• Non ci sono risultati.

Capitolo 1: storiografia, contesto storico, storia dei corpi militari

1.2. Temi storiografici

1.2.2 L’impiego operativo

Questo paragrafo si dedicherà ad indagare in che modo la storiografia si sia occupata dell’impiego delle truppe coloniali per quanto riguarda i temi trattati. Le ricerche più recenti, cercando di discostarsi da una lunga tradizione di agiografia storica incentrata soprattutto sulla cronistoria delle truppe coloniali63, hanno cercato di spostare il focus sui quei temi – le dimensioni socio-economiche e culturali delle truppe, la percezione del rapporto con il dominio coloniale e vice versa, l’impatto dell’esperienza militare sulla creazione delle identità – che non avevano ricevuto la dovuta attenzione. Questo ha portato a porre spesso in secondo piano l’analisi del ruolo di queste truppe, la difesa territoriale, o nel caso italiano l’espansione coloniale.

È Killingray a rappresentare nuovamente un punto fisso in questi studi. Nell’introduzione di Guardians of Empire, l’autore ribadisce i tre ruoli principali che le truppe indigene ricoprivano durante il periodo coloniale:

“Colonial Armies had three main functions: to ensure internal security, to guard colonial frontiers and to aid the neighbouring colonies when required. These limited roles largely defined the size, deployment, armaments and training of colonial military forces, and their funding.”64

Questo atteggiamento sarebbe cambiato, secondo Killingray, nella seconda parte del primo dopoguerra, soprattutto con il peggiorare della situazione internazionale:

“In the immediate post-war years, when British forces were stretched to their limit, the idea that African troops might be used had gained a certain currency in the War Office in London. By 1928, it was accepted that British African forces would be involved in any fighting with the Italians in East Africa, overcoming the earlier reluctance to pitch African troops against modern armies.”65

Questa visione avrebbe comunque impiegato anni a concretizzarsi dal punto di vista operativo.

63 Si veda ad esempio per quanto riguarda il caso inglese, il già citato Moyse-Bartlett, The King’s African

Rifles, cit., e il più recente Malcom Page, King’s African Rifles: a History, (Barnsley, 2011)

64 Killingray e Omissi, Guardians of Empire, cit., p.10 65 Ibidem, p.11

34

L’idea del ruolo interno di sicurezza delle forze di fanteria indigena rappresenta un leitmotiv nella storiografia di Killingray, più volte ripetuto con sempre maggiore ricorso alle fonti. Nel già citato Fighting for Britain, espande ulteriormente questa analisi nel periodo fra le due guerre mondiali. Il grado di pacificazione generale delle colonie subsahariane durante tale periodo fece sì che le truppe africane avessero ruoli sempre meno militari, e sempre più simili a quelli delle pur presenti forze di polizia locale66. Un loro ruolo esterno alle colonie di origine, una loro proiezione sui vasti territori dell’Impero era teorizzata e presa in considerazione, ma mai concretizzata fino alla Seconda Guerra Mondiale, preferendo impiegare lo sterminato esercito reclutato in India. Questo poneva la politica militare perseguita dagli Inglesi in Africa in netto contrasto con quella Francese o Italiana:

“In only a very few instances was the colonial military called out to aid the civil authorities in dealing with small-scale risings, riots, strikes, communal disturbances of one kind and another, and crises (sometimes merely the product of vivid official imagination). The official intention was for African colonial forces to operate only within the colonies from which they were recruited. Neither in training, equipment nor interior economy were they suited for employment in a modern war against a European army for operations outside Africa. They were not designed to serve as Imperial troops even in the way that the French used colonial tirailleurs to supplement their European army. For Imperial purposes the British relied heavily on the Indian Army.”67

In Kaki and Blue, Clayton sostiene che le truppe nere dell’East Africa tra le due guerre avessero anche un ruolo di collegamento e presidio tecnologico, portando il controllo del governo in territori remoti attraverso la creazione di stazioni e avamposti radio, soprattutto nelle regioni settentrionali del Kenya68.

