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Capitolo 1: storiografia, contesto storico, storia dei corpi militari

1.2. Temi storiografici

1.2.1 Martial Races e reclutamento etnico

Il tema della composizione etnica delle truppe coloniali è stato largamente esplorato dalla storiografia inglese, con una particolare attenzione alle modalità in cui il reclutamento ha influenzato il pattern etnico delle colonie al momento della loro indipendenza.

Dobbiamo tener presente che buona parte di tale storiografia ha dedicato un’attenzione limitata al periodo interbellico trattato da questa ricerca, e che ci si è concentrati principalmente sul periodo della conquista o sulle due guerre mondiali.

Anthony Kirk-Green in un articolo del 1980, “Damnosa Hereditas”: ethnic ranking

and the martial races imperative in Africa33, ha tracciato il collegamento fra la nascita della teoria delle martial races in India dopo il Great Mutiny del 1857 e la sua applicazione nei possedimenti coloniali britannici in Africa. L’autore, seguendo una prospettiva comparativa, ha sostenuto come questa tendenza fosse poi sopravvissuta come eredità nelle ex-colonie ormai indipendenti, offrendo dati statistici a riprova delle sue affermazioni34. All’origine delle preferenze coloniali intorno alle etnie da reclutare, permanevano questioni di lealtà e docilità, più che di effettive abilità guerresche, e un nemico feroce poteva diventare un soldato affezionato agli occhi dei colonizzatori, una volta sottomesso35. L’occhio e la mentalità coloniali contribuivano poi a riformulare la visione in chiave marziale.

Un approccio simile, costruttivista e comparativo, è quello di Subhasish Ray, che nel 2012, con The Nonmartial origins of the “Martial Races”: ethnicity and military

33 Anthony H.M. Kirk-Green, “Damnosa Hereditas”: ethnic ranking and the martial races imperative in

Africa, in Ethnic and Racial Studies, vol.3, no.4, Ottobre 1980, pp. 393-414

34 Ibidem, p. 402 35 Ibidem, pp. 406-407

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service in ex-British colonies36 ha ripreso l’idea di analizzare nello specifico i numeri dei reclutamenti su base etnica, comparando 181 gruppi etnici sparsi su 29 ex-colonie britanniche. Obiettivo dello studio è stato capire se le martial races fossero un effettivo prodotto coloniale o se poggiassero su realtà effettive preesistenti, osservando la presenza di determinati gruppi etnici nelle forze militari e di polizia. L’autore ha posto quattro categorie dei gruppi etnici come caratteristiche per identificare la loro presenza nel sistema di difesa coloniale, e quindi la presunta marzialità: distanza dai centri coloniali, passato di schiavitù intensiva, presenza di sistemi statali pre-coloniali, resistenza alla conquista. Applicando una serie di operatori matematici e variabili, quali l’urbanizzazione e i conflitti sostenuti, i risultati indicano che siano state le popolazioni prive di passate organizzazioni statali e che hanno offerto minore resistenza alla conquista ad essere annoverate fra le martial races37.

David Killingray, lo storico che più di tutti si è dedicato al ruolo delle truppe coloniali africane all’interno della macchina da guerra britannica, ha trattato il reclutamento etnico non solo dal punto di vista statistico, ma cercando di calarne l’analisi nelle dinamiche socio-economiche. In Fighting for Britain: African Soldiers in the Second

World War38, dedicato al contributo dei soldati africani durante la Seconda Guerra mondiale, l’autore ha descritto anche la situazione del reclutamento negli anni precedenti alla guerra. Nel capitolo 239, riguardo ai gruppi etnici preferiti dai reclutatori, Killingray aderisce all’idea che fossero quelli più periferici ed economicamente svantaggiati ad assurgere al “titolo” di martial races, anche nel caso in cui non fossero effettivamente dotati di un passato particolarmente bellicoso:

“The best source was men from societies untouched by modern ideas of government or commerce, nonliterates who would provide a clean slate upon which could be written new military code of discipline.”40

36 Subhasish Ray, The Nonmartial Origins of the “Martial Races”: ethnicity and military service in ex-

British colonies, in Armed Forces and Society, vol.39, N. 3, 2013

37 Ibidem, p.572

38 Killingray, Fighting for Britain, cit. 39 Ibidem, pp.35-81

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Killingray procede inoltre a sottolineare la differenza tra il periodo interbellico, dove dominava un sistema di reclutamento volontario, e l’emergenza della guerra come spinta verso l’adozione di forme di coscrizione o di quote di reclute imposte ai capi locali, per ovviare allo scarso interesse di molti africani per la vita sotto le armi. Killingray ha inoltre collaborato con Anthony Clayton nel 1989 per la stesura di Khaki

and Blue: Military and Police in British Colonial Africa41, un approccio al tema dei soldati e dei poliziotti africani attraverso i documenti dell’Oxford Development Records Project. Seppur fortemente incentrata sulla corrispondenza e le memorie degli ufficiali coloniali inglesi, nell’opera i due autori affrontano il tema delle martial races, sostenendo anche essi la centralità del reclutamento di entità periferiche, come nelle colonie del West Africa42 o riportando la preferenza per taluni gruppi in Uganda, forse la realtà coloniale più eterogenea dal punto di vista etnico43.

