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LA PIEGA E LA PIAGA: VERSO UNA REALTÀ DISSONANTE

CHE COS’È UN MONDO POSSIBILE?

2. IL MONDO O I MONDI?

2.3. LA PIEGA E LA PIAGA: VERSO UNA REALTÀ DISSONANTE

Forse l’intero mondo è dentro di me. Quando chiuderò gli occhi tutto l’universo sparirà.

Philip Dick

Una volta che viene a mancare un criterio di selezione, in particolare la convergenza delle serie provenienti dalle diverse monadi, che assicurava l’attualizzazione di un determinato mondo, esso diventa polimorfo. Il proliferare delle serie divergenti e delle contraddizioni locali apre due vie all’interpretazione del mondo. Una possibilità è quella di considerare perduta l’architettura

1 Facendo esplicito riferimento al pensiero di Deleuze, cosi vengono descritti limiti del «principio

d’ordine di Boltzmann» in I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, cit., pp. 209-210.

2 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 294.

3 Guillaume Apollinaire, Zona [Zone], in Alcools, ora in Id., Poesie, a cura di Renzo Paris, Roma,

piramidale presentata da Leibniz e ritenere che molteplici mondi differenti pervengano all’esistenza: questi tenderebbero a rimanere separati, ma di tanto in tanto potrebbe crearsi una figura d’interferenza tra l’uno e l’altro dando luogo a zone di differenza ontologica in cui le leggi subiscono un’aberrazione. Secondo le parole di Philippe Forest, infatti,

la vera vertigine, la vertigine del vero, comincia, al contrario di quello che afferma Leibniz, quando tutte quelle versioni della vita appaiono dotate dello stesso grado di realtà (o di irrealtà) senza che nessuna provvidenza le metta in ordine: un grande caos di forme che vagano alla cieca nel vuoto in cui volteggiano tutti i possibili, la mostruosa addizione di mondi che si giustappongono senza alcun senso e di cui niente viene a regolare il movimento casuale che non li conduce verso nessun posto.1

Il locus classicus letterario che esemplifica tale soluzione è sicuramente Il giardino

dei sentieri che si biforcano: nell’opera del filosofo cinese Ts’ui Pên, descritta da

Borges, non c’è selezione tra possibilità alternative e ogni istante sviluppa serie spaziotemporali divergenti che talvolta finiscono per attraversarsi e disperdersi nuovamente in un groviglio senza fine; è questa la scelta di Borges che, rifiutando la scelta del Migliore, afferma l’esistenza simultanea di tutti i mondi incompossibili che si sviluppano «in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli».2 Se invece, come Leibniz, non si è disposti a concedere l’esistenza a più mondi differenti, allora si è costretti a prendere in considerazione un solo mondo completamente eterogeneo, in cui non esiste legge universale che non possa essere contraddetta, un universo inconoscibile e caotico. È questo il prezzo da scontare: il setaccio non funziona più armonicamente, il mondo racchiuso all’interno delle monadi è viziato da errori e pieghe inspiegabili. Le divergenze non svolgono più il loro ruolo di frontiere tra mondi: l’anima e il corpo finiscono stritolati l’uno nell’altro e l’ideale di chiusura della monade viene messo a dura prova. È «un mondo di catture più che di clausure».3 Assieme alla linearità, infatti, se ne va ogni garanzia d’identità: senza una gerarchia ogni valore è possibile e se il mondo continua ad essere ripiegato nelle anime, queste anime perdono i confini, si appropriano degli eventi incassandosi l’una sull’altra. Già in Leibniz non c’è unità sostanziale nel soggetto e ad identificare un individuo è soltanto il possesso di determinate singolarità,4 ma, laddove nel Barocco questo divenire era regolato e garantito da precise

1 Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger [Le chat de Schrödinger], Roma, Del Vecchio Editore, 2014

[2013], p. 221.

2 Jorge-Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni (1944), ora in Id., Tutte le opere,

vol. I, cit., p. 700.

3 Cfr. G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit, p. 135. 4 Cfr. ivi, pp. 179-181.

regole stabilite prima dell’inizio del gioco, ora, nel Neobarocco, è il movimento stesso a rigenerare i principi giocando.

