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Un groviglio di mondi. Studio sul pluralismo fisico, metafisico e letterario postmoderno

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Academic year: 2021

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Dottorato di Ricerca “Le Forme del Testo”

Curriculum: Linguistica, Filologia e Critica

Ciclo 32°

Tesi di Dottorato

Un groviglio di mondi

Studio sul pluralismo fisico, metafisico e letterario postmoderno

Relatore di tesi

prof. Massimo Rizzante

Dottorando

dott. Lorenzo Graziani

Coordinatore del Dottorato

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Ai miei nonni, in particolare a mia nonna Miriam che negli anni non ha mai smesso di interessarsi a quel che combinava suo nipote.

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Introduzione – Il senso della possibilità IX

Ringraziamenti XIX

Libro I – Che cos’è un mondo possibile?

1. I vertici della figura 3

2. Il mondo o i mondi? 6

2.1. Un solo mondo tra le pieghe: l’Armonia di Leibniz e il Neobarocco di

Deleuze 7

2.2. Perché Leibniz? 23

2.3 La Piega e la Piaga: verso una realtà dissonante 34 3. Mondi possibili, ontologia e metafisica: un Barocco Mondializzato 45 3.1. La semantica attualista: la realtà che ci è data 52 3.2. Realismo modale: tutti i mondi esistono 75 3.3. Universo o Multiverso: fisica o metafisica? 114 3.4. Relativismo concettuale I: tutti i mondi sono attuali 143 3.5. Relativismo concettuale II: mondi-cantiere 156 3.6. Relativismo concettuale III: modi di vedere o mondi del vedere? 168

4. «Caosmo» 181

4.1. Caos e Cosmo 185

4.2. Pensiero e Natura 202

Libro II – Un groviglio di mondi: la letteratura postmodernista

1. L’equivoco postmoderno 225

2. La dominante ontologica 239

3. Le componenti dei mondi possibili 244

4. Tempo 248

4.1. Le direzioni della freccia del tempo 250 4.2. Curva causale ed eterno ritorno 267

5. Spazio 293

5.1. Indifferenza topologica tra interno ed esterno 298

5.2. Metalessi 320

6. Individuo 333

7. Il giardino dei sentieri che si biforcano 350 8. Un cronotopo aberrante: lo spazio-tempo postmoderno 359

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Il pensiero logico è indispensabile per _______________ in questo che è il più ambiguo di tutti i mondi possibili.

□ sopravvivere □ adattarsi

Don DeLillo

L’incontro fra due discipline non avviene quando l’una si mette a riflettere sull’altra, ma quando una si accorge di dover risolvere per conto proprio e con i propri mezzi un problema simile a quello che si pone anche in un’altra. Sono le medesime scosse in terreni completamente diversi.

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INTRODUZIONE – IL SENSO DELLA POSSIBILITÀ

Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è. Come si vede, le conseguenze di tale attitudine creativa possono essere notevoli, e purtroppo non di rado fanno apparire falso ciò che gli uomini ammirano, e lecito ciò che essi vietano, o magari indifferenti e l’uno e l’altro. Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie, e congiuntivi; quando i bambini dimostrano simili tendenze si cerca energicamente di estirparle, e davanti a loro quegli individui vengon definiti sognatori, visionari, pusilli, e saccenti o sofistici.1 Le parole con cui Robert Musil caratterizza il «senso della possibilità» e la condizione di tutti coloro che, per la loro particolare sensibilità alla «realtà del possibile», si trovano a contemplare le infinite possibilità dell’esistenza rimanendo perennemente indecisi, poiché tra queste discernono a fatica quelle che sono le loro «reali possibilità»,2 non solo introducono perfettamente il dramma di Ulrich, «l’uomo senza qualità», ma ben illustrano l’oggetto di studio del presente saggio: come nell’epoca postmoderna il «senso della possibilità» s’intrecci soprattutto con quello della molteplicità del reale, ma anche con quello della libertà e della creatività.

Tale intreccio non è ovviamente esclusivo dell’epoca postmoderna e il «senso della possibilità» di cui parla Musil – sebbene sia presente in concentrazione maggiore nei possibilisti che tendono, per questo motivo, a perdersi nella «tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie, e congiuntivi» che contraddistingue la loro vita – occupa (o dovrebbe occupare) una parte fondamentale nella vita quotidiana di ogni persona, anche di quelle più realiste. Quando, ad esempio, la legge prevede una sanzione per guida in stato d’ebbrezza, non lo fa di certo per un’intolleranza dello Stato al consumo di alcol in sé e per sé, ma perché il conducente in quelle condizioni potrebbe causare seri danni a sé e ad altre persone; in tal caso, dunque, la legge punisce per una situazione che è molto probabile accada, ma non si è di fatto verificata: si potrebbe infatti obiettare che ogni persona ha una tolleranza all’alcol differente e quindi non si avrebbe alcun diritto di sanzionarla per un evento che effettivamente non si è verificato; tale scetticismo, tuttavia, pare molto lontano

1 Robert Musil, L’uomo senza qualità [Der Mann ohne Eigenschaften], vol. I, Torino, Einaudi,

1957-19722 [1930-1943], p. 12. 2 Cfr. ivi, p. 13.

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dal buon senso a cui si aggrappa il realista. In sintesi, in questo come in altri frangenti, è evidente come le azioni e i giudizi non solo personali, ma anche collettivi, vengano determinati in maniera cruciale da eventi meramente possibili.1

Certo, l’esempio riportato non cade tra i problemi prodotti da una «serie di contingenze strane e assolutamente impossibili» che gli Erewhoniani sono costretti a risolvere per superare gli esami di «ipotetica», materia propedeutica a qualsiasi tipo di studio che il pragmatico avventuriero britannico non può non considerare uno spreco bello e buono di tempo e risorse intellettuali;2 tuttavia questa attività di proiezione di scenari possibili, per quanto contrari ai fatti del mondo attuale, è fondamentale non solo per il filosofo e l’artista, ma svolge un ruolo decisivo come agente di mutamento. Come scrive ancora Musil, «un’esperienza possibile o una possibile verità […] hanno, almeno per i devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione».3 Ed è proprio a questo sentimento che fanno appello Marx ed Engels quando, in apertura al Manifesto del Partito Comunista, evocano «lo spettro del comunismo» «che s’aggira per l’Europa»;4 lo spettro, in questo caso, assume il valore di una virtualità il cui minacciato avvento contribuisce a erodere lo stato di cose presenti: è il fantasma di un mondo possibile che, benché non abbia ancora trovato piena realizzazione in quello attuale, produce già – secondo le parole di Gilles Deleuze e Félix Guattari – «una “disistituzione” del campo sociale attuale, a profitto d’una istituzione rivoluzionaria».5

Proprio la nozione di mondo possibile sarà per noi fondamentale poiché, attraverso di essa, sono state formulate nel secondo Novecento le tematiche centrali del presente saggio. Da una parte, l’argomento – che risale ai primordi della metafisica occidentale – è stato infatti con forza reinserito nella koiné filosofica, soprattutto americana, del secondo Novecento nell’ambito del dibattito sulla metafisica della possibilità che ha portato allo sviluppo della logica modale,6 dall’altra a parlare in termini di mondi possibili sono stati anche filosofi costruttivisti come Cassirer, Goodman e Rorty per sottolineare, attraverso di essi, l’esistenza di differenti modi di organizzare la realtà, ugualmente giustificabili, ma incompatibili l’uno con l’altro: l’impostazione costruttivista ha

1 Cfr. Andrea Borghini, Che cos’è la possibilità, Roma, Carocci, 2009, pp. 7-8, 23-24.

2 Cfr. Samuel Butler, Erewhon [Erewhon, or Over the Range], Milano, Adelphi, 1965-19752 [1872],

pp. 159-160.

3 R. Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, cit., p. 12.

4 Karl Marx, Fredrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Milano, Mondadori, 1978, p. 64. 5 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975, p.

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6 Proprio perché la nostra attenzione si focalizza sui mondi possibili, non si farà riferimento, se

non corsivamente, alle altre teorie della possibilità basate sull’analisi delle espressioni modali – scetticismo, espressivismo, modalismo e disposizionalismo – che non fanno uso di mondi possibili. Per una breve panoramica sulla metafisica della possibilità in ambito analitico rimandiamo ad A. Borghini, Che cos’è la possibilità, cit.

