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PARTE II. IL TREVIGIANO NELL’ETÀ MODERNA.

Capitolo 2. La fiscalità sotto il dominio veneziano.

2.2. Imposte dirette e indirette I Beni Comunali.

Abbiamo già visto che le tasse erano di due tipi: dirette (le gravezze, di carattere straordinario, soggette a variazioni, che colpivano capitali, beni, redditi) o indirette (i dazi e le gabelle, che gravavano sui prodotti commerciali e i generi di prima necessità); durante la sua dominazione, Venezia ne ha istituite alcune e modificate altre, a seconda delle necessità che la contingenza storica richiedeva. Ad esempio, nel 1463 era stata istituita la

decima98 insieme al catastico descrittivo dei beni imponibili; nel 1480 la dadia delle lance o colta ducale, ripartita in carati tra i corpi locali99, e soppressa durante il XVI secolo in quanto rendeva poco: gli introiti arrivavano infatti sempre in ritardo e l’esazione esigeva

97 I. CACCIAVILLANI, Lo Stato da Terra della Serenissima, Think ADV Edizioni, Padova, 2007, p. 236. 98 Cui riusciva a sfuggire la maggior parte del clero: Venezia quindi si appellava alle comunità locali, che

tentavano di portare avanti una politica giurisdizionalista contro tali immunità: in questo modo poteva sperare di ricavare il suo utile senza entrare in conflitto con la Santa Sede. Ma sarebbe «un errore separare nettamente il mondo ecclesiastico (...) dall’ambito secolare. (...) numerose famiglie tra le più illustri del patriziato lagunare avevano cospicui interessi nell’apparato ecclesiastico: rendite, benefici, commende (...). Si trattava altresì di famiglie influenti all’interno degli organi politici veneziani», ha detto L. PEZZOLO,

Op. Cit., p. 258.

99 Gli ecclesiastici però hanno lottato contro l’imposizione di questa tassa, e hanno avuto la meglio: «la

delibera del Pregadi costituì un grave scacco per i cittadini trevigiani. Non tanto per il limitato aggravio del loro carato, quanto piuttosto per una questione di principio: il potere centrale aveva infatti dato torto alla classe dirigente locale in quella che sembrava (...) una pretesa abbastanza giustificata, e cioè far pagare il clero proporzionalmente alle sue entrate. Anche perché quasi tutti i benefici più lucrosi della diocesi erano in mano a ecclesiastici veneziani e non a chierici locali e quindi la riduzione della quota non andava a beneficio di famiglie dell’aristocrazia trevigiana», G. DEL TORRE, Il Trevigiano..., Op. Cit., p. 109. Tuttavia, già nel 1548 il clero era tornato ad avere gli stessi oneri della maggior parte dei contribuenti. Segnalo che in Venezia e la Terraferma..., Op. Cit., fa risalire l’istituzione della dadia al 1417.

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un grande dispendio di energie, sproporzionato all’utile ricavato. Essa perciò non poteva più costituire la base dell’imposizione diretta dello Stato da Terra ed era più conveniente utilizzarla per rastrellare grosse somme in contante, necessarie a soddisfare il crescente bisogno di denaro100.

Nel 1499 il boccatico era stato sostituito dalla tansa, un’imposta globale ripartita secondo la rendita famigliare (sospesa nel 1548, e a metà del XVII secolo divenuta alternativa alla decima e al campatico); nel 1501/1617 si riscuoteva il campatico, gravezza commisurata al reddito agrario, che non ha avuto però risultati apprezzabili; nel 1517 era il turno della tassa sulle genti d’arme, per alleviare i distrettuali del peso di doversi occupare dei soldati di stanza; mentre nel 1529 è stato istituito il sussidio, in progressiva sostituzione della dadia, anch’esso ripartito in carati con l’intenzione di uniformare le varie tipologie di contribuenti: si trattava della prima tassa atta a colpire i beni immobili di tutta la Terraferma, senza i privilegi che avevano contraddistinto la dadia. Con il sussidio l’intellighenzia veneziana si è, insomma, imposta nuovamente sui sudditi dello Stato da Terra, e ha messo in atto un’innovazione notevole nel fisco, della quale aveva gettato le basi dopo Cambrai. Proponendola all’inizio come una tassa straordinaria, Venezia è riuscita a farla gradualmente accettare e a domandare il tributo anno dopo anno, fino a renderla a tutti gli effetti una tassa “ordinaria”.