A rappresentare con incredibile efficacia la crisi del modello a un solo mondo, in cui il mondo dispiegato si presenta come un delirio di serie divergenti e le anime che lo esprimono si ritrovano imprigionate nella follia, è Kosmos di Witold Gombrowicz.1 La narrazione prende la forma di un memoir in cui il protagonista sembra coincidere con l’autore: entrambi portano il medesimo nome. L’intero romanzo, come ci suggerisce Gombrowicz stesso,2 si presenta come un giallo, una ricerca epistemologica che tenta di far chiarezza su alcuni strani fatti: ad interrompere la noia di una vacanza in campagna di due giovani, Witold e Fuks, intervengono infatti alcuni avvenimenti insignificanti e ingiustificati, che paiono in qualche modo collegati. Nel boschetto nei pressi della pensione, che si presenta già come luogo eteroclito il cui «spazio a macchie» emerge tra «sbiechi» e «deviazioni», fa la sua comparsa un passero impiccato con del fil di ferro.3 L’avvenimento colpisce per la sua assurdità, ma potrebbe essere presto dimenticato se, alla vista della governante Katasia e di Lena, figlia della padrona di casa, Witold, nella sua mente, non lo collegasse ai tratti somatici delle due ragazze: il passero rimanda alle loro bocche e tutto il romanzo, di qui in poi, è una sorta di ricerca per trovare giustificazione all’associazione tra bocca e impiccagione. L’incontro tra il labbro viscido di Katasia e quello fresco di Lena toglie il sonno al narratore: ogni volta che un elemento della catena, insignificante di per sé, si presenterà alla mente, porterà con sé tutti gli altri, assumendo una rilevanza vitale nel rapporto. Tutto deve avere una spiegazione e i due giovani iniziano la loro indagine per trovare la ragione della serie. L’atmosfera si fa inquietante quando Witold e Fuks, dopo aver interpretato alcuni misteriosi segnali, trovano un bastoncino appeso al muro con del filo bianco: alla serie del passero e della bocca si aggiunge il bastoncino impiccato. La ripetizione prende il sopravvento sulla somiglianza: le cose cominciano a perdere i propri contorni e a sovrapporsi ad altre in virtù dell’iterazione di determinate caratteristiche. La situazione inizia a sfuggire di mano e i due villeggianti sperimentano una disarmonia sempre più grande con il mondo; il disordine fa capolino più volte ed emergono periodicamente catene associative sotto forma di catalogo che, anziché gettare luce sulle serie compossibili che compongono il mondo, non fanno altro che sottolineare la violenza innaturale con cui gli eventi vengono collegati: i personaggi agiscono senza comprendere

1 Quanto segue è frutto di una rielaborazione di materiale precedentemente edito: cfr. Lorenzo

Graziani, Gombrowicz e lo spettro di Leibniz. La realtà divergente di Kosmos, in «Strumenti Critici», 145, 2017, pp. 399-413.

2 Così si esprime Gombrowicz nelle pagine del suo Diario poste in luogo di prefazione alla prima

edizione italiana di Kosmos: «Che cos’è un romanzo giallo? Un tentativo di organizzare il caos. Per questo il

mio Cosmo, che mi piace chiamare “un romanzo sulla formazione della realtà,” sarà una specie di racconto giallo» (cfr. Witold Gombrowicz, Cosmo [Kosmos], Milano, Feltrinelli, 1966-19672 [1965], p. 7). 3 Cfr. ivi, pp. 12-13.

le proprie azioni, in preda a raptus apparentemente gratuiti, ma a cui riescono sempre a trovare una spiegazione razionale. Le serie convergenti danno luogo ad uno scontro piuttosto che ad un incontro armonico: è un mondo in cui anche le unioni provocano dolore quanto le separazioni. La serie di fatti inspiegabili da gioco sadico si fa sempre più nera, preannunciando l’efferato epilogo in cui la morte è solo un pretesto per mostrare come il mondo altro non sia che una forzatura violenta del nulla: tramite piccoli eventi divergenti si prepara per tutto il romanzo l’epifania caotica finale, dalla quale nascerà forse un mondo nuovo, ma certamente non migliore del precedente.