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avuto così grande influenza sulla sociologia e sulla semiotica contemporanea che chi opera in tali settori è piuttosto abituato a riconoscere l’esistenza di più mondi linguistico-culturali all’interno di un unico mondo fisico. Tale linguaggio, inoltre, non è nemmeno limitato all’area umanistica poiché già da diversi anni l’esistenza di universi paralleli, convergenti e divergenti, è prevista da varie e affermate teorie cosmologiche. Proprio per la vastità di utilizzi e significati che il termine ‘mondo’ assume nei differenti contesti, lo statuto ontologico attribuito ai mondi possibili varia considerevolmente: essi possono infatti essere concetti nella mente di Dio, scenari astratti creati ad hoc, somme reali di individui isolate l’una dall’altra, o somme ideali di oggetti create da strutture di riferimento e coordinate culturali differenti. Far chiarezza su tali questioni è l’obiettivo principale del primo dei due libri di cui è composto il presente saggio, intitolato Che cos’è un

mondo possibile?

Per quanto riguarda gli studi estetici, la metafora secondo cui ogni opera d’arte permette di affacciarsi su di un altro mondo possibile è ormai un luogo comune: per Alexander Gottlieb Baumgarten, il suo fondatore, l’estetica filosofica si pone come «scienza dell’accesso ai mondi possibili», poiché – come sintetizza Anne Cauquelin – «tende a segnare, modellare ed educare il passaggio dal possibile al reale e quello dal reale ai possibili, contribuendo così a farci comprendere il mondo attuale nella sua totalità».1 Non è un caso, infatti, che Baumgarten abbia concepito l’estetica, sviluppando il pensiero leibniziano, come strumento d’indagine di ciò che l’anima esprime soltanto «confusamente»: per Leibniz, sebbene il moto di realizzazione porti all’emersione di un solo mondo, nel fondo oscuro delle monadi si agitano in continuazione virtualità non attualizzate, essenze non realizzate che nondimeno presentano tutte «qualche inclinazione all’esistenza».2 In questo contesto non stupisce che, tra tutte le arti, la finzione narrativa – e in particolare quella romanzesca – occupi una posizione particolarmente importante poiché le opere di finzione offrono, secondo le suggestive parole di Cauquelin, un’immagine «vicina alla nostra realtà, ma sfalsata (décalée) in rapporto ad essa»: nella pluralità dei punti di vista espressi in forma prospettica dalla narrazione, la finzione offre un’immagine degli altri mondi che, anche se non esistono realmente, esistono nondimeno nell’infinito intelletto divino; perciò, attraverso le opere di finzione, possiamo contemplare un’immagine che ci permette, nonostante la sua incompletezza, di contemplare «la grandezza (e qualche volta lo splendore) dell’intelletto divino».3 L’arte in generale e la finzione in particolare, tuttavia, continuano a presentarsi come oggetti di studio e terreno di confronto per filosofi di vario orientamento anche nella nostra laica epoca contemporanea: non solo tra i pensatori europei della

1 Anne Cauquelin, À l’angle des mondes possibles, Paris, PUF, 2010, pp. 58-59.

2 Gottfried Wilhelm Leibniz, Discorso di metafisica (1686), 13, in Scritti filosofici, vol. I, a cura di

Massimo Mugnai ed Enrico Pasini, Torino, Utet, 2000, p. 270 e Id., Il nuovo sistema. XVI: Verità

prime, possibilità ed esistenza (1697), in ivi, p. 479. Cfr. Libro I, parr. 2.1, 2.3.

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corrente fenomenologico-esistenziale, secondo i quali l’arte compie un’apertura nel nostro mondo illuminandone determinati aspetti e forme (modi d’essere), ma anche in ambito analitico, al quale faremo particolare riferimento.

L’interesse dei filosofi analitici verso l’arte, e in particolare la letteratura, è stato, almeno inizialmente, limitato a un unico problema: la letteratura, come il cinema e il teatro, produce entità ontologicamente ambigue, poiché ci si può riferire a loro come se esistessero, ma in realtà esse non esistono. Il problema posto da tali entità non è di certo nuovo; esso è legato a un altro problema strettamente filosofico che è riassumibile nell’interrogativo: “Com’è possibile riferirsi a un oggetto che non esiste?” Fino agli anni Settanta le ontologie della finzione disponibili in area anglo-sassone possono essere divise in due filoni principali: da una parte l’eliminativismo di Gottlob Frege e Bertand Russell, dall’altra le teorie

di derivazione meinongiana.1 Per quanto riguarda queste ultime, si prenda in considerazione un enunciato che affermi qualche cosa riguardo a un’entità inesistente, ad esempio degli asini volanti. Nelle teorie di derivazione meinongiana, il paradosso di riferirsi a un oggetto inesistente è risolto riducendo, per così dire, l’impegno ontologico dell’atto di riferimento stesso, sia che esso avvenga in forma linguistica sia che venga solamente pensato: riferirsi a un oggetto implica una sua esistenza in senso «debole», ma non in senso «forte»; dunque gli asini volanti sono esistenti (predicato debole) perché posso farvi riferimento, ma non esistono (predicato forte) perché non possono essere incontrati nel mondo reale: quindi esistono solamente come oggetti del pensiero. Il linguaggio, dunque, fornisce informazioni ontologicamente equivocabili. Risolto il problema dell’impegno ontologico dei nostri enunciati, rimane tuttavia da chiedersi come e se sia possibile distinguere dal punto di vista qualitativo le entità reali da quelle finzionali; è questo l’obiettivo che si è proposto Roman Ingarden nel suo volume L’opera d’arte letteraria, punto di riferimento per tutti i teorici della letteratura interessati a questioni di ontologia della fiction.2 Secondo il filosofo polacco, infatti, esiste una differenza fondamentale tra gli oggetti reali, i cui aspetti sono prodotti dall’esperienza del soggetto, e quelli finzionali: questi ultimi, avendo un’esistenza puramente intenzionale ed essendo concretizzati solamente da espressioni nominali, presentano una natura schematica caratterizzata da quantità infinita di qualità indeterminate. Tali potenzialità possono essere attualizzate dall’interazione tra l’opera e il lettore: queste concretizzazioni, tuttavia, non esauriscono mai le potenzialità dell’opera d’arte,

1 Parlo di teorie di derivazione meinongiana e non propriamente di Alexius Meinong perché,

soprattutto dopo gli studi di Terence Parson (in particolare A Prolegomenon to Meinongian Semantics, in «The Journal of Philosophy», 71, 1974, pp. 561-580), i riferimenti diretti alle teorie del fenomenologo austriaco diventano estremamente rari. Per approfondire il pensiero di Meinong segnaliamo il volume di Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong, Macerata, Quodlibet, 2005.

2 Roman Ingarden, L’opera d’arte letteraria, Verona, Edizioni Fondazione Centro Studi

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ma ne segnano piuttosto il «percorso di vita». La natura schematica e l’unità indeterminata che contraddistinguono la finzione lasciano trasparire l’influenza che le recenti scoperte della fisica quantistica, in particolare il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, hanno avuto sul pensiero di Ingarden. Tale suggestione lo aiuta a formulare i due diversi limiti davanti ai quali vengono poste realtà e finzione: la prima delle quali si trova sbarrata da un muro

epistemologico oltre il quale esiste qualcosa che non riusciamo a cogliere, mentre la