La Serenissima aveva infine adattato il suo sistema fiscale da regime signorile alle esigenze del nuovo e più vasto e variegato stato regionale. In tutti questi interventi era possibile comunque rintracciare un tema ricorrente, ossia che a scapito dei particolarismi nei diversi settori politici, istituzionali ed economici, era possibile ravvisare uno sforzo per «allargare la base dei contribuenti istituendo imposte su un principio giuridico che si svincolasse dalla tradizione medievale, che riconosceva l’esistenza di immunità e deroghe»101: di fatto, però, tale allargamento si rendeva indispensabile proprio perché

continuavano ad essere applicate deroghe alla tassazione, come nel caso degli aristocratici veneziani che si stabilivano in Terraferma, e del clero: ne risultava un circolo vizioso, caratterizzato da disparità tra i possidenti veneziani e i sudditi, e da un

accumulo di arretrati d’imposta a carico delle comunità, malumori e tensioni: era una situazione che i governanti veneziani tentarono di fronteggiare con il sistema della “bonificazione”. Si defalcava cioè dal debito

100 Ivi, p. 56.

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arretrato la quota corrispondente alla porzione dei beni passati a fuochi veneti102.

Dal XV secolo, infatti, si era intensificato il passaggio di possessioni fondiarie dai sudditi ai veneziani, quindi diminuiva sempre più la capacità contributiva trevigiana, in quanto i nuovi acquirenti rivendicavano titoli di esenzione, e pretendevano di essere esclusi dagli estimi; tra l’altro, essi erano già esclusi dalle imposte dirette. Tuttavia, un mezzo per ottenere delle quote dai nobili la Dominante l’aveva: aveva stabilito che ogni patrizio veneziano candidato a ricoprire una carica pubblica dovesse offrire una somma di denaro in prestito alla Signoria. Per questo motivo si può dire che siano stati i dazi a sostenere la crescita dello Stato: come ha fatto notare L. Pezzolo, nel periodo compreso tra il 1550 ed il 1610 (tra la ripresa post Cambrai e la guerra di Candia), le rendite statali avevano conosciuto un aumento, ma il gettito fiscale era rimasto invariato. E da ciò si può facilmente desumere come il campo della politica estera influenzasse l’andamento delle entrate nella spesa statale (in particolare quella rivolta alla difesa103) e la stessa politica fiscale: questi erano gli indicatori dello sviluppo statale. Erano invece sempre esistite, per la gente comune, le angarie, o fazioni, ossia le prestazioni personali di lavoro nelle opere infrastrutturali (importanti a Treviso per gli interventi alle mura e per la manutenzione della rete idrica e stradale), per poter essere sollevati da parte del carico fiscale:

i cespiti più colpiti, anche perché di più facile accertamento, erano sempre le attività “agricole”. Obbligati al pagamento delle gravezze erano i soggetti da reddito. Al di sotto [...] esisteva la categoria più vasta di soggetti da lavoro, capaci soltanto di lavorare sotto paròn [...]. Poiché il carico tributario si suddivideva in imposte da pagare in denaro, le gravezze, e in prestazioni lavorative, le angherie, i soggetti da reddito pagavano le prime e tentavano di scaricare le seconde sui soggetti da lavoro104.

Le cernide, o ordinanze di archibugieri, la leva volontaria che costituiva la milizia territoriale veneziana, sono state riportate in auge durante Cambrai, più per necessità

102 Ivi, p. 217.

103 Ad esempio, «la grandiosa opera di fortificazione (...) – iniziata (...) all’indomani delle prime guerre

d’Italia – fu sostenuta (...) da massicci contributi dei contadi con la fornitura di manodopera (...). Le stesse gigantesche opere di bonifica e di sistemazione del territorio» erano portate avanti dai sudditi della Terraferma, ha affermato L. PEZZOLO, Op. Cit., p. 241.

104 I. CACCIAVILLANI, La milizia territoriale..., Op. Cit., p. 88. Oltre a questo, «sui contadini grava oltre

il peso fiscale, l’obbligo di lavorare per la costruzione delle mura di Treviso, di mantenere e garantire l’efficienza delle strade, di provvedere agli argini dei fiumi, di condurre i roveri, mentre spesso essi sono oggetto di sfruttamento da parte dei proprietari e subiscono estorsioni e frodi ad opera dei medesimi esattori», Relazioni dei rettori..., Op. Cit., p. XXXIX.