Muovendoci su approcci più specifici, il reclutamento e le sue caratteristiche etniche ed economiche nei K.A.R. sono stati investigati approfonditamente nel già citato The

African Rank-and-File: social implication of colonial military service in the King’s African Rifles, 1902-196444 di Timothy H. Parsons. Questi ha utilizzato vaste raccolte di documenti archivistici riguardanti i K.A.R., specialmente quelli conservati dai Kenyan National Archives di Nairobi. Parsons dedica il capitolo 345 – Recruiting and

the Doctrine of the “Martial Race” - al tema sopracitato e sostiene che l’applicazione del modello delle martial races fosse un sistema con cui le autorità britanniche influenzavano e allo stesso tempo valutavano l’accettazione del dominio coloniale da parte delle popolazioni locali:

“The King’s African Rifles, therefore, divided East African ethnic groups into two categories: martial and non-martial. Most accounts of the colonial army tend to accept these recruiting categories as a constant unit of analysis, but in reality, individuals, not «tribes», enlisted in the K.A.R. Nevertheless, martial stereotypes are a useful index

41 Anthony Clayton e David Killingray, Khaki and Blue: Military and Police in British Colonial Africa,

per la serie Monographs in International Studies, Africa Series, no. 51 (Athens, 1989)

42 Ibidem, p. 175 43 Ibidem, pp. 224-225

44 Parsons, The African Rank-and-File, cit. 45 Ibidem, pp.53-102.

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of the changing political economy of recruitment. Although portrayed by British Officers as an innate cultural attribute, in reality martial race signified an acceptance of military discipline”46

Parsons ha descritto come la stessa dimensione economica del reclutamento rendesse poco appetibile entrare nei K.A.R. a quei gruppi etnici che erano dotati di migliori mezzi economici o una migliore istruzione; di converso, gruppi economicamente esautorati dall’attività coloniale guardavano al reclutamento come una valida alternativa, oltre che a una fonte di prestigio personale. Ha poi analizzato i cambiamenti intercorsi nel sistema di reclutamento durante il periodo di esistenza dei K.A.R non solo dal punto di vista del suo funzionamento – volontario, coscrizione o inizialmente con il recupero di ex-schiavi – ma anche attraverso lo spostamento dei confini delle martial races in base alla necessita di truppe fresche, ben evidente durante l’ultima guerra mondiale. Inoltre le contrazioni economiche dei periodi di pace facevano variare fortemente il numero di volontari, dietro le pressioni che i datori di lavoro europei facevano sugli ufficiali locali47.

Un approccio simile è portato avanti da Risto Marjomaa in The Martial Spirits: Yao

soldiers in British service48, diretto a indagare l’ascesa marziale degli Yao del Nyasaland.

Marjomaa fa riferimento al volume di Parsons, criticandone però l’approccio eccessivamente centrato cronologicamente sulla Seconda Guerra Mondiale e geograficamente su Kenya e Uganda, che lasciano i K.A.R. del Malawi in secondo piano. L’autore preferisce concentrarsi sugli ultimi decenni del XIX secolo e sul periodo interbellico, e inoltre si discosta soprattutto nel puntualizzare le origini dell’ascesa marziale degli yao. Se il fattore, comune ad altri gruppi, dell’impoverimento a seguito della sottomissione è presente, viene sottolineata l’importanza della vicinanza geografica degli yao al centro di reclutamento di Zomba, ma soprattutto il loro passato di guerrieri versati nelle armi da fuoco e negli scontri tribali. Questo pone Marjomaa in opposizione con il resto della storiografia, che come

46 Ibidem, p.53 47 Ibidem, p.67

48 Risto Marjomaa, The Martial Spirit: Yao Soldiers in British service in Nyasaland (Malawi), 1895-

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abbiamo visto tende a ritenere il passato guerresco una caratteristica trascurabile, non influente o un sopravvalutato artefatto coloniale.