L’intera narrazione si presenta come una sorta di stilizzazione e consecutiva inversione tragica dei temi leibniziani presi precedente in considerazione. Innanzitutto le percezioni dei soggetti sembrano dipendere solamente dalle loro inclinazioni interne, senza che la causa di queste possa essere individuata nel mondo esterno:

dal punto di vista formale, infatti, non c’era dubbio che le mani scattarono per via della vespa… ma chi sarà in grado di assicurarci che la vespa non fu che un pretesto per mobilitare le mani a causa della manina di lei… Un doppio senso… e questo sdoppiamento si univa forse (chi lo poteva sapere?) con lo sdoppiamento delle bocche Katasia-Lena… con lo sdoppiamento passero- bastoncino… Ero smarrito. Vagavo in periferia.1

Il problema centrale del romanzo è proprio quello di fare ordine, «cercare un’idea

che spieghi», che dia ragione del fiorire delle serie che emergono «dal fondo delle tenebre».2 Anche se l’idea rimane leibnizianamente chiaroscura, ovvero mai separabile dal mormorio dell’indifferenziato,3 la convergenza non è più garanzia di selezione: la ragione diventa individuale e la monade tende a divaricarsi sotto l’azione di forze opposte. Le consonanze, viste nella loro assurda gratuità, tendono ad avvolgere la narrazione su se stessa: scenari alternativi e controfattuali vengono presentati soltanto in virtù della loro possibilità di realizzazione e, crollato l’accordo armonico tra anime e corpi, non ci può essere più selezione. La ragion sufficiente cambia dunque significato: la somiglianza passa al dominio del condizionale (potrebbe essere), ci si illude di sapere e tanto basta. Guardandosi dentro non si ritrova Dio, ma soltanto sudiciume e isolamento,4 mentre il godere di se stessi si ripiega nell’onanismo che è fuga dal mondo, rifiuto più che immersione: «perché devi cercare la mano altrui, quando tu stesso ne hai due di mani […]».5 Il luogo dell’anima, la stanza senza finestre

1 Ivi, p. 61. 2 Cfr. ivi, p. 7.

3 Cfr. ivi, p. 205: «l’evidenza che ti colpisce ma che resta sotterrata».

4 Cfr. ivi, p. 145: «una svolta verso l’intimo, l’orrore di me stesso, la mia sporcizia, i propri delitti,

il chiudersi in sé, la condanna alla propria compagnia, oh, quel meproprismo, quel sestessismo! In sé!».

di cui parla Leibniz nella Monadologia, appare ora «basso come il solaio […], freddo»,1 un meccanismo che gode ancora di una libertà assoluta, ma la mancanza di motivazione delle nostre azioni non è rischiarata dalla luce della speranza e l’autonomia si trasforma in insensata stupidità: «Si uccide quando l’assassinio si fa facile, quando non si ha nulla di meglio da fare. Semplicemente le altre possibilità si esauriscono».2 Coerentemente al pensiero barocco, il caos non esiste, esso viene sostituito da una massa fluida di principi distinti ed inseparabili che formano una rete dalla forma complessa ma definita. Il mondo fisico, riflesso di quello dell’anima, è ugualmente instabile e confuso: non ci sono le «verità necessarie ed eterne»3 di Leibniz a rassicurare. Ogni oggetto appare col solo scopo di scomparire subito dopo in un perenne flusso, lasciando vagare l’inconscio tra gli infiniti rapporti differenziali: a rimanere è soltanto lo sfarfallio della presenza e dell’assenza avviluppate l’una nell’altra.

Come l’oggetto perde la sua forma essenziale disperdendosi in uno «sciame inesauribile»4 di funzionalità pura che dispiega una famiglia di caratteri e parametri, anche il soggetto si riduce ad una somma di singolarità, una semplice «prensione»5 che stringe alcune caratteristiche del mondo rendendole private; una volta catturate, però, le stesse prensioni perdono la loro individualità venendo inglobate in altre in una catena senza fine. I soggetti eventuali di Gombrowicz, a differenza di quelli leibniziani, sono infatti perennemente in bilico sul nulla, che non si configura come silenzio, ma come un abisso di rumore bianco:

Gli anni si scompongono in mesi, i mesi in giorni, i giorni in ore, in minuti, in secondi, e i secondi scolano via. Non li saprà mai afferrare, caro lei. Scolano via. Scappano. Che cosa sono io. Un certo numero di secondi – che sono scolati via. E il risultato: niente. Niente.6

Queste parole sono affidate a Leone, proprietario della pensione dove sono ospitati Witold e Fuks. Padre di famiglia, in apparenza un po’ folle ma innocuo, ricopre un ruolo fondamentale per la comprensione del romanzo: tutta la parte centrale è incentrata su una gita in montagna da lui organizzata assieme alla moglie, apparentemente per passare qualche ora all’aria aperta mangiando e bevendo in compagnia. Oltre ai due protagonisti, partecipano due giovani coppie di sposi ed un prete trovato sulla via. Durante una conversazione tra Witold e Leone, quest’ultimo offre una spiegazione non soltanto del suo comportamento