66 Il tema delle forze di polizia in ambito coloniale, distinte da quelle militari, è stato approfondito per

il contesto britannico in D.M. Anderson e D. Killingray, Policing the Empire: government, authority

and control 1830-1940, (Manchester 1991)

67 Killingray, Fighting for Britain, cit., p.27 68 Clayton e Killingray, Khaki and Blue, cit., p. 250

35

Clayton ha approfondito il ruolo delle colonie africane e delle loro truppe nel quadro della difesa imperiale in The British Empire as a Superpower 1919-193969. In questo caso non si è molto discostato dalla storiografia coeva, dedicandosi però a descrivere maggiormente in che modo le forze militari delle colonie facessero parte di un esteso, ma non uniforme, sistema di sicurezza. Riguardo all’immediato primo dopoguerra70, Clayton sottolinea la differenza che intercorreva fra le colonie britanniche occidentali e quelle orientali del continente africano: il West Africa, tendenzialmente pacificato e sicuro, e l’East Africa, caratterizzato dai timori sulla tenuta del Somaliland e dalle necessità di occupazione del Mandato del Tanganika, ex colonia tedesca.

Successivamente viene esplicato il ruolo attivo di queste truppe fra il 1919 e il 192971. Clayton pone attenzione sul ruolo ricoperto dalla truppe coloniali nella repressione del dissenso e nel mantenimento dell’ordine: dal 1924 in poi, la neonata S.D.F. fu impiegata per contenere le turbolente popolazioni del Sudan Meridionale, mentre il S.C.C. nel biennio 1919-1920 fu diretto a schiacciare gli ultimi focolai dell’insurrezione del “Mad Mullah” in Somaliland. In entrambi i casi però l’autore sottolinea il ruolo di subordinazione che entrambi i corpi ebbero nei confronti della Royal Air Force (R.A.F.), il cui compito repressivo fu fortemente favorito. I K.A.R. affiancarono anche le forze di polizia del Kenya nel contenimento di una serie di turbolenze etniche. Infine Clayton descrive brevemente72 la trasformazione delle forze coloniali africane in forze di difesa dinamica e di attacco, in seguito all’invasione italiana dell’Etiopia e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

L’interpretazione che Killingray e Clayton hanno dato nelle loro ricerche sul ruolo delle truppe coloniali è data ormai per consolidata, anche se Ashley Jackson in Distant

Drums: the role of colonies in British Imperial Warfare73, pur riprendendo quasi integralmente la divisione tripartita dei ruoli di queste truppe, ne sottolinea maggiormente il coinvolgimento e la proiezione fuori dai territori di origine:

69 Anthony Clayton, The British Empire as a Superpower, 1919-1939, (Londra, 1986) 70 Ibidem, pp. 41-43

71 Ibidem, pp. 216-227 72 Ibidem, pp. 317-320

36

“In extending its writ around the world, the British Army made extensive and effective use of these locally-recruited formations. They performed three functions: overseeing a colony’s internal security; helping secure it from external threats by forming coastal artillery units or infantry companies to defend strategic points should an attack ever come; and providing units for service overseas during periods of imperial warfare.”74

Tornando invece alla S.D.F., Muhammad ha delineato un ruolo interno e uno esterno per gli impieghi operativi delle truppe sudanesi. Nel primo caso, nuovamente troviamo la sicurezza interna e il mantenimento dell’ordine tribale:

“There were three levels in the colonial security system. First, the administration collected intelligence about what local people were planning to do. Secondly, each colonial district administrator had a local force to mobilize in time of trouble. Thirdly, if there were a serious emergency, a special force would be necessary. These three levels were common to both British and French colonial systems.”75

In questo modo la S.D.F. poteva intervenire velocemente e drasticamente ad ogni avvisaglia di sollevazione tribale, per quanto limitata o isolata che fosse. L’autore prende poi a descrivere una serie di operazioni svoltasi negli anni immediatamente successivi alla creazione della S.D.F. che ne confermarono il ruolo di forza di repressione e sicurezza interne. Successivamente76 viene riportato il ruolo giocato dalla S.D.F. vero l’esterno del Sudan, con la risposta all’aggressione italiana del 1940 che vide le truppe sudanesi invadere la parte settentrionale dell’A.O.I.

La storiografia riguardo l’impiego delle truppe coloniali italiane continua a presentare tutta una serie di mancanze, principalmente perché ci si è concentrati su colmare le lacune più evidenti, ovvero sullo scrivere le storie dei vari reparti coloniali. Lo studio delle dottrine del loro impiego deve essere quindi estratto dalle righe degli approfondimenti storici che abbiamo già citato, nella narrazione degli eventi che li videro coinvolti.