seconda è caratterizzata da una ontologia puntuale che stabilisce fin dall’origine l’indeterminatezza di un’infinità di proprietà attribuibili all’oggetto finzionale, che viene invece potenzialmente prodotto come completamente determinato. Per quanto riguarda la posizione di Frege e Russel, sebbene si possa dire che anch’essi abbiano dovuto affrontare il problema degli enti di invenzione, la loro attenzione non si è certo focalizzata sullo studio di tali entità: loro scopo era semmai trovare il modo di eliminare tali entità dal discorso scientifico, in modo da rimuovere l’ambiguità ontologica intrinseca all’uso corrente del linguaggio. Seguendo il rigido eliminativismo di Russell, ad esempio, le affermazioni ‘Emma Bovary si è suicidata’ ed ‘Emma Bovary è morta di cancro’ sono entrambe false in quanto pretese asserzioni contenenti un termine vuoto in occorrenza primaria: insomma, un enunciato può essere vero o falso ‘se e solo se’ esiste un’entità ‘Emma Bovary’ che possiede determinate qualità e non altre; ma, siccome ‘Emma Bovary’ non esiste, ne consegue che entrambi gli enunciati sono falsi.1 È piuttosto evidente come, per uno studioso di letteratura, sarebbe controproducente se non addirittura pericoloso seguire rigidamente le idee di Russell. A segnare una svolta negli studi sulla designazione sono i lavori di Saul Kripke dei primi anni Settanta. L’idea che le entità che popolano la fiction siano prive di riferimento – che siano puro senso o che siano tutte ugualmente coestensive in quanto termini vuoti – è per Kripke inaccettabile. Per il filosofo e logico americano entità come Emma Bovary o Sherlock Holmes hanno il loro preciso referente: sono entità finzionali che esistono in quanto personaggi di romanzi reali. Sono pertanto entità astratte come lo sono i numeri, ma a differenza di questi ultimi – scrive Kripke – «esistono in virtù delle concrete attività delle persone».2 La fortunata idea di Kripke ha anche favorito la diffusione del concetto di mondo di riferimento, strettamente legato a quello di entità finzionale. Emma Bovary, ad esempio, in riferimento al mondo finzionale del romanzo di Flaubert, è un’entità reale; è invece un’entità finzionale in riferimento al mondo reale. L’enunciato ‘Emma Bovary esiste’, dunque, può assumere valori di verità diversi in base al mondo a cui si sta facendo riferimento.

1 Cfr. Bertrand Russell, On denoting, in «Mind», 14, 1905, pp. 479-493 [trad. it. Sulla denotazione,

Roma, Efesto, 2015]. Cfr. Libro I, par. 3.1.

2 Saul Kripke, Reference and existence. The John Locke Lectures (1973), Oxford-New York, Oxford

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A partire dalla metà degli anni Settanta – soprattutto grazie ai contributi di Thomas Pavel, Lubomír Doležel e Umberto Eco1 – il problema delle entità finzionali ha suscitato l’interesse anche di critici e teorici della letteratura. Rispetto ai lavori di stampo filosofico illustrati precedentemente, il punto di vista ovviamente è molto diverso, in quanto lo sguardo del letterato si concentra molto più sulla struttura dei mondi rappresentati che sulle problematiche legate alle entità fittizie nel discorso scientifico o sullo statuto ontologico che queste entità assumono. Ciò che normalmente importa al teorico della letteratura che si occupa di ontologia della fiction è il riconoscimento del fatto che il testo finzionale proietta un mondo e a questo mondo fa riferimento: il mondo proiettato può essere più o meno omogeneo, frutto di una miscela di elementi prelevati da altri mondi, reali e finzionali. Quest’idea, unita alla possibilità suggerita da Kripke di sviluppare una teoria referenziale della fiction, ha offerto una via d’uscita alle derive della critica strutturalista, tendente a chiudere il testo su se stesso: ricordiamo che per il critico di orientamento strutturalista il testo si nutre solamente di altri testi e si riferisce solamente ad altri testi (la celeberrima intertestualità). L’ontologia della fiction offre dunque l’opportunità al critico di rivolgere la sua attenzione a ciò che il testo rappresenta senza correre il rischio di essere accusato di ingenuità.2

Questa nuova direzione della critica letteraria e della teoria della letteratura è preceduta da un rinnovato interesse verso problematiche ontologiche dei narratori stessi: soprattutto dagli anni Sessanta in poi, infatti, molti autori sembrano concentrarsi su problemi riguardanti il mondo o i mondi, piuttosto che, come invece accadeva nel primo Novecento, su problemi gnoseologici. È la dominante ontologica di cui parla McHale nel suo Postmodernist fiction: per il critico americano, infatti, mentre il Modernismo letterario è caratterizzato da una poetica a tratto dominante epistemologico, il Postmodernismo si contraddistingue per il suo tratto dominante ontologico.3 Le strategie narrative postmoderniste non paiono mirate a suscitare qualche sorta di dubbio, ma tendono piuttosto a sottolineare la pluralità ontologica di cui la realtà è composta. Gli interrogativi fondamentali della scrittura postmodernista saranno dunque di questo tipo: “Che cos’è un mondo? Di quali elementi è composto? Esistono mondi alternativi e, se esistono, in che modo si differenziano l’uno dall’altro? Che cosa si può e si deve fare in ognuno di questi mondi e quali dei miei io possono e devono farlo?” E così via.4

1 Cfr. Thomas G. Pavel, ‘Possible worlds’ in literary semantics, in «Journal of Aesthetics and Art

Criticism», 34, 1975, 165-175; Lubomír Doležel, Narrative Semantics, in «Poetics and Theory of Literature», 1, 1976, pp. 41-48; Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi

narrativi, Milano, Bompiani, 1979-201413.

2 Cfr. Thomas Pavel, Mondi di invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Torino, Einaudi, 1992, in

particolare il primo capitolo, emblematicamente intitolato Oltre lo strutturalismo (pp. 3-18).

3 Cfr. Brian McHale, Postmodernist Fiction, London, Routledge, 1989-20017, pp. 6-11. 4 Cfr. Libro II, par. 2.

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Come abbiamo accennato precedentemente, e avremo poi modo di approfondire, la scrittura postmodernista, sviluppandosi intorno a tali interrogativi, riflette su problematiche poste parallelamente in vari ambiti culturali che fanno uso del medesimo linguaggio: quello dei mondi possibili e della loro struttura. A un primo sguardo, infatti, gli aspetti che forse più colpiscono della realtà postmoderna sono il cosiddetto assottigliamento del confine tra fatto e finzione e la rivendicazione di una realtà plurale. Questi aspetti altro non sono che facce della stessa medaglia: da una parte, infatti, l’incapacità di tracciare una netta distinzione tra fatto e finzione ci induce a parlare di più realtà o più finzioni concorrenti tra le quali non vi è modo di decidere “la più reale” basandosi sulla corrispondenza a particolari fatti, dall’altra la presenza di visioni del mondo ugualmente giustificate ma incompatibili l’una con l’altra, e per questo irriducibili a una base comune, porta a un indebolimento del confine tra fatto e teoria. In definitiva, ciò che molti autori – filosofi, semiologi, sociologi e artisti – appartenenti all’epoca culturale cosiddetta postmoderna hanno voluto sottolineare attraverso la metafora dei mondi possibili è quanto l’unicità del mondo reale sia costantemente messa in crisi dall’affiorare di possibilità alternative che appaiono – come scrive Thomas Pynchon in The Crying of Lot 49 – «another world’s intrusion into this one».1 L’atto di mettere in relazione le strategie narrative del romanzo postmodernista con argomenti del pensiero contemporaneo non mira a evidenziare come nella letteratura in generale, e nel romanzo in particolare, siano implicitamente presenti alcune problematiche del pensiero altrove svolte esplicitamente, ma rientra piuttosto nel tentativo di sanare quello che Lakis Proguidis chiama il rendez-vous mancato tra romanzo e filosofia, inadempienza dovuta non tanto ai romanzieri, che hanno sempre attinto alla filosofia per nutrire la loro fantasia, ma ai filosofi, «colpevoli – come ha recentemente sostenuto Simona Carretta – di non aver saputo riconoscere e valorizzare la saggezza del romanzo, ovvero il modo specifico del romanzo di esplorare l’esistenza».2 Per chiarire il modo originale in cui i romanzi riflettono su questioni trasversali – presenti quindi in altre aree del pensiero – metteremo in luce la topologia dei mondi possibili proiettati dalla scrittura postmodernista, la quale si rivela essere intimamente connessa con una serie di problematiche che riguardano il nostro mondo. Questo sarà l’obiettivo principale del secondo libro, intitolato Un groviglio di mondi: la letteratura postmodernista.

La finzione continua dunque a trovarsi – secondo la felice espressione di Cauquelin – «all’angolo dei mondi possibili» anche nella nostra laica epoca contemporanea: non solo quando leggiamo un libro, ci sembra nondimeno – con grado d’intensità variabile – di vedere le azioni dei personaggi e gli ambienti in cui si muovono che esso evoca come possibili, ma la finzione narrativa –

1 Thomas Pynchon, The Crying of Lot 49, London, Vintage, 2000 [1966], p. 91: «un’intrusione in

questo mondo di un altro mondo».

