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PARTE II. IL TREVIGIANO NELL’ETÀ MODERNA.

Capitolo 2. La fiscalità sotto il dominio veneziano.

2.1. Il sistema fiscale locale e centrale.

Una delle prime cose di cui si è occupata la Serenissima dopo la conquista dell’entroterra è stata la riorganizzazione, tentando di piegarlo a proprio favore, del sistema di tassazione dei vari centri, oltre all’inserimento capillare nei vari aspetti della vita quotidiana come la gestione dell’agricoltura, per trarne un vantaggio materiale e necessario alla sopravvivenza del Dogado, che sempre meno poteva contare sul commercio marittimo soprattutto per quanto riguarda le derrate alimentari. In aggiunta a questo, Venezia, con l’espansione, era succeduta ipso iure nel possesso dei beni fondiari dei passati domini e delle famiglie nobili che li avevano rappresentati e sostenuti: parte di queste proprietà era infatti stata venduta all’aristocrazia veneziana per rimpinguare l’erario pubblico. Tali beni, passando da mani private al mercato, erano diventati quindi oggetto di estimo, strumento basilare utilizzato dalla Dominante per ripartire gli oneri richiesti ai contribuenti per la sopravvivenza del sistema della stessa; ma divenendo poi di proprietà dei veneziani, erano ritornati ad essere svincolati dall’imponibile. I beni dei sudditi, invece, erano tutti soggetti a tassazione. La Terraferma contribuiva perciò al sostentamento ed alla difesa della Serenissima mediante le gravezze de Mandato Dominj, la cui somma veniva suddivisa tra le province in relazione ai loro abitanti e ai beni fondiari in loco; tale somma era poi ripartita tra i diversi corpi contribuenti in base agli estimi. Ma la stabilità di tali imposte dirette si opponeva alla crescente transizione della ricchezza fondiaria dello Stato da Terra nelle mani dei veneziani,

così che il numero dei contribuenti scemava ed ai rimanenti spettava l’ingrato compito di pagare per tutti. [...] L’arretratezza del sistema dava naturalmente origine alle evasioni, che nascevano da una effettiva incapacità a sostenere il tributo e dalla debolezza delle amministrazioni locali85.

Quest’arretratezza era da considerarsi effetto soprattutto dei privilegi riservati all’aristocrazia veneziana stabilitasi in Terraferma: in quanto tale, era esentata da molte imposte nonostante la vastità delle sue possessioni, andando così a sovraccaricare di oneri gli abitanti autoctoni, in particolare quelli delle campagne, che sostenevano tale peso con molta difficoltà, dovendo anche provvedere al sostentamento alimentare dei padroni, di

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loro stessi, del centro urbano e di Venezia. Inoltre, spesso, i veneziani facevano depennare dagli estimi locali i loro possedimenti, senza comunque dichiararli agli uffici tributari della Serenissima. La ripercussione negativa era costituita

dal fatto che, mancando la registrazione in camera fiscale, non si potevano detrarre le quote di gravezze imposte al corpo per la parte dell’estimo rappresentata dal bene trasferito a fuochi veneti. Finchè non si depennava dall’estimo locale la proprietà acquisita da un ‘allibrato’ veneto, dunque, il corpo [...] avrebbe dovuto sopportare un maggiore onere relativo nonostante la propria capacità contributiva calasse86.

La misura di riferimento per le valutazioni fiscali della proprietà fondiaria era il

manso: si trattava di un’entità policolturale che comprendeva terra “arativa”, “vitata”,

“piantata”, segnato negli estimi con la dicitura APV o AAV (nel catasto austriaco, ove la seconda “A” significava “arborato”). Le dimensioni del manso non erano inferiori ai 15 campi trevigiani, che corrispondevano a 7 ettari circa, i cui canoni fissi erano la staia e i

conzi, rispettivamente le unità di misura trevigiane per il frumento ed il vino, che la città

era tenuta a fornire a Venezia. Comunque, per lo sviluppo dello Stato, il Dogado aveva compreso che era indispensabile l’istituzione di un apparato fiscale, un sistema di prelievo pubblico che collegasse il contribuente agli organi finanziari, e che finanza pubblica e fiscalità erano interdipendenti: le esigenze finanziarie stimolavano la politica fiscale, che a sua volta doveva adeguarsi alla particolare congiuntura politico-economica, e agli equilibri sociali. Venezia era dunque il centro in cui veniva convogliato il denaro riscosso nel Dominio: nei principali centri di quest’ultimo si trovavano diverse istituzioni, statali e non, cui spettava l’incombenza del controllo fiscale e dell’esazione, e si trattava delle

camere fiscali, che erano una sorta di tesoreria provinciale. Ogni camera era gestita da

uno o due camerlenghi, nobili veneziani scelti dal Maggior Consiglio, i quali rispondevano del proprio operato ai rettori. I centri del Dominio infatti, sia quelli urbani che quelli rurali, svolgevano un ruolo importantissimo nel sistema tributario statale, oltre