74 Ibidem, p. 25

75 Muhammad, Sudan Defence Force, cit., pp. 63-64 76 Ibidem, pp. 80-96

37

Scardigli descrive l’impiego delle truppe indigene durante il primo periodo coloniale italiano sullo sfondo della conquista dell’Eritrea, senza fare una delineata teorizzazione del loro impiego. Questo avviene per esempio nel capitolo 277, dove la descrizione dell’evoluzione da truppe irregolari a regolari degli ascari procede di pari passo alla narrazione degli eventi relativi al consolidamento del dominio italiano. In seguito, viene dato spazio al ruolo che queste truppe ricoprirono, dopo la battaglia di Adua, nel mantenimento dell’ordine in Eritrea, combattendo il banditismo e le incursioni di oltre confine, ma anche la loro proiezione sulla Somalia per rinforzare la difesa della colonia. Più approfonditamente, Scardigli dedica invece il capitolo 378 alla questione delle bande irregolari, un elemento di originalità del dispositivo coloniale italiano. Viene data una grande importanza al ruolo che le bande di irregolari rivestirono come supporto dei battaglioni di ascari. Questa politica è descritta anche come un modo per accattivarsi il supporto dei potentati locali e di risparmiare sul controllo militare del territorio, giocando sull’autonomia delle bande e sulla fluidità della loro fedeltà.

Volterra approfondisce solo in parte il ruolo operativo degli ascari, soprattutto per quanto riguarda il loro impiego nelle operazioni di repressione della resistenza etiopica dopo il maggio 1936, quando le truppe metropolitane impiegate nella conquista iniziarono la smobilitazione. Gli ascari vennero impiegati come una forza duttile e agile da sparpagliare sul territorio da sottomettere definitivamente:

“Si tratta di un’estenuante sequenza di marce e contromarce, scontri, inseguimenti e sganciamenti, assedi e imboscate. L’impiego tattico dei battaglioni torna, in qualche misura quello che era sempre stato: piccole unità veloci negli spostamenti e capaci di mettere in crisi molti dei focolai di resistenza etiopica.”79

Volterra corrobora la descrizione degli ascari nelle operazioni di polizia coloniale con le interviste ai reduci eritrei, che confermano la durezza e la difficoltà delle operazioni contro i partigiani etiopici.

77 Scardigli, Il Braccio Indigeno, cit., pp. 32-59 78 Ibidem, pp. 60-72

38

Nel libro di Zaccaria invece il ruolo delle truppe ascari in Libia nel 1912 viene esplicato come duplice, non rispondente solamente a questioni di carattere tattico. Riguardo a queste le truppe eritree erano viste come un sistema per colmare il divario che esisteva fra le truppe metropolitane, superiori tecnologicamente e tatticamente ma non adatte all’ambiente desertico, e i ribelli libici, eccellenti guerriglieri e conoscitori del territorio. Gli ascari erano ritenuti più a loro agio degli Italiani nelle aride distese libiche, e più inclini a manovre tattiche agili e dinamiche. Allo stesso tempo però Zaccaria sostiene, tramite il ricorso alle fonti giornalistiche e memorialistiche del tempo, che le truppe ascari svolgessero un ruolo propagandistico e di guerra psicologica:

“La loro vista era in grado di colpire sia i soldati dell’esercito italiano che la popolazione libica. I primi scorgevano in questa avanguardia le tracce evidenti di «un’Italia, sarei per dire più grande, dell’Italia, padrona ormai di antichi domini d’oltre mare». La popolazione libica, invece, avrebbe colto in questa presenza la dimostrazione della grandezza dell’Italia [...].”80

L’autore prosegue descrivendo alcune operazioni portate avanti dal V battaglione eritreo nel deserto della Libia, confermando l’impiego come forza mobile, capace di coprire grandi distanza in poco tempo anche in difficili condizioni atmosferiche. Non possiamo infine non citare Popolazioni, eserciti africani e truppe indigene nella

dottrina italiana della guerra coloniale81 di Luigi Goglia. In questo articolo l’autore ha proposto un’approfondita carrellata delle opere di manualistica coloniale italiana dedicate alla strategia d’impiego delle truppe africane. Facendo uso soprattutto – ma non solo – di fonti edite, Goglia ha proposto un’analisi delle strategie militari impiegati dagli italiani nelle colonie, allo stesso tempo evidenziando come queste venissero influenzate e modellate dai pregiudizi e dal razzismo degli italiani nei confronti degli africani, fossero essi sudditi coloniali o nemici.

80Zaccaria, Anch’io per la tua bandiera, cit., pp. 52-53

81 Luigi Goglia, Popolazioni, eserciti africani e truppe indigene nella dottrina italiana della guerra

39