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grazie soprattutto ai lavori di Borges e dei suoi eredi – è quell’attività artistica che più di ogni altra ci ha fatto vedere come un’opera d’arte sia scenario scelto fra un’infinità di altre possibilità non realizzate; in altre parole, un’opera d’arte in questo trovarsi all’incrocio di più mondi possibili – tanto nel momento della creazione quanto in quello della percezione-interpretazione – si dimostra lo specchio del mondo in cui viviamo. È questa una delle ragioni principali «che rendono – secondo le parole di Étienne Souriau – così pregnante, dal punto di vista filosofico, l’analisi estetica»: l’opera d’arte costituisce un modello in scala dell’«universo reale» – o, se si preferisce, del multiverso reale – in cui viviamo, «dove si trovano più diversamente, più oscuramente, più molteplicemente forse, ma non su di una dimensione totale più grande, gli stessi elementi architettonici».1 Dalla connessione tra le opere analizzate e le varie correnti di pensiero prese in considerazione, il problema che è emerso, ovvero le modalità attraverso cui i temi connessi con «senso della possibilità» vengano veicolati attraverso la metafora dei mondi possibili, si presenta come uno sviluppo di una delle più antiche questioni del pensiero occidentale, ovvero la «diatriba tra monismo e pluralismo», che la cultura postmoderna ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito; un problema che non cessa di affascinare, nonostante tenda a volatilizzarsi ogni qual volta venga sottoposto ad analisi, poiché – scrive Goodman –

[s]e non c’è che un mondo, esso comprende una molteplicità di aspetti contrastanti; se ci sono più mondi, la loro collezione è una unità. L’unico mondo può essere considerato come molti, o i molti considerati come uno; se come uno o come molti dipende dal modo di considerarli.2

Simili questioni sono sicuramente fondamentali in tutta la riflessione estetica, ma risaltano con particolare evidenza di fronte agli occhi del comparatista, il quale – come ci ricorda Claudio Guillén che intitola emblematicamente L’uno e il

molteplice la sua introduzione alla letteratura comparata – sente intensamente

tanto la tensione tra «il locale e l’universale» quanto quella tra «l’uno e il diverso» poiché costretto a stare costantemente in bilico tra il localismo dell’esperto di una letteratura nazionale e il cosmopolitismo che trascura ogni specificità a uso e consumo dell’incasellamento in una unica, generalissima e generalista, storia della Weltliterature.3

Resta ora da esplicitare la metodologia che si è adottata per l’analisi delle tematiche. Lo studio adotta un’ottica comparatistica a più livelli, in quanto volto a mettere in risalto non solo le affinità tra diversi testi appartenenti ad aree

1 Cfr. Étienne Souriau, La corrispondenza delle arti. Elementi di estetica comparata, Firenze, Alinea,

1988, pp. 144-145.

2 Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 2.

3 Cfr. Claudio Guillén, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, il Mulino,

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geografico-culturali differenti (si farà riferimento in particolare a testi anglo-americani, ma non ci si esenterà dal trattare anche autori provenienti da altre zone), ma anche i legami che la riflessione letteraria postmoderna intrattiene con altre idee evolute contemporaneamente in altri campi del sapere. Tuttavia, vista la mancanza di una metodologia specifica della letteratura comparata sottolineata, tra gli altri, anche dal citato Guillén,1 è naturale che il presente saggio rechi la traccia di suggestioni eterogenee e, sebbene sia inseribile tra gli studi di ontologia della fiction, va sottolineato che il suo scopo principale non è solo quello di chiarire lo statuto degli enti finzionali in relazione a quelli reali. A mio parere, infatti, le diverse opere di fiction non si limitano a creare entità ambigue, ma elaborano una loro ontologia, quando non una vera e propria metafisica: esse sono sempre descrizioni teoretiche di un (non per forza il nostro) universo e in molti casi suggeriscono, seppur implicitamente, delle ragioni profonde dei fenomeni che accadono in questo universo. Sebbene sia innegabile che i mondi i finzionali abbiano una loro autonomia, è altrettanto innegabile che mantengano sempre un qualche tipo di rapporto (metaforico) con la realtà che viviamo: molto spesso, più assurdi sono, più ci sembrano vicini alla nostra esperienza. Per questo motivo bisogna fare attenzione a separare eccessivamente i mondi possibili della finzione dal mondo attuale: essi descrivono una realtà solo apparentemente lontana, ma che è invece pericolosamente vicina. Ciò non implica che da un momento all’altro potremmo incontrare i personaggi del nostro romanzo preferito nel caffè sotto casa, ma questa vicinanza va presa come un invito all’attenzione, perché gli strani mondi popolati da queste entità, forse, ci possono dare una mano a localizzare il nostro mondo all’interno dell’infinità di tutti i mondi possibili. Infatti il filosofo, lo scienziato, lo storico e lo scrittore creano un mondo possibile con i pochi brandelli di “realtà” che hanno a disposizione: compito arduo, ma non così come tentare di capire quanto il mondo possibile appena creato sia vicino al mondo – che ci appare molto spesso impossibile – in cui abitiamo. Per tutti i motivi sopra menzionati, il confronto con la filosofia è quello che più di ogni altro ha contribuito a dare al presente saggio l’assetto che ora ha. Fin dal titolo, infatti, è evidente il collidere della sfera prettamente estetica e letteraria con quella metafisica. Tuttavia, affinché l’improvvisa invasione di un campo solitamente riservato ai filosofi da parte di un “semplice letterato” non venga interpretata come un atto di superbia, occorre specificare in che modo debba essere inteso il termine ‘metafisica’ e a quali scuole (se questa parola in tale contesto ha ancora qualche significato) filosofiche si faccia riferimento. Per il significato del termine ‘metafisica’ ci rifacciamo alla sua definizione minimale diffusa nell’ambito della filosofia analitica contemporanea: con esso si intende indicare semplicemente quella branca della filosofia che si prefigge di individuare la natura ultima della realtà; la natura degli oggetti materiali, dello spazio, del tempo e delle proprietà, l’identità, la causalità, il libero arbitrio e il determinismo,

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la vaghezza ontologica, lo statuto delle entità matematiche e degli oggetti fittizi, il relativismo, l’essenzialismo, la natura della necessità sono alcuni dei principali argomenti, ma pertiene alla metafisica – scrive Achille Varzi – anche «il compito preliminare di stabilire che cosa esiste, o quantomeno di fissare dei criteri per stabilire che cosa sia ragionevole includere in un accurato inventario del mondo»: della «messa a punto di tali criteri» si occupa l’ontologia, la quale mira così a costruire un «inventario del mondo» in cui inserire tutto ciò che esiste.1 Non solo ci atteremo a queste definizioni, ma la maggior parte dei filosofi a cui si farà riferimento sarà di orientamento analitico. Il «metodo analitico», infatti, continua Varzi,

ha contribuito a togliere la metafisica dal piedistallo sulla quale era stata collocata dalla filosofia dell’Ottocento, restituendola a quel dominio di interrogativi che costituiscono parte integrante del vasto processo col quale cerchiamo di dare un ordine al mondo che ci sta intorno e a cui siamo soliti far riferimento quando parliamo e quando pianifichiamo le nostre azioni.2

Più in generale, ci si rifà a una visione «diffusa» della filosofia, tipica di filosofi come Gilles Deleuze, secondo cui «la filosofia è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti», o Roberto Casati, che vede il filosofo come un «negoziatore

concettuale» e la filosofia come «un’arte» più che una materia: per entrambi questi

autori, insomma, la filosofia non è prerogativa dei filosofi di professione, ma è presente ogni qual volta un determinato campo problematico ponga in atto una tensione concettuale.3

1 Cfr. Achille Carlo Varzi, Ontologia e metafisica, in Franca D’Agostini e Nicla Vassallo (a cura di),

Storia della filosofia analitica, Torino, Einaudi, 2002, pp. 81-117, 521-526. Disponibile anche online:

http://www.columbia.edu/~av72/papers/Einaudi_2002.pdf, consultato il 2 agosto 2018.