86 L. PEZZOLO, L'oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Il

Cardo, Venezia, 1990, p. 216. Oltre all’evasione era sentito anche il problema del contrabbando «ossia contra-bandum, andare contro la legge. (...) esso si pone per definizione come emblematica rivalsa nei confronti dello stato, espressione dell’insanabile conflitto che da sempre vede contrapposti chi è costretto a subire una imposizione e chi la impone. (...) a Venezia, Stato da Terra e da Mar, i contrabbandi risultarono facilitati dalla stessa configurazione articolata del territorio e vi si svolsero con grande frequenza in ogni tempo, specie nei suoi porti, sia fluviali che marittimi» (e questo ci riporta a considerare la situazione di Fiera, in cui era molto attivo lo scalo sul Sile, ma anche l’attività molitoria), R. VITALE D'ALBERTON,

Per qualche libbra di sale. I processi del magistrato al sal, in Studi Veneziani, vol. LVI, Fabrizio Serra

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che nell’amministrazione della finanza locale: i Consigli avevano il potere di imporre tasse straordinarie, qualora ve ne fosse bisogno, di eleggere gli esattori, di gestire le entrate, di controllare i luoghi pii e gli istituti assistenziali. La camera fiscale di Treviso era gestita direttamente dal Comune, e ciò aveva comportato la creazione di un flusso di denaro parallelo alla camera statale: insomma, le camere fiscali provinciali erano diventate

il punto nevralgico d’incontro tra i circuiti istituzionali veneziani e locali; al primo di questi è riservata la gestione dei dazi; appaltati dalle camere senza la mediazione o il profitto di istituzioni locali, e controllati in seconda istanza dai Provveditori sopra le Camere. Ma i due circuiti si intrecciano in misura più ampia nella gestione degli oneri diretti, settore [...] delle maggiori deleghe alle istituzioni locali, in cui l’ambiente locale può condizionare [...] l’operato delle camere87.

L’esattore era spesso selezionato dal Consiglio, mentre nel contado la Vicinìa – l’assemblea dei capifamiglia – appaltava la carica e la dava al miglior offerente: si appaltava l’esazione dei dazi88 attraverso un’asta pubblica «presso il palazzo dei rettori.

Coloro che riuscivano ad aggiudicarsela s’impegnavano a versare ratealmente in camera fiscale la somma concordata; e quindi si facevano carico dell’esazione del tributo». Tale sistema «permetteva allo stato di usufruire in anticipo di una parte dei proventi daziari (...), di non ingrossare il proprio apparato fiscale a livello di amministrazione locale» e «di demandare i rischi dell’esazione a persone che non avevano a che fare direttamente con la struttura burocratica statale»89. Da ciò si desume che, per quanto riguarda l’amministrazione finanziaria, i dirigenti locali avessero una sufficiente libertà di

87 M. KNAPTON ne Il fisco nello Stato veneziano di Terraferma tra il ‘300 e il ‘500, in Il sistema fiscale

veneto, problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di G. BORELLI, P. LANARO, F. VECCHIATO,

Libreria Universitaria Editrice, Verona, Atti della giornata di studio sulla terraferma veneta, Lazise, 29 marzo 1981, 1982, p. 27 (pp. 15-58).

88 I dazi e le gabelle, o imposte indirette, erano tasse sui prodotti di consumo e sulle merci in transito

all’interno dello Stato. Nello specifico, i dazi al consumo colpivano i centri urbani dove, grazie alla concentrazione di popolazione e alle attività artigianali e commerciali, era possibile trarre un buon utile dalle imposte indirette, e l’esazione era spesso concessa in appalto ai privati, che ne ricavavano notevoli profitti. I dazi sulle merci, invece, interessavano i centri prossimi alla frontiera o posti lungo le vie di traffico; Venezia era particolarmente attenta a tali dazi, le cui tariffe potevano influenzare un incanalamento positivo o meno delle merci verso l’emporio realtino (per questi aspetti, si vedano le opere di Del Torre citate in bibliografia). Nel XVI secolo, infatti, il commercio marittimo iniziava la sua battuta di arresto: la Serenissima rivolgeva perciò la sua attenzione alle merci che attraversavano la Terraferma: era suo intento deviarle verso il proprio porto ed incrementare le entrate fiscali da esse derivanti (le merci dovevano passare in primo luogo per Venezia, pagare lì i contributi al fisco, e solo dopo ottenevano l’autorizzazione per raggiungere le località dell’entroterra cui erano destinate).

