Cultural Studies at

the Third Millennium, London, Routledge, 2001, p. 111 (trad. mia).

scientifico di fronte alla complessità della natura; è dunque evidente il tentativo di riallacciare sapere scientifico ed umanistico, separati dal pregiudizio, evoluto nel corso della modernità, che marchia il primo come dominio dell’universale necessario e il secondo del particolare contingente.1

La scienza (post-)moderna tende sempre più ad aprirsi alle molteplicità e ad accogliere l’irregolarità come parte costitutiva del suo oggetto di studio: a violare qualsivoglia ideale di regolarità e armonia galileiana, che si vorrebbe caratterizzasse ogni studio scientifico, sono sicuramente i fenomeni non lineari e i “mostri matematici” teorizzati da Bernhard Riemann e Karl Weierstrass che trovano, nell’ultimo scorcio del XX secolo, un apostolo in Benoît Mandelbrot e nei suoi oggetti frattali.2 Come suggerisce il nome, essi non presentano una dimensione intera come gli oggetti regolari, ma frazionaria e individuabile nel rapporto omotetico tra diversi livelli della figura: a determinati gradi di scala si ritrovano le medesime forme. Grazie a questa infinita ripetizione di microcosmo e macrocosmo diventa possibile ricostruire con maggiore accuratezza fenomeni che prima di allora venivano considerati irriducibili a una trattazione analitica, come ad esempio la forma dei litorali costieri, l’andamento meteorologico o addirittura la distribuzione delle galassie: mediante una rinata fiducia nell’intuizione e nella capacità immaginativa della geometria, la matematica tenta di riappropriarsi del mondo descrivendolo. È lo stesso filosofo francese in una nota de La Piega ad indicarci esplicitamente l’«ispirazione leibniziana»3 di queste ricerche fondate sul criterio dell’autosomiglianza: la stessa curva di Helge von Koch, realizzata iterando il medesimo modulo all’infinito fino a smussare tutti gli angoli presenti nella configurazione iniziale, viene interpretata da Deleuze come perfetta metafora della piega barocca. Proprio Mandelbrot, prendendo le mosse dalle proprietà della curva di Koch, primitiva forma frattale, procede a generalizzarla modificando i parametri che definiscono i «generatori»4 iniziali e simulando il ruolo giocato dal caso «complicando l’algoritmo pur mantenendone nel contempo il carattere interamente deterministico».5 Lo scopo dell’utilizzo del caso nella modellizzazione di Mandelbrot è chiaro e molto acutamente Deleuze vede avanzare lo spettro leibniziano nel tentativo estremo di controllo della

1 Cfr. Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Milano, Adelphi, 2000-20132, pp. 161-

162.

2 Cfr. Benoît B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione, Torino, Einaudi, 1987-

20002.

3 G. Deleuze, La Piega, cit, p. 27, n. 5. Cfr. anche ivi, p. 97: «[…] il gusto estremo dei principi,

lungi dal favorire le compartimentazioni, presiede al passaggio mobile degli esseri, delle cose e dei concetti da un compartimento all’altro». Tale attività di creazione di principi è tesa tra due poli in cui i principi si ripiegano e si dispiegano: «Tutto è sempre la stessa cosa, Non c’è che un solo e

medesimo Fondo; […] Tutto si distingue per gradi, Tutto differisce per la maniera…»

4 B. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione, cit., p. 38. 5 Ivi, p. 45.

realtà, che spinge la matematica, tradizionalmente ritenuta dominio dell’ordine, a confrontarsi col caos, inoculandone piccole dosi controllate all’interno di essa.1 Un altro nome che «domina la preistoria della geometria frattale»2 è quello di Georg Cantor, i cui lavori vengono riscoperti e riportati al centro dell’attenzione proprio in seguito al cambiamento di paradigma avvenuto nelle scienze contemporanee.3 A lui infatti dobbiamo, oltre alla teoria degli insiemi – da molti oggi considerata il fondamento della matematica moderna –, la nozione di numeri

transfiniti – ovvero grandezze infinite, ma definibili mediante numeri determinati

– e una concettualizzazione chiara dei «diversi gradini dell’infinito».4 L’ipotesi che esistessero due forme di infinito di diversa grandezza, lo abbiamo già visto, non è nuova. Secondo tale idea, oltre ad un infinito somma di parti finite va preso in considerazione un infinito per così dire assoluto che forma un continuo denso in cui, dato un intervallo, per quanto piccolo, sia sempre possibile trovare al suo interno una distanza minore di quella selezionata.5 È lo stesso Cantor, nel suo Fondamenti di una teoria generale della molteplicità, saggio di straordinaria consapevolezza filosofica e non soltanto matematica, a rintracciare i suoi predecessori in Cusano, Bruno, Spinoza e Leibniz: si dimostra debitore soprattutto di quest’ultimo non solo in quanto maggiore sviluppatore, assieme a Newton, del calcolo infinitesimale moderno, ma in quanto aperto sostenitore dell’infinito attuale, che non conosce unità non ulteriormente divisibile.6 I

1 Nel sottolineare le somiglianze, non bisogna però sottovalutare le differenze tra l’impostazione

leibniziana e quella della geometria frattale: se la prima tende a escludere completamente l’incontrollabile dal mondo, la seconda tenta di trovarne una modellizzazione efficace per approssimazione. La geometria frattale non mira a sostituirsi al mondo, ma sposa una prospettiva epistemologica in cui si desidera trovare metodologie di analisi formali più efficaci e adeguate al

mondo fenomenico su cui vengono proiettate. Cfr. ivi, p. 46: «Questo saggio invoca il caso, nella

forma in cui il calcolo delle probabilità c’insegna a manipolarlo, solo perché si tratta di cogliere l’ignoto e l’incontrollabile. Per nostra grande fortuna, questo modello è, nello stesso tempo, straordinariamente potente e comodo».