Come abbiamo visto, l’attenzione della storiografia per le dinamiche etno-religiose determinanti le politiche di reclutamento dei K.A.R. è stata notevole e ha visto importanti contributi. Lo stesso non può essere detto per quanto riguarda la S.D.F., che in generale è stata alquanto trascurata dalla ricerca. Nel suo Sudan Defence Force:

origin and role: 1925-195549, Ahmad al-‘Awad Muhammad, dedica uno spazio limitato50 alla questione del reclutamento. L’autore segue l’allora divisione amministrativa del Sudan – eastern, northern, central, western e southern areas – per delineare come le politiche di reclutamento nella S.D.F. seguissero criteri etno- geografici. Viene mostrato infatti che oltre alla preferenza per gruppi economicamente marginalizzati, si cercasse di reclutare da quelle popolazioni con una componente araba meno marcata, e dove possibile, da popolazioni pagane.

La questione è stata esplorata in un caso specifico da Kamal O. Salih in British

Colonial Military Recruitment Policy in the Southern Kordofan Region of Sudan51, dove il soggetto della ricerca è la cosiddetta “Nuba Policy”: questa era un tentativo di reclutare per la S.D.F. dalle popolazioni Nuba del Kordofan, Meridionale, nere e animiste, evitando la loro “contaminazione” da parte della componente araba e musulmana del resto del paese. Alcuni soldati Nuba erano stati coinvolti nella ribellione del 1924 e secondo le autorità britanniche l’influsso della propaganda egiziana e della religione musulmana erano stati centrali. Salih rileva come questa politica spingesse a creare battaglioni uniformi, a segregare geograficamente i reparti e a non stanziare i soldati Nuba fuori dal territorio a loro riservato.

Muovendoci infine nel contesto della storiografia italiana, dobbiamo constatare come il tema della componente etnica del reclutamento delle truppe coloniali italiane non sia stata altrettanto esplorato.

Il già citato Scardigli, uno dei primi a proporre una ricerca scientificamente accurata sull’origine delle truppe coloniali Eritree, indugia principalmente sull’impreparazione

49 Ahmad al-‘Awad Muhammad, Sudan Defence Force: origin and role: 1925-1955, (Khartoum,198 ) 50 Ibidem, pp. 53-58

51 Kamal O. Salih in British Colonial Military Recruitment Policy in the Southern Kordofan Region of

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delle prime missioni coloniali italiane difronte all’idea di reclutare truppe indigene africane52. Non solo, Scardigli sottolinea come nella creazione del primo nucleo di truppe coloniali in Eritrea, gli Italiani si affidassero al modello preesistente, utilizzato dagli Egiziani, dei basci-buzuk, truppe irregolari il cui profilo etnico e sociale era alquanto variabile ed eterogeneo. Trattando l’arrivo del Generale Baldissera in Eritrea nel 1888 e la sua riorganizzazione delle truppe, l’autore evidenzia per la prima volta in modo chiaro quali fossero le preferenze italiane nei riguardi delle truppe da arruolare:

“La relazione di Baldissera indicava le «razze» da preferire per gli arruolamenti: Assaortini e Sudanesi innanzitutto, ma senza escludere gli Abissini, i Danakili e i «molli» Habab che, nonostante le scarse virtù belliche attribuitegli, potevano ugualmente ben figurare come guide ed interpreti. Gli arruolati dovevano essere riuniti in buluk omogenei per provenienza ma i buluk devono poi essere assortiti nelle unità più grandi per evitare «grossi nuclei di elementi uguali» esorcizzando il timore di costruire unità omogenee che avrebbero potuto rivoltarsi contro gli italiani.”53

Il governo italiano avrebbe poi promosso missioni di reclutamento fra i danakili e i sudanesi fuori dalla colonia, ritenuti appunto dotati di grandi virtù marziali. Inoltre, secondo Scardigli, era rilevante nella mentalità degli ufficiali italiani la scarsa fiducia nella fedeltà dell’elemento indigeno locale e la propensione a evitare il reclutamento di elementi di origine tigrina. Escluso queste parti, Scardigli non ha approfondito ulteriormente la questione del reclutamento etnico, preferendo dedicarsi invece alle questioni amministrative e organizzative.

Alessandro Volterra in Sudditi Coloniali offre un’analisi più approfondita della questione, pur testimoniando quanto la documentazione archivistica non sempre si mostri completa o esaustiva. Nel capitolo 354 viene trattata l’evoluzione degli ascari eritrei da forza volontaria a esercito di massa, dal loro impiego nelle operazioni di polizia coloniale in Libia, alla preparazione della guerra d’Etiopia. L’autore sottolinea come durante i primi anni venti fosse cresciuto il ricorso a battaglioni misti, ovvero

52 Scardigli, Il Braccio Indigeno, cit. pp. 10-11 53 Ibidem, p. 42

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formati da una componente eritrea e una d’oltre confine proveniente dall’Etiopia. Questa tendenza portava un gran numero di elementi alieni alla colonia ad essere addestrati e a servire sotto insegne italiane, suscitando però molti dubbi sulla positività di questa politica. Incrociando le relazioni annuali e i promemoria governativi, Volterra fa emergere come in alcuni casi i battaglioni misti di fatto fossero effettivamente battaglioni abissini, riportando casi in cui il rapporto fra eritrei e truppe di oltre confine era di 1 a 755.