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movimento; era fondamentale le tasse venissero riscosse ed arrivassero alla Serenissima, non era altrettanto importante il sistema di riscossione. In questo modo, però, bisognava mettere in conto che le istituzioni locali tentassero di difendere la città come potevano, arginando le pretese della Dominante, ma era questa ad avere quasi sempre la meglio: l’unico controllo che riuscivano ad esercitare era quello sui propri sudditi, specialmente quelli che vivevano fuori città, dimostrando che i particolarismi locali non riuscivano in nessun modo a porre in discussione la sovranità veneziana. La riscossione dei tributi funzionava grazie a quello che L. Pezzolo ha definito “sistema della limitazione”, ossia il fatto che la camera fiscale concordasse con i corpi locali la corresponsione di una somma stabilita che doveva sostituire l’imposta diretta (che era una tassa straordinaria, soggetta a variazioni). Infatti, se la gran parte dei dazi veniva gestita da organi statali o da privati, è vero anche che molte gabelle venivano incassate autonomamente dalle comunità, e l’introito restava nell’ambito della finanza locale. Il fatto di lasciare questo spazio alle autorità locali era di basilare importanza per la loro sopravvivenza, dato che altrimenti tutto il gettito sarebbe stato convogliato nelle casse veneziane, e contribuiva se non altro ad attenuare i conflitti tra queste comunità ed il governo centrale; ciò era fondamentale, in quanto la crescita del Dogado si fondava ormai quasi esclusivamente sul gettito fiscale della Terraferma, e non poteva permettersi di perdere tale “privilegio”. Infatti, una parte sostanziosa di questo denaro veniva investita nell’ordinaria amministrazione provinciale, di cui faceva parte il pagamento dei salari dei Podestà, dei collaboratori, delle guarnigioni di stanza, più la spesa per la costruzione e la manutenzione delle fortificazioni. Va da sé che la somma di denaro rimanente per le casse della Serenissima fosse piuttosto esigua. Divenne pertanto assai complicato incrementare i dazi, dal momento che, chiaramente, le città che procuravano la maggior parte del gettito vi si opponevano: per tale motivo le imposte dirette rivestivano una notevole importanza (anche perché in tale ambito l’onere tributario spettava quasi in toto ai villici). Tra queste rientravano le prestazioni d’opera, nella categoria degli “oneri personali”, «cui andavano infatti esenti, salvo qualche eccezione, le città e parte dei centri urbani minori: il loro carico era dunque sopportato quasi esclusivamente dai distrettuali»90. Tali imposte venivano ripartite sulla base della suddivisione dei contribuenti in fuochi: questi erano i coefficienti assegnati ad ogni Villa

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dai deputati91 incaricati di compilare i ruoli fiscali. I beni dei veneziani erano iscritti nei

fuochi veneti ed erano posti sotto la giurisdizione dei Dieci Savi alle Decime in Rialto,

quelli dei sudditi di Terraferma erano iscritti invece nei fuochi esteri e si trovavano sotto la giurisdizione delle camere fiscali locali: diversamente dai possidenti dello Stato da Terra, che erano

sottoposti ai tributi fondiari con cadenza annuale, i proprietari veneziani per un certo periodo non conobbero la medesima continuità. [...] Inoltre i fondi a fuochi veneti nella Terraferma non erano sottoposti alle imposizioni gravanti sul Dominio se non per la dadia delle lance (per i beni acquistati dopo il 1446) e per alcuni oneri circa le sistemazioni fluviali92.

Per questo motivo nel 1515 si era manifestata la necessità di effettuare una

reformatio focorum: la distribuzione della ricchezza tra i contribuenti era ormai molto

squilibrata, e ciò era dovuto a contigenze storiche come la guerra di Cambrai e ciò che aveva comportato, ma anche al fatto che sempre più veneziani venissero a stabilirsi in Terraferma, senza tuttavia uniformarsi al carico fiscale che questa imponeva nella zona da loro prescelta. Per mantenere l’ordine pubblico e la pace sociale bisognava rifare gli estimi per un’equa ripartizione degli oneri, in quanto l’incremento della proprietà veneziana aveva gravemente determinato l’appesantirsi del carico fiscale sui sudditi. «In pratica ogni campo di terra trevigiana che passava sotto il regime tributario di Venezia (...) costituiva un peso in più per i sudditi»93: Treviso pagava anche per tutte le terre di proprietà veneziana, oltre a occuparsene fisicamente (coltivandole, etc.). Vi era una discreta presenza di beni dei veneziani che contribuivano alla dadia delle lance, o colta ducale, e dovevano essere censiti insieme alle proprietà dei sudditi, ma questo compito non poteva essere espletato dai consigli municipali, dal momento che non detenevano l’autorità necessaria per imporsi ai veneziani, che non avrebbero permesso «di essere giudicati da una commissione locale: l’intervento del governo si rivelò ben presto indispensabile», infatti, nel 1521, quando era stato ultimato