2 Ivi.

3 Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1996-20023, p. IX e

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Ringraziamenti

I primi doverosi ringraziamenti vanno ad Achille Varzi e a Massimo Rizzante. Ad Achille Varzi per la sua disponibilità al confronto intellettuale che è ancor superiore – se possibile – al valore dei suoi suggerimenti e commenti, i quali hanno avuto sul mio modo di vedere il mondo – o i mondi? – un’influenza di cui è veramente difficile render conto e che va ben al di là delle (molte) pagine di cui è composto il presente saggio. Immensa gratitudine nutro poi per il mio tutor Massimo Rizzante che ha creduto in me fin dai primi anni di università: in lui ho avuto la fortuna di trovare non solo un vero insegnante, ma un maestro di vita e un amico, la cui presenza è stata sempre tanto rispettosa della mia autonomia di studioso da trasparire forse più nel mio modo di vedere le cose che nelle cose da vedere stesse; ma questo dovrebbe essere, a mio parere, il ruolo di un vero maestro.

Un ringraziamento speciale va alla mia amica Francesca, non solo per il costante aiuto che mi ha dato in questi anni, ma per la sua capacità di starmi vicino anche da distante in tutti i momenti. Ringrazio poi i colleghi di dottorato Bruno e Giacomo, per le conversazioni sempre ricche di stimoli e per l’amicizia dimostratami dentro e fuori dall’accademia: con loro, tra Trento, Roma e New York, posso dire di aver condiviso una parte fondamentale della mia vita.

Desidero ringraziare mia madre e mio padre, perché senza l’infinita pazienza della prima e le interminabili discussioni con il secondo, non sarei mai arrivato fino a qui. Grazie infine a Lucia che ogni giorno rende il mio mondo possibile.

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LIBRO I

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1. I VERTICI DELLA FIGURA: LO STATUTO DEI MONDI

Confidando nella famosa massima secondo cui la vera natura emerge nei momenti di crisi, per affrontare l’argomento dell’impegno ontologico legato alla formulazione di modelli teoretici a mondi possibili, si è scelto di concentrarsi su quelle posizioni che si presentano, in un certo senso, come le più radicali. A seconda dello statuto ontologico attribuibile ai mondi possibili si possono pertanto identificare i seguenti casi.

I. Concettualismo modale. I mondi possibili sono dei concetti che solo Dio

intende compiutamente e a uno soltanto di questi concede diritto d’esistere; è la posizione, ad esempio, di Leibniz.

II. Attualismo. Si assegna un privilegio ontologico al mondo attuale, il quale

contiene individui in grado di immaginare altri mondi possibili; dunque, per quanto riguarda un testo, ad esempio, esso può descrivere il mondo attuale poiché quest’ultimo lo precede e lo contiene, mentre i cosiddetti mondi finzionali vengono costruiti dall’attività testuale. All’interno di tale categoria si collocano molteplici teorici con posizioni anche molto diverse tra loro, ma accomunate da un dualismo di fondo che tende a sottolineare l’esistenza di una frontiera, più o meno porosa ma comunque presente, tra fatto e finzione.

III. Realismo modale. Tutti mondi possibili esistono nello stesso modo, ogni

mondo è attuale per sé stesso e possibile per gli altri; sebbene questa sia la denominazione con cui si è soliti indicare la teoria proposta dal filosofo americano David Lewis, essa richiama idee antiche fra cui quelle espresse da certe cosmologie atomiste, riprese e sviluppate poi dagli epicurei. IV. Relativismo concettuale. Il mondo attuale non offre alcuna struttura

intrinseca rappresentabile univocamente da una determinata narrazione. Le varie versioni del mondo mettono in evidenza determinati aspetti oscurandone altri e, per questo motivo, non può esserne selezionata alcuna a cui assegnare una posizione privilegiata; esse tendono all’incommensurabilità. Questa posizione ha avuto numerosi sostenitori, soprattutto nella cultura cosiddetta postmoderna. Si è scelto di concertarsi sul pensiero di Nelson Goodman e in particolare sulla difficoltà di porre un discrimine oggettivo e non arbitrario tra i casi in cui si possono identificare diverse descrizioni rivali del medesimo oggetto e quelli in cui invece si è in presenza di descrizioni non concorrenti di enti diversi, in altre parole su quella che potremmo chiamare ambiguità tra modi di vedere e mondi del vedere.

V. Caosmo. Una quinta posizione, che completerebbe questo quadro, è

fornita forse dalla cosmologia elaborata parallelamente da Gilles Deleuze e Félix Guattari, soprattutto nella loro ultima opera Che cos’è la filosofia?, e

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da Michel Serres nel suo affascinante Genesi.1 Qui l’anarchia postmoderna assume un sapore premoderno dove la realtà si configura come un «caosmo», in cui avviene una vera e propria cosmogonia incessante: i mondi sono generati da fluttuazioni spontanee del caos, il quale li pervade e li destabilizza, attraversandoli a velocità infinita. Questa suggestiva ipotesi correrà sottotraccia costantemente, ma si affronterà in modo esplicito soltanto nella sezione finale di questa parte, prima di passare ai mondi aggrovigliati dell’immaginario postmoderno.

Non si può passare alla trattazione analitica delle posizioni sopra enunciate senza una breve precisazione terminologica. Nell’ambito della filosofia analitica contemporanea, per attualismo si intende quella dottrina che «nega che vi sia qualunque tipo di essere al di là dell’esistenza attuale; essere è esistere, ed esistere è essere attuale».2 Se tutto ciò che c’è è attuale, allora ‘il mondo attuale’ è solo un altro modo di chiamare la realtà. Tralasciando le ordinarie difficoltà nel compilare un «inventario del mondo» che comprenda senza ambiguità tutto ciò che esiste, Timothy Williamson ci ricorda che il termine ‘attualismo’ non gode di buona fama nel dibattito odierno.3 La ragione è da ricercare nella mal definita nozione di attualità. Un filosofo, solitamente, si definisce attualista per opporsi a un suo collega sostenitore del possibilismo; dove il primo afferma che ‘tutto ciò che esiste’ è attuale, il secondo che ‘tutto ciò che esiste’ è possibile: escludendo l’ipotesi del realismo modale, in cui l’aggettivo ‘attuale’ si applica al mondo che noi abitiamo, la contrapposizione perde senso. Per questo motivo, dunque, Williamson propone di spostare la discussione attorno all’opposizione tra necessitismo e possibilismo, più proficua per uno studio modale della metafisica. Non ci è sembrato il caso di accogliere tale obiezione per diversi motivi. In primo luogo poiché questo studio non si prefigge un’attenta analisi della necessità metafisica attraverso gli strumenti offerti dalla logica modale e, se tali argomenti verranno toccati, lo saranno solo di sfuggita o parallelamente ad altre questioni di carattere ontologico. Secondariamente, come scrive lo stesso Williamson, l’opposizione necessitismo-contingentismo assume pieno valore nel momento in cui si rifiuta il realismo modale, in quanto questo rappresenta una trivializzazione del necessitismo:4 non si ha qui la minima intenzione di rifiutare il realismo modale come presupposto meno fondato o poco credibile rispetto ad altre posizioni prese in considerazione. Infine, i teorici della letteratura che si occupano di ontologia della fiction non paiono condividere per il termine in

1 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit. e Michel Serres, Genesi, Genova, Il

Melangolo, 1988.

2 Christopher Menzel, Actualism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2000-2014, disponibile

online: https://plato.stanford.edu/entries/actualism/, consultato il 6 agosto 2019.

3 Cfr. Timothy Williamson, Modal Logic as Metaphysics, Oxford-New York, Oxford University

Press, 2013-20152, p. 22-25. 4 Cfr. ivi, p. 17.