La questione viene ulteriormente approfondita nel capitolo 4 al paragrafo La

composizione dei reparti indigeni56. Qui Volterra ribadisce la scarsità di informazioni dettagliate per il periodo in esame riguardo alla composizione etno-religiosa dei reparti eritrei, e afferma che è possibile avere numeri precisi solo riguardo alla provenienza dai vari commissariati eritrei, e solo per i primi anni venti. Dove la documentazione archivistica è lacunosa, l’autore cerca di integrarla con le interviste fatte ai reduci ascari, uno degli elementi portanti della sua ricerca. Viene inoltre messo in risalto come per alcune armi specifiche, nella fattispecie l’artiglieria, si preferisse reclutare soldati musulmani. Questo denotava non solo il proseguire di una tendenza che aveva visto nei sudanesi, e di converso in tutti i musulmani, delle truppe più adatte ai ruoli specialistici, ma anche una crescente sfiducia verso le popolazione cristiane dell’altopiano eritreo, ritenute troppo affini agli etiopici. Infine, utilizzando principalmente le interviste, Volterra offre alcuni elementi circa le campagne di arruolamento portate avanti in Etiopia dopo la conquista, offrendo anche un giudizio circa l’evoluzione storica del senso di appartenenza alla comunità eritrea:

“Sembrerebbe che il servire sotto le armi abbia influito nella formazione di un’idea di appartenenza nazionale che, in qualche misura, prescinde dal gruppo etnico di provenienza o dalla religione professata. L’essere eritreo – e non solo perché suddito della Colonia Eritrea –è l’elemento di differenziazione con amhara, tigrini, somali ecc.”57

L’altra importante monografia riguardante gli ascari eritrei, Anch’io per la tua

bandiera58, di Massimo Zaccaria, non si sofferma tanto sulla questione del

55 Ibidem, pp. 48-49 56 Ibidem, pp. 155-165 57 Ibidem, p. 164

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reclutamento di certi gruppi o il rifiuto di altri per l’impiego eritreo durante la Guerra di Libia, quanto sulla creazione nell’immaginario italiano dell’epoca del mito degli ascari eritrei, quasi a prefigurare una versione nostrana di una martial race. Viene data una grande importanza alle modalità impiegate dalla stampa e dalla propaganda italiane del periodo nel cementare l’idea di una grandezza marziale insita negli ascari eritrei insieme a un forte senso di fedeltà. Di converso l’autore sostiene quanto l’entusiasmo mostrato dagli eritrei nei confronti del reclutamento fosse da rintracciare nei vantaggi materiali che esso offriva più che nel senso di fedeltà e affezione59.

Dal punto di vista economico e demografico, un contributo sul reclutamento degli ascari può essere trovato in Italian Colonialism in Eritrea, 1882-1941: Policies, Praxis

and Impact60di Tekeste Negash. Seppur dedicando uno spazio minimo alla questione del reclutamento degli ascari e non addentrandosi nella questione della provenienza delle truppe, Negash si è concentrato maggiormente sui pesanti costi demografici ed economici del reclutamento61, sostenendo come abbiano provocato dalla guerra d’Etiopia in poi un collasso dell’economia di sussistenza in Eritrea.

Infine riteniamo doveroso citare l’articolo di Stephen C. Bruner, At Least So Long As

We Are Talking About Marching, the Inferior Is Not the Black, It’s the White62, di Stephen C. Bruner, riguarda il dibattito, sorto durante la prima espansione coloniale in Eritrea, circa l’utilizzo di truppe indigene in sostituzione di quelle italiane. Qui l’autore si dedica principalmente ad analizzare due fronti opposti: coloro che sostenevano la necessita indiscutibile di utilizzare truppe indigene per ridurre drasticamente i costi della conquista, e coloro che ritenevano tali truppe non degne di fiducia e prive di effettive qualità belliche. La “vittoria” del primo fronte non eliminava comunque tutta una serie di criticità legate all’idea del prestigio dei militari italiani e al suo danneggiamento risultante dall’interazione con soldati ritenuti umanamente inferiori.

59 Ibidem., pp. 72-75

60 Tekeste Negash, Italian Colonialism in Eritrea, 1882-1941: Policies, Praxis and Impact, (Uppsala,

1987)

61 Ibidem, pp. 48-51

62 Stephen C Bruner., ‘At Least So Long As We Are Talking About Marching, the Inferior Is Not the

Black, It’s the White’: Italian Debate over the Use of Indigenous Troops in the Scramble for Africa,

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