2 Ivi, p. 54.

3 Soprattutto per il cosiddetto Insieme di Cantor, primitiva forma ricorsiva frattale. Cfr. Georg

Cantor, Sulle molteplicità lineari infinite di punti, N. 5 Fondamenti di una teoria generale della molteplicità

(1883), 11, ora in Id., La formazione della teoria degli insiemi. Scritti 1872-1899, a cura di Gianni

Rigamonti e Ernst Zermelo, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 114-118. Va precisato che l’applicazione ricorsiva dei due principi di produzione soggetti alla condizione di un terzo principio, detto di restrizione o limitazione, è formulata da Cantor solo in maniera generale ed accessoria in quanto metodo di costruzione di un insieme infinito, ma in alcun modo continuo o denso.

4 Ivi, 4 n. 2, p. 128. 5 Cfr. ivi, 10, pp. 108-114.

6 Ivi, 4-8, pp. 85-100. Cantor, al pari di Deleuze, coglie nel pensiero di Spinoza e Leibniz i

presupposti di una «spiegazione organica» della natura da opporre ad una «spiegazione meccanica», sviluppata brillantemente dagli empiristi e poi dal loro discepolo Kant. Per il matematico tale modello ha il difetto di opporre l’infinito della natura alla finitezza della nostra mente, separando nettamente i domini dell’una e dell’altra. L’intelletto finito di pascaliana memoria per Cantor non ha ragion d’essere in quanto esso manifesta una «disposizione illimitata alla costruzione […] di intere classi numeriche che stanno in un rapporto determinato coi modi

pensatori precedenti, sebbene non mancasse loro l’intuizione, non erano riusciti a elaborare un apparato concettuale sufficientemente esteso da poter costruire una solida teoria delle molteplicità comprendente una gerarchia di infiniti di

potenza differente.1 Non solo l’idea dell’esistenza di infiniti di diversa grandezza, ma l’interno impianto gnoseologico cantoriano si pone esplicitamente sulla linea spinoziano-leibniziana, in netto contrasto con il criticismo kantiano. Con particolare forza egli si oppone alla tesi secondo cui sapere e certezza siano dovute alle nostre sensazioni filtrate dalle intuizioni pure di spazio e tempo:

è mia convinzione che questi elementi non diano assolutamente una conoscenza sicura, la quale può essere raggiunta solo grazie a concetti e idee che l’esperienza esterna è in grado al massimo di stimolare, ma sostanzialmente vengono costruiti da una intuizione e deduzione interna come un qualcosa che già stava in qualche modo in noi e viene solo risvegliato e reso cosciente.2

Tale realismo idealistico o spinozismo neoplatonico3 difficilmente avrebbe potuto non ricevere l’attenzione di Deleuze, il quale, pur accusando Cantor di

infiniti, e le potenze sono via via crescenti». Le due realtà, quella soggettiva e quella oggettiva, rimangono «sempre unite», se una presenta la caratteristica di essere infinita, anche l’altra l’esibirà allo stesso modo: compito della scienza e della metafisica sarà individuare i metodi per accertare tale verità. Anche nel fornire tale visione olistica, che sottolinea la natura fortemente interrelata delle parti e del tutto, Cantor si prefigura come antesignano delle moderne scienze della complessità.

1 Cantor ritiene che le classi di molteplicità siano limitate in qualche modo a due ordini di

grandezza: un insieme infinito numerabile e un insieme denso o continuo (cfr. G. Cantor,

Contributo alla teoria delle molteplicità (1878), 8, ora in Id., La formazione della teoria degli insiemi, cit., p.

41; cfr. anche Id., Sulle molteplicità lineari infinite di punti, cit., 10, ora in ivi, pp. 108-114). Che la cardinalità degli insiemi infiniti fosse limitata a due livelli non era tuttavia affatto chiaro prima di Cantor. Lo stesso Spinoza, a cui Cantor si rifà esplicitamente, seppure nella sesta definizione dell’Etica distingua infiniti di due diversi ordini di grandezza, nella celebre Lettera XII pare aggiungerne invece un terzo; non solo vi è l’infinito per sé e l’infinito per la causa, che si presentano come i due gradi cantoriani, ma ve ne compare un terzo, compreso in limiti: «talune cose sono di loro natura infinite e che in nessun modo si potrebbero concepire come finite; altre invece lo sono in virtù della causa a cui ineriscono, e queste, ove siano concepite astrattamente, si possono dividere in parti e considerare come finite; altre infine si dicono infinite, o se si vuole indefinite, perché non si possono fissare con un numero, benché si possano concepire come maggiori e minori, perché non è detto che debbano essere necessariamente uguali le cose che non si possono commisurare a un numero […]» (Baruch Spinoza, Lettera XII, in Id. Epistolario, a cura di Antonio Droetto, Milano, SE, p. 49).

2 G. Cantor, Sulle molteplicità lineari infinite di punti, cit., 8 n. 6, p. 130.

3 Cfr. ivi, p. 97: «Dato il fondamento totalmente realistico, ma insieme anche totalmente

idealistico, delle mie riflessioni, per me non c’è alcun dubbio che queste due specie di realtà [intrasoggettiva o immanente e transoggettiva o transiente] siano sempre unite, nel senso che un concetto