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questione l’insoddisfazione nutrita dai filosofi; anzi, il suo uso è ben attestato e non sembra esser messo in discussione anche nei contributi più recenti.1

1 Anche Françoise Lavocat nel suo aggiornato ed esaustivo saggio – Fait et fiction. Pour une frontière,

Paris, Seuil, 2016, pp. 381-396 – fa uso del termine attualismo così come qui viene inteso. Tuttavia le quattro posizioni riguardanti lo statuto ontologico dei mondi possibili proposte dalla studiosa francese si sovrappongono solo in parte a quelle qui proposte: da una parte le posizioni di Goodman e Deleuze non vengono prese in considerazione, dall’altra Lavocat distingue l’impegno ontologico implicato da realismo modale da quello richiesto dal possibilismo, pur attribuendo a Lewis entrambe le posizioni. Tale distinzione non trova alcun riscontro in The

Oxford Handbook of Metaphysics, in cui, con il termine possibilismo, si intende identificare quella

posizione secondo cui gli oggetti possibili dei quali parliamo non sono riducibili ad un discorso che non coinvolga riferimenti ad oggetti meramente possibili. Lo statuto di questi referenti può variare per spessore ontologico e, in questo caso, la posizione di Lewis – il quale ritiene che i mondi possibili formati da oggetti possibili esistano tutti realmente e fisicamente, simili a realtà parallele – è sicuramente la più radicale; ciononostante, sebbene implichi un impegno ontologico estremo per quanto riguarda lo statuto dei possibilia, il realismo modale rimane comunque una forma di possibilismo (cfr. Kit Fine, The Problem of Possibilia, in Michael J. Loux e Dean W. Zimmerman (a cura di) The Oxford Handbook of Metaphysics, Oxford, Oxford University Press, 2003-20102, pp. 161-179).

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2. IL MONDO O I MONDI?

Secondo la tassonomia proposta, le prime due posizioni riguardo allo statuto dei mondi possibili – il concettualismo modale e l’attualismo – sebbene entrambe concedano esistenza piena a un unico mondo si differenziano nella visione cosmogonica, ovvero riguardo all’origine dei mondi possibili non attualizzati e chi o cosa sia responsabile dell’esistenza del mondo reale. Se il concettualismo modale, infatti, postula un’infinità di mondi possibili, concepiti nella loro interezza soltanto da una mente divina, e se questa concede diritto di esistere a uno soltanto, l’attualismo, invece, pur attribuendo ugualmente lo statuto di realtà a un solo universo, considera i mondi possibili entità fittizie, incomplete ed irreali, create tramite stipulazione dagli esseri che lo popolano, per cui l’accesso al paradiso dei possibilia è garantito a qualsiasi entità dotata di facoltà immaginativa. Entrambe le visioni, dunque, concordano nell’attribuire statuto ontologico pieno ad un solo mondo e, anche se incompatibili da un punto di vista teologico, è evidente come esse presentino forti analogie, quasi da apparire in relazione di discendenza. Ne consegue che l’abitante di un mondo creato per volontà divina si pone una serie di domande ben diverse da quelle che si pone una persona in grado di descrivere il mondo in cui risiede e di creare scenari alternativi: per il primo sarà vitale la questione del libero arbitrio, mentre alla seconda importerà maggiormente, ad esempio, il rapporto che intercorre tra descrizione e creazione. Anche se tale divisione può sembrare evidente, non è affatto scontata, poiché le due concezioni portano con sé almeno un problema comune: finché il mondo unico si presenta omogeneo e intellegibile, ovvero l’apparente eterogeneità dei fenomeni viene ricondotta a un sostrato tendenzialmente unitario, tutto scorre liscio, ma le cose si complicano quando in questo mondo appaiono fenomeni inspiegabili, che offrono una resistenza tale ad essere sistematizzati univocamente da manifestarsi come il frutto di, direbbe Pynchon, «another world’s intrusion into this one».1

Per meglio comprendere gli interrogativi che il modello a un solo mondo fa sorgere, bisognerà fare qualche passo indietro sulla linea del tempo e, sulla scorta degli studi di Gilles Deleuze, ritornare alla concezione filosofica di Leibniz e alla cultura barocca. È infatti proprio il filosofo francese a scorgere con chiarezza come molte delle problematiche del pensiero contemporaneo, da un punto di vista ontologico ma non solo, trovino un precedente nel concettualismo modale, di cui Leibniz è sicuramente il maggiore esponente, almeno per quanto concerne la filosofia moderna: la sua anatomia della filosofia leibniziana è volta a sottolinearne l’eredità che, nel nostro mondo postmoderno o neobarocco, anziché diminuire tende ad avere sempre più peso.

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2.1. UN SOLO MONDO TRA LE PIEGHE: L’ARMONIA DI LEIBNIZ E IL NEOBAROCCO DI DELEUZE

Soltanto la spiegatura è importante. Il resto è soltanto un epifenomeno.

Henri Michaux

Nei sui celebri Principi di filosofia o Monadologia Leibniz sostiene che «un’anima […] non potrebbe rivelare d’un sol tratto le sue pieghe, perché vanno all’infinito».1 Tale asserzione già ci fornisce implicitamente una caratterizzazione profonda di quella che è per il filosofo tedesco la differenza tra sostanza individuale e principio divino; una differenza che potremmo definire più di grado che di qualità, visto che l’anima individuale, pur non potendo esplicare compiutamente l’infinito, comunque lo implica. Tuttavia, per accostarsi a questa costruzione barocca, è necessario comprendere che cosa siano queste pieghe. Sebbene l’immagine della piega ricorra più volte nella scrittura dello stesso Leibniz, per Deleuze tutta la cultura barocca ricade sotto l’immagine di una piega che si estende senza fine, dal calcolo differenziale al rapporto tra infiniti convergenti e divergenti, fino alla pittura che abolisce il contorno e fa emergere le figure attraverso l’accostamento di masse sfumate. La materia barocca non solo è illimitata, ma è anche infinita nella sua tessitura: all’interno di una piega si troverà sempre un’altra piega in un regresso senza fine; ogni corpo sarà circondato da altri corpi e ne possiederà altrettanti al suo interno. Questa concezione differisce fortemente sia da quella atomista, poiché non postula un’unità minima inseparabile, sia da quella cartesiana. Infatti, proprio nell’errore che Leibniz imputa a Cartesio, Deleuze individua uno dei caratteri con cui il Barocco si oppone al Rinascimento: la distinzione reale tra le parti non implica una loro separabilità; anche se principi differenti regolano i movimenti dell’una o dell’altra, esse non risultano mai separabili, ma casomai piegate l’una sull’altra.2 In altre parole, non solo esse sono in rapporto di reciproca dipendenza, ma il più piccolo frammento di materia non potrà mai essere ridotto ad un punto sul piano cartesiano, anzi, all’interno della sua non-dimensione, risulterà sempre composto: si può dire che la piega, parte del continuo, sostituisca il punto,

1 Gottfried Wilhelm Leibniz, Principi di filosofia o Monadologia (1714), 61, in Scritti filosofici, vol. III,

a cura di Massimo Mugnai ed Enrico Pasini, Torino, Utet, 2000, pp. 462-463.

2 Cfr. Gilles Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 1990-20047, p. 9; cfr. anche

G. W. Leibniz, Monadologia, 14, cit., pp. 454-455: «E in merito i cartesiani hanno commesso un grave errore, non tenendo in nessun conto le percezioni che non vengono appercepite. È questo, altresì, ad aver fatto credere loro che solo gli spiriti siano monadi […] e per cui hanno confuso, come fa il volgo, un lungo stordimento con una morte in senso rigoroso; è ciò che li ha spinti ad aderire al pregiudizio scolastico delle anime interamente separate e che ha persino confermato gli spiriti maldisposti nell’idea che le anime siano mortali».