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dettate dalle circostanze che per un piano preciso: la nascita “ufficiale” di tale milizia al principio del XVI secolo come possibile integrazione dell’esercito «va attribuita in ugual misura alle necessità difensive “dietro le linee” e alle preoccupazioni di bilancio, nello sforzo di alleggerire all’erario il peso degli stipendi dei soldati»105. Un discorso a parte meriterebbe invece la gestione della terra, che nel 1646 aveva cominciato ad essere venduta in maniera massiccia per quanto riguarda i Beni Comunali106, vista la penuria di liquidità in cui versava lo Stato a causa delle ultime guerre. È da questo momento, ha sostenuto I. Cacciavillani, che ha iniziato a formarsi la piccola proprietà diretto- coltivatrice, che pian piano sostituiva le grandi casate, ma che favoriva un’ulteriore penetrazione fondiaria veneziana. I Beni Comunali, di cui l’entroterra era ricca, erano estensioni di terreno esenti da oneri fiscali ed adibite a pascolo, bosco, e simili: potevano essere liberamente utilizzate dalla popolazione (tranne che per l’agricoltura) ed erano inalienabili. Ha affermato M. Pitteri che tali Beni «vanno distinti da altre forme di gestione collettiva della terra», e che già nel 1495 i Dieci avevano ribadito il

dominio dell’erario sui beni comunali per impedirne la vendita da parte delle singole ville oberate dai debiti, arrogando solo allo stato il diritto di alienarli, diritto che verrà esercitato nei momenti di grave crisi finanziaria. I beni comuni erano invece detenuti dalle singole comunità di villaggio e come tali assimilabili alle altre proprietà soggette (private) al pagamento delle pubbliche gravezze107.

G. Ferrari ha suddiviso la legislazione in merito in tre periodi: dal 1461 al 1644 i sudditi hanno lottato contro il governo perché non incamerasse e vendesse le terre di cui avevano bisogno per il loro primario sostentamento (dal 1490 comunque i comuni non avevano più alcuna facoltà sulla loro gestione); dal 1645 al 1683 si sono imposte, dopo la catasticazione, le alienazioni, per fronteggiare le difficoltà economiche dovute alla guerra di Candia e Morea (alienazioni che in realtà avvenivano già dal periodo post Cambrai: ne avevano approfittato i veneziani per espandersi); mentre dal 1684 al 1797 si

105 I. CACCIAVILLANI, Op. Cit., p. 19.

106 I Beni Comunali erano dati in usufrutto alle comunità, ed erano diversi in linea di diritto ma non di fatto

dai Beni Comuni, che invece appartenevano alle comunità. A differenza di questi, i primi sono stati venduti ai privati. Si vedano: G. FERRARI, La legislazione veneziana sui beni comunali, in Nuovo Archivio Veneto, nuova serie, anno XIX, tomo XXXVI, Regia Deputazione di Storia Patria, numero 111-112, nuova serie numero 71-72, Premiate Officine Grafiche C. Ferrari (pp. 5-64), 1918; M. PITTERI, I beni comunali nella

terraferma veneta. Un primo approccio al problema, in Annali Veneti. Società, cultura, istituzioni, anno 1,

numero 1, Neri Pozza Editore (pp. 133-138), 1984; La politica veneziana dei beni comunali (1496-1797), in Studi Veneziani, volume X, Giardini Edizioni e Stampatori in Pisa (pp. 57-80), 1985.

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era proceduto con le vendite, dato che era uno dei pochi mezzi rimasti per rimpinguare l’erario statale. Poi vi era la tassa sul sale, una delle più importanti: «già prima della conquista era Venezia a fornirlo da Chioggia, secondo condizioni stabilite nei trattati commerciali con Treviso»108. La Serenissima aveva dal 1428 il monopolio sul sale, e questo costituiva l’asse portante della sua economia visti gli ingenti profitti: il costo di produzione era relativamente basso, ed era possibile imporre prezzi molto alti ai consumatori. Erano stati eletti i Provveditori al sal, e la vendita avveniva tramite i dazieri; tra l’altro, era stato imposto l’acquisto in quantità sempre maggiori di sale, per fronteggiare l’impegno bellico.