1 Ivi, p. 209. 2 Ivi, p. 212.

3 G. W. Leibniz, Monadologia, 29, cit., p. 457. 4 W. Gombrowicz, Cosmo, cit., p. 170

5 Il materiale lessicale qui utilizzato è ripreso da Alfred North Whitehead, Il processo e la realtà, cit.,

pp. 69-73, 557-559; cfr. anche G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, cit, p. 129.

folle, ma anche del vero motivo per cui ha voluto condurre tutti quanti in quel preciso luogo. Tutta la felicità consiste non nell’avere ciò che ami, ma nell’amare ciò che hai e per ottenere ciò basta «sapersi foderare internamente di piacerini»1 in una sorta di perenne gioco autoerotico in cui si gode del mondo nel mondo che si è creato, retto dalle regole che si è scelto di seguire. Tutta la vita è «berg» e «Ti-ri-ri»: creare principi, costruire dei e nei sogni e goderne, ma l’illusione ha perso ogni possibile universalità, i suoi frammenti non rimandano più ad una unità collettiva:2 si cade vittime dei propri sogni e con la loro materia ci si plasma una via di fuga riservata. Tutta la gita diventa un pellegrinaggio nel luogo del massimo piacere che nel mondo di Leone sia mai stato raggiunto «e ciò avveniva ventisette anni fa con quella serva, che lavorava in questo rifugio».3 La stessa eccitazione provata nel riunire tutta la famiglia per festeggiare, a loro insaputa, l’anniversario del massimo «berg» ci conferma come non sia la cosa che si osserva ad essere rilevante, ma l’atto in sé: è l’osservazione in se stessa a generare il suo oggetto. Tale stato di perenne eccitazione scorre tra i personaggi ed il mondo, traducendosi in turbamento ed incertezza:4 è proprio attraverso una vibrazione infinita ed eterna che la realtà si manifesta e le percezioni sorpassano la soglia del rimarchevole presentandosi alla coscienza. Il movimento si propaga per eccitazione e pulsione tra un corpo e l’altro, non fermandosi alla superficie, ma penetrandola, giungendo all’anima, trapassandola come se tutto fosse immerso nello stesso fluido corpuscolare avviticchiato tra le pieghe:5

Cose più diverse – cose diverse – strane distanze, curve assordanti, lo spazio imprigionato e teso, che premeva o cedeva, che si attorcigliava o arrotolava, che colpiva verso l’alto o verso il basso. L’inerzia di questo enorme movimento.6 Ogni percezione è dunque allucinatoria: non c’è nulla nel mondo che confermi o neghi le nostre percezioni, ad esistere è solo il flusso percettivo, per quanto contraddittorio esso sia. Non vi è più l’illusione barocca in cui si ritrovava l’accordo di anima e corpo, ma una chimera che sfiora il pensiero per non rimanere, per scivolare via ed essere riassorbita nel nulla indistinto:

1 Ivi, 165.

2 Cfr. supra (rimarchevole e ordinario). 3 W. Gombrowicz, Cosmo, cit., 167.

4 Cfr. W. Gombrowicz, Cosmo, cit., p. 53: «[…] osservata da più vicino ci si scorgevano dei

tremori, come per esempio il tremore della pelle alla base dell’anulare, oppure la trazione tra il terzo e il quarto dito – embrioni di movimento che si trasformavano tuttavia in un movimento reale, nel tocco della tovaglia coll’indice, nello strofinare l’unghia contro un risvolto… tutto ciò era così lontano da Lena stessa che ci vedevo un grande Stato pieno di movimenti interni, incontrollati, soggiogati probabilmente dalle leggi della statistica…»; oppure ancora p. 66: «tutto ormai vibrava, ribolliva, giungendo fino a Lena […]».

5 Cfr. supra

La folla, il gorgo, il caos… troppo, troppo, troppo, la calca, il movimento scavallare, scaraventare, la baraonda generale, giganteschi mastodonti che tutto riempivano e che in un batter d’occhio si scomponevano in migliaia di particolari, di insiemi, di massi, di chissà che, in un caos sgraziato per riunirsi di nuovo, tutti questi particolari, in una forma superba! […] anche lì nascevano delle forme – soltanto che laggiù erano particolari, mentre qui c’era la tormenta rombante della materia. Ero diventato così bravo ad interpretare la natura che mio malgrado indagavo, cercavo scrutavo, come se ci fosse realmente qualcosa da interpretare, mi appigliavo a combinazioni sempre nuove che il nostro minuscolo calesse srotolava dal seno della montagna, sobbalzando con frastuono. Macché, niente e niente. Un uccello apparve, celeste […] Questi però poggiò su un’ala, roteò, scomparve […].1