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estremità analitica, come unità base.1 Non solo tale consustanzialità di Uno e Molteplice presenta chiare ascendenze neoplatoniche, ma proprio dai neoplatonici Leibniz ricaverà uno dei concetti chiave della sua filosofia: il termine monade negli Elementi di Teologia di Proclo è usato infatti per descrivere l’unità che avviluppa la molteplicità, la quale appare come sviluppo in forma di «serie» dell’unità in cui è implicata, rendendo così simultaneamente una e molteplice la totalità dispiegata.2 Nel caso dei neoplatonici è sempre l’Uno o Dio ad essere principio e fine della molteplicità, mentre sarà soltanto Giordano Bruno ad attribuire alla materia ciò che i suoi predecessori attribuivano a Dio, sostenendo che essa «esplica lo che tiene implicato», e in quanto tale si presenta come l’anima del mondo che tutto complica.3

Nonostante il concetto di monade, dunque, non sia una novità, sarà Leibniz a fissarne definitivamente il funzionamento armonico ed estenderne le conseguenze immanentistiche fino agli estremi, pur rimanendo all’interno di un impianto che, formalmente, mantiene inalterati i diritti di un Dio trascendente o «Uno dominante».4 Nella Monadologia, infatti, insistendo sull’inseparabilità di corpi e anime, rifiuta l’idea, spesso erroneamente attribuitagli, «che ogni anima abbia una massa o porzione di materia sua propria o assegnatale per sempre»,5 costituendo quindi un complesso gerarchico stabile in cui si confondano forza vitale e concatenazione meccanica: l’universo non è l’animale in sé, ma un «brulichio di pesci»6 in cui è difficile distinguere i pesci stessi in fluire perpetuo. Ogni corpo animato è formato a sua volta da un’infinità di altri viventi che di continuo mutano ruolo e posizione: l’anima, quindi, può perdere in parte il suo corpo organico, ma non si troverà mai completamente privata di organi.7 In altre parole, l’anima metamorfizza gradualmente il corpo senza mai coincidervi né separarvisi completamente: l’ambiente inorganico risulta pertanto implicato tra

1 Cfr. Gottfried Wilhelm Leibniz, Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del

male (1710), Prefazione, in Scritti filosofici, vol. III, cit., p. 23: «Ci sono due labirinti famosi, nei quali

la nostra ragione assai spesso si smarrisce: uno riguarda il grande problema di ciò che è libero e di ciò

che è necessario, soprattutto in rapporto alla produzione e all’origine del male; l’altro consiste nella

discussione della continuità e degli indivisibili, che sembrano esserne gli elementi, discussione nella quale deve entrare la considerazione dell’infinito». Per un’accurata analisi del labirinto metafisico-matematico di cui parla Leibniz cfr. Michel Serres, Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques, Paris, PUF, 1990.

2 Proclo Licio Diadoco, Elementi di Teologia, XXI.

3 Cfr. Giordano Bruno, De la causa, principio et uno, Dialogo quarto, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a

cura di Michele Ciliberto, Milano, Mondadori, 2000, pp. 271-272.

4 Cfr. G. W. Leibniz, Il nuovo sistema. XVII: L’origine radicale delle cose (1697), in Scritti filosofici, vol.

I, cit., p. 480.

5 G. W. Leibniz, Monadologia, 71, cit., p. 464. 6 Ibidem, 69.

7 Ibidem, 72: «neppure vi sono anime del tutto separate né geni privi di corpo. Solo Dio ne è

completamente privo». Anche in questo caso è evidente come le conseguenze immanentistiche e animiste vengano ridotte all’interno di un sistema che rispetta il ruolo di una divinità trascendente.

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due pieghe organiche senza mai diventare, per questo motivo, organico a sua volta.

Tale visione deriva dalla concezione barocca della «preformazione», ovvero l’idea secondo cui gli esseri viventi non derivino dal caos, bensì da un corpo organico già presente in natura e munito di un’anima;1 il vivente è già «animale» e, in quanto specchio dell’universo, «indistruttibile»:2 è il suo meccanismo a decomporsi, ma non la vita stessa che, come l’anima, è immortale. Come osserva Deleuze, si afferma l’autonomia di anima e corpo per ribadirne la necessaria unione: «se il vivente ha sempre un’anima, è perché le proteine testimoniano già una sua attività di percezione, di discriminazione e di distinzione»,3 tutte attività che non possono essere spiegate per mezzo di segnali chimici e impulsioni. Questa autonomia di anima e corpo non sfocia nel caos soltanto in virtù dell’accordo garantito dall’«armonia prestabilita», altro concetto fondamentale della filosofia leibniziana, che assicura la corrispondenza tra le due linee parallele dell’anima e del corpo, «come se» entrambi si influenzassero a vicenda.4 È così che le monadi possono essere concepite come «specchi viventi dell’universo»:5 nell’anima esse esprimono, attualizzandolo, il mondo che virtualmente è su di loro impresso, mentre la sua realizzazione è assicurata dalla tessitura della materia e delle sue membra. Ogni organo, come ogni corpo, è infatti in perpetua formazione e, per consentire questo processo, deve esistere una miriade di piccole monadi: tali monadi seconde non possono non avere un corpo a loro volta, costituito da altre monadi ancora, in un canone barocco infinito, obbediente alle regole dell’armonia. Il corpo, come viene descritto nella

Monadologia, risulta dunque una macchina infinitamente macchinata in cui ogni

frammento di materia è specchio del Creato: il torto dell’automa costruito dall’umano e non da Dio è invece di non avere abbastanza meccanismi, di essere finito in parti non concepite come macchine da colui che lo ha prodotto.6 Nel caso del vivente non esiste unità assolutamente semplice o indifferenziata: proprio per questo motivo, Deleuze individua una certa affinità tra il preformismo barocco ed il concetto heideggeriano di «Zweifalt»;7 entrambi infatti

1 Ivi, 74, p. 465 2 Ibidem, 77.

3 G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 150; cfr. anche Cfr. G. W. Leibniz, Monadologia,

8-19, cit., pp. 454-455.

4 G. W. Leibniz, Monadologia, 78-81, cit., p. 465-466; cfr. anche G. W. Leibniz, Discorso di metafisica,

9, cit., pp. 269-270.

5 Cfr. ivi, 56, p. 461.

6 Cfr. ivi, 64, p. 463: «Perché una macchina fatta dall’arte dell’uomo non è macchina in ogni sua

parte: per esempio, il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non sono per noi qualcosa di artificiale e non hanno più nulla che richiami la macchina, in rapporto all’uso cui era destinata la ruota».

7 Concetto elaborato da Martin Heidegger soprattutto in Moira, in Saggi e discorsi, a cura di Gianni

Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 158-175; cfr. anche G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit., pp. 17-18 e 50.

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rimandano ad una differenza che si differenzia infinitamente, ad un’unità in e di movimento più che ad una differenza che si dispiega da un indifferenziato precostituito: il «di-spiego di essere ed essente» che scomparendo accoglie al suo interno l’intero pensiero occidentale. Questo «di-spiego», o «piega a due»1 come la definisce il filosofo francese, fissa contemporaneamente distinzione ed inseparabilità: da una parte le anime esprimono il mondo ripiegato dentro di loro e dall’altra i corpi si dispiegano nell’organico e nell’inorganico, ma tra le due pieghe infinite corre un’«intra-piega».2 È in questa torsione estrema della filosofia leibniziana che Deleuze intravede una possibile soluzione ad un problema su cui meditava da tempo: il rapporto tra il visibile e l’enunciabile.3 La monade diventa un libro che si legge e si osserva, «che contiene tutte le pieghe, dato che la possibilità combinatoria dei suoi fogli è infinita»:4 tutto si consuma al suo interno in uno strano anello in cui i rinvii continui instaurano un nuovo tipo di corrispondenza e fanno in modo che l’interno sia conforme all’esterno fino quasi a confondersi con esso: «il visibile e il leggibile, l’esterno e l’interno, la facciata e la camera, non sono tuttavia due mondi, giacché il visibile ha la sua lettura […], e il leggibile ha il suo teatro […]».5 Per comprendere l’attualità della problematica sottolineata da Deleuze basta pensare alla “prosa concreta”, così diffusa nella scrittura postmodernista, che tende a far riflettere sul rapporto tra la visualizzazione del testo, disposto tipograficamente in forme astratte o «icone verbali», e la sua

1 Ivi, p. 18.

2 G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 198.

3 Nei due libri sul cinema, Deleuze insiste sull’importanza dell’immagine come rottura

dell’alleanza Essere-linguaggio: poiché è impossibile ricucire lo strappo tra visibile ed enunciabile, l’immagine è fuori del pensiero. Il nesso Essere-linguaggio aveva caratterizzato l’ontologia dei primi scritti di Deleuze: in Differenza e ripetizione «L’Essere è Univoco», e in Logica

del senso «il senso è l’esprimibile o l’espresso della proposizione e l’attributo dello stato di cose» (cfr. Gilles

Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Cortina, 1997, p. 52, e Id., Logica del senso, Terza serie. Sulla

proposizione, Milano, Feltrinelli, 1975-20149, p. 27). In breve, si dice ciò che si vede, e il rapporto tra

gli enunciati e le visibilità non appare problematico. L’ontologia di Deleuze si presenta quindi come una variante strutturalista dell’ontologia heideggeriana: il senso viene generato dall’incrocio di serie, ovvero dal gioco – caro agli strutturalisti – di significante fluttuante e significato fluttuato. Proprio nei due libri sul cinema si consuma una frattura: di qui in poi, infatti, possiamo dire che, per Deleuze, Essere e linguaggio non facciano più Uno. Nel saggio su Foucault, infatti, la realtà appare prodotta: (a) dai rapporti formali interni al visibile, (b) dai rapporti formali interni all’enunciabile e (c) dai rapporti di forza informali che organizzano e dividono le due molteplicità formali. Le due forme – il visibile e l’enunciabile – non entrano mai in rapporto diretto l’una con l’altra: si presentano sempre asimmetriche e in perpetuo mutamento; esse si associano solamente all’interno di quella che Deleuze chiama «terza dimensione informale» (Gilles Deleuze, Foucault, Napoli, Cronopio, 2002-20092, p. 95), la quale deve rendere conto del loro assetto. È proprio

qui, nell’interstizio ineliminabile che divide immagine e parola, che si mette in moto il pensiero: se linguaggio ed Essere fossero veramente uniti, il movimento creativo non sarebbe che apparente perché sotto si celerebbe una verità immobile, fuori del tempo.

4 G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 51. 5 Ivi, p. 52.

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lettura;1 o ancora, un esempio paradigmatico può esser fornito dall’iper-romanzo di Cortázar, in cui la possibilità di leggere il testo in più ordini diversi e scoprire di volta in volta una storia differente subordina la costruzione del mondo finzionale alla manipolazione degli “oggetti” del discorso.2

Strategie simili tendono a mettere in risalto la molteplicità e l’arbitrio con cui ci rappresentiamo il mondo, il quale altro non è che una virtualità esistente soltanto all’interno delle pieghe dell’anima che lo esprime. È la concezione barocca dei «punti di vista»3 che Leibniz fa propria e che Deleuze così sintetizza:

Ciò che è colto da un punto di vista non è una strada determinata o il suo rapporto determinabile con le altre strade, che rappresentano delle costanti, ma la varietà di tutte le connessioni possibili tra il percorso di una qualsiasi strada e un’altra: la città come labirinto ordinabile. La serie infinita delle curvature o delle inflessioni è dunque il mondo, e il mondo intero è incluso nell’anima da un certo punto di vista.4

Se l’anima però include virtualmente il mondo intero, è legittimo domandarsi quale sia il significato da attribuire a queste «inflessioni». La visione prospettica, infatti, si basa sull’esistenza di punti di vista diversi che osservano soltanto parte della scena: se le monadi non fossero in qualche modo limitate, infatti, si dovrebbe parlare piuttosto di spirito universale che di anime personali. A complicare ulteriormente lo statuto della monade è il fatto che, come si vedrà meglio in seguito, ad essere implicata virtualmente al suo interno è la totalità dei mondi possibili; ma per comprendere come venga evitata la possibilità che ogni monade diventi una «divinità»,5 bisogna prendere in considerazione la matematica leibniziana ed in particolare alcune nozioni riguardanti il concetto di infinito. Come Cusano e Bruno prima di lui, e parallelamente al suo contemporaneo Spinoza, Leibniz distingue un infinito di ordine minore o «intelligibile» e uno di ordine maggiore o incommensurabile, i quali, nella terminologia di Cusano, vengono definiti «massimo contratto» e «massimo assoluto».6 Secondo Leibniz, il primo, infinito in estensione e rappresentato dalla

1 Cfr. B. McHale, Postmodernist Fiction, cit., pp. 185-187.

2 Cfr. Julio Cortázar, Rayuela. Il gioco del mondo, 1969-20155 [1966]. 3 G. W. Leibniz, Monadologia, 57, cit., p. 461.

4 G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 40-41. 5 G. W. Leibniz, Monadologia, 60, cit., p. 462.

6 Cfr. Niccolò Cusano, La dotta ignoranza, II, 3-4, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, a

cura di Enrico Peroli, Milano, Bompiani, 2017; cfr. anche G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi,

Dialogo primo, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 335. Cfr. anche Baruch Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, I, definizione 6, Torino, Bollati Boringhieri, 1992-20002, pp. 5-6: «Per

Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza»; prosegue poi nella Spiegazione: «Dico assolutamente infinito, e non nel suo genere; possiamo infatti negare infiniti attributi a tutto ciò, che solo nel suo genere è infinito; appartiene invece all’essenza di ciò che è assolutamente infinito, tutto quel che esprime essenza e non implica alcuna negazione».

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totalità dei possibili, viene superato «intensivamente» dal secondo, il quale è frutto delle combinazioni «infinitamente infinite» tra tutti i possibili: solo l’infinita saggezza di Dio avvolge la totalità di tutti i possibili possedendone la ragione.1 Gli infiniti mondi possibili vengono così sistemati in una serie di infinità infinite: ogni monade racchiude virtualmente tutti i mondi possibili, ma non possiederà né la ragione di alcuno di essi, in quanto li esprime soltanto «confusamente», né tantomeno potrà comprendere il motivo per cui di tutte queste virtualità soltanto una ne verrà attualizzata e dunque un solo mondo possibile troverà realizzazione.2 Una monade, quindi, chiude il reale in un limite che tende all’infinito, poiché, pur possedendo un corpo connesso con la totalità della materia e delle altre anime particolari, essa può leggere nella sua anima soltanto una piccola porzione che vi è rappresentata «distintamente»:3 all’interno della serie infinita di tutte le possibilità, ogni monade ne rischiara – o dispiega – una parte. Il mondo attuale viene espresso dall’incontro tra le serie armonicamente convergenti provenienti dalle diverse zone chiare proprie di ogni monade: queste, se non possiedono la ragione della serie infinita che le congiunge e le rende partecipi del medesimo mondo, prerogativa di Dio, non brillano certo di luce riflessa, «essendo ogni spirito come una piccola divinità nella sua giurisdizione».4 A questo punto, anche se non si ha una definizione sostanziale dell’individuo, la sua esistenza risulta necessaria per l’esistenza del mondo. In un certo senso, soggetto e mondo non sono conseguenza lineare l’uno dell’altro, bensì stanno in una relazione di reciproca dipendenza, in quanto, se si legge il rapporto tra i due partendo dal mondo, esso è iscritto nella monade soltanto virtualmente come possibilità non attualizzata, mentre sono le monadi ad attualizzarlo; contemporaneamente, però, la sua preordinazione o inclusione nell’anima fa in modo che i soggetti abbiano la possibilità di partecipare tutti della medesima attualizzazione. L’idea della duplice torsione o piega

dà al mondo la possibilità di ricominciare in ogni monade. Bisogna riporre il mondo nel soggetto, affinché il soggetto sia per il mondo. Tale torsione costituisce la piega del mondo e dell’anima. Ed è essa stessa a conferire all’espressione il suo aspetto fondamentale: l’anima è l’espressione del mondo (attualità), ma perché il mondo è l’espresso dell’anima (virtualità). […] affinché il virtuale si incarni e si realizzi, occorre pure qualcos’altro oltre a questa

1 G. W. Leibniz, Saggi di Teodicea, II, 225, cit., pp. 275-276. 2 Cfr. G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, 9, cit., pp. 269-270. 3 Cfr. ibid. e G. W. Leibniz, Monadologia, 56-65, pp. 461-463.

4 Cfr. ivi, 83, p. 466: «Fra le altre differenze che vi sono tra le anime ordinarie e gli spiriti […] c’è

anche questa, che le anime in generale sono specchi viventi o immagini dell’universo delle creature, ma gli spiriti sono anche immagini della stessa divinità, o dell’autore stesso della natura, capaci di conoscere il sistema dell’universo e di imitarne qualcosa con dei saggi architettonici, essendo ogni spirito come una piccola divinità nella sua giurisdizione». La potenziale immanenza assoluta del sistema è limitata solamente da una mantenuta gerarchia degli esseri in cui un Dio trascendente ricopre ancora il ruolo di Unità superiore a cui tutto rimanda.

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