Siamo ad una svolta cruciale: se il pieno barocco tende a cedere il passo al niente, al nulla moderno, lo statuto allucinatorio non riguarda soltanto la coscienza individuale: è il mondo stesso ad essere allucinato, incoerente ed inconsistente. In altre parole, il mondo continua ad essere, come per Leibniz, espressione delle virtualità implicate nei soggetti. Il tessuto non si è lacerato, ma, al posto di offrire sicurezza e organicità, questa piega fa intravedere lo spettro del regresso infinito, la vertigine. I momenti di introspezione, in cui il soggetto dovrebbe ritrovare il mondo dentro di sé, sono vissuti con disagio, non con pace interiore, non ci si osserva come parte di un tutto organico. Ad infrangersi infatti è proprio l’idea che sia un accordo armonico ad unire corpo ed anima: il dubbio sul mondo si insinua nella monade. In un impianto leibniziano, però, l’incertezza cognitiva si tramuta in pluralità ontologica. Non possono mancare le parole, deve esistere la parola giusta ed il concetto in grado di descrivere e di occupare nella sua fluidità narrativa il posto dell’oggetto: «Quale parola? Già perché sembrava che tutto dovesse svolgersi seguendo un’idea ben determinata… Ma quale?»2 Qui è un problema di mondo ad essere esposto come un problema di

conoscenza: non è l’inconoscibilità della parola il problema, ma la mancanza di

determinazione tra più possibilità. Il giallo, genere epistemologico per eccellenza,3 viene trasformato da Gombrowicz in una sorta di cosmogonia, «un

romanzo sulla formazione della realtà»:4 le zone di incertezza dei soggetti corrispondono a quelle del mondo, come se le sensazioni e gli oggetti fossero impressionati sulla stessa pellicola il cui stato di decomposizione avanza assieme alla rappresentazione, fino a polverizzarsi.5 Lo spazio rappresentato è dominato

1 Ivi, pp. 126-127. 2 Ivi, p. 47

3 Cfr. B. McHale, Postmodernist Fiction, cit., p. 9. 4 W. Gombrowicz, Cosmo, cit., p. 7.

5 Che per Gombrowicz l’incertezza e l’incapacità di trovare un ordine logico non si limiti alla

coscienza individuale ed alla percezione della realtà mediata dai nostri sensi, ma investa anche le descrizioni del mondo che si vorrebbero oggettive – vale a dire che la realtà si presenta incoerente – è particolarmente evidente in alcuni luoghi del suo Corso di filosofia, come ad esempio:

dall’eccesso: sono troppe le serie attualizzate, troppe le possibilità che superano la soglia dell’esistenza. La storia perde significato e linearità, diventa un continuo «ammassarsi e sfaldarsi»1 di elementi eterogenei, un garbuglio in cui la sovrabbondanza delle eventualità impedisce di ricostruire un disegno comune.

Il punto di vista dei personaggi di Kosmos non è mai accesso soggettivo variabile ad una realtà esterna invariabile, ma rimane, come per Leibniz e il prospettivismo barocco, condizione oggettiva di percezione della realtà come variazione infinita. La circolazione ontologica tra mondo e rappresentazione è però alterata, la menzogna si insinua nel cuore della verità corrompendone il funzionamento valvolare: le serie uscenti dalle monadi presentano zone oscure che lacerano il pensiero sovvertendone le leggi. Si chiude così il cerchio leibniziano: le allucinazioni si innestano nel mondo reale, ma non per grazia armonica, bensì per violenza. Il dito ficcato in bocca al cadavere impiccato e poi al prete ubriaco congiunge la serie delle bocche con quella delle impiccagioni: accade ciò che è necessario accada, tutto torna, per quanto ci appaia gratuito e insensato.2 Pena e ribrezzo sono inscindibili l’uno dall’altra, caratterizzano tutti i personaggi dalla loro comparsa alla loro scomparsa.

Il caos stringe la monade sofferente, ma l’impossibilità di pensare il caos traduce l’ordine in ossessione: gli ordini possibili sono infiniti e tutti, essendo gerarchie arbitrarie ma oggettive, dipendenti dal soggetto in quanto parte integrante di un’unica realtà, presentano il medesimo grado di necessità. Così si