91 Eletti dal Consiglio Maggiore, a loro spettava il compito di raccogliere le dichiarazioni dei redditi che gli

abitanti fornivano al Meriga. Il loro valore non era tradotto in lire ma appunto in fuochi, che corrispondevano a unità patrimoniali di otto mansi in affitto o due mansi propri (che Del Torre fa equivalere a 20 campi o due ruote da mulino). Comunque, «gli organismi cui spettavano le competenze più concrete ed estese in materia erano dunque i consigli cittadini. (...) coloro che vi sedevano erano in grado di gestire direttamente l’aggiornamento degli estimi e la riscossione dei tributi, traendone dunque il maggior vantaggio possibile», non erano rare infatti «irregolarità e frodi nella compilazione delle liste fiscali e nella scelta dei criteri di esazione», ha affermato G. DEL TORRE in Venezia e la Terraferma..., Op. Cit., p. 18.

92 Ivi, p. 215.

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l’aggiornamento dei ruoli fiscali, l’azione del governo non poteva più essere dilazionata, dal momento che si apriva la difficile fase di verifica dei titoli di privilegio dei pretesi esenti, tra i quali si trovavano in gran numero i veneziani: il compito [...] fu allora affidato dal Senato ad una commissione di 25 patrizi94.

Ciononostante, i veneziani resistevano non dichiarando le loro proprietà, ritardando la compilazione e l’applicazione degli estimi; del resto, fino a Cambrai, il governo non si era preoccupato troppo della loro evasione, anche se questo permetteva l’instaurarsi di un clima conflittuale in Terraferma. Ma, anche dopo Agnadello, Venezia ha fatto ben poco in questo senso: anzi, ha concesso loro l’affrancazione dalla dadia, permettendo così ai nobili veneziani nell’entroterra di sottrarsi agli oneri fiscali previo il versamento di una quota proporzionale al contributo dovuto. Tale provvedimento assicurava entrate nell’immediato, ma non così cospicue, e soprattutto non continuative, facendo ricadere il problema nuovamente sui sudditi. Il perché di questa accondiscendenza è da ricercarsi nel fatto che nel dopoguerra Venezia si sentiva in dovere di agevolare i veneziani, che in quel periodo si orientavano all’investimento fondiario e volevano esentare i loro possedimenti da ogni tipo di tassa. Oltre ai fuochi, nell’estimo territoriale, vero cardine del sistema fiscale a livello locale, la suddivisione degli oneri tra i comuni sulla base della capacità contributiva comunitaria (si rilevavano i beni e le entrate dei potenziali contribuenti, che venivano poi censite) si esprimeva attraverso una quota spettante ad ogni provincia, o carato, proporzionale rispetto alla cifra complessiva che compariva nell’estimo (corrispondente alla ventiquattresima parte dell’intero95), e il carato veniva a

sua volta ripartito tra i quattro corpi contribuenti locali, ossia la città, il clero96, i contadini ed i forestieri. Il sistema che ne risultava sembrava costruito su un «modello di federalismo tributario» la cui

struttura centralistica si fermava alle camere fiscali delle varie terre dotate peraltro di funzioni [...] solo di coordinamento e di tesoreria. L’intervento statale (centrale) si limitava a stabilire il fabbisogno finanziario complessivo dello Stato. Tutta l’attività d’imposizione e d’esazione era

94 G. DEL TORRE, Venezia e la Terraferma..., Op. Cit., pp. 39 e 41. 95 Si veda I. CACCIAVILLANI, Le autonomie locali..., Op. Cit.

96 Il clero costituiva un corpo a sé, che difendeva i propri privilegi quasi come l’aristocrazia: «le remore di

una parte della classe dirigente a tassare il clero non erano però unicamente legate alla preoccupazione di non entrare in conflitto con la Santa Sede: all’origine di molti dissidi nei consigli veneziani c’era sicuramente anche l’interesse che molte famiglie patrizie avevano nella struttura beneficiale dello Stato. Fin dall’inizio del ‘400, infatti, i nobili della Dominante avevano approfittato dell’espansione in Terraferma per accaparrarsi (...) benefici», G. DEL TORRE, Venezia e la Terraferma..., Op. Cit., p. 95.

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demandata al potere locale, sul cui esercizio il rettore aveva funzione solo di controllo e di coordinamento97.

La crisi del sistema, ha sostenuto I. Cacciavillani, era dovuta all’attribuzione di ruoli non proporzionati alla capacità di gestione: “l’eccesso di autonomia” nell’appalto delle cariche degli esattori, che spesso ne approfittavano per ricavare il loro utile, facilmente sconfinava nel “localismo partigiano” che, data la varietà e la quantità delle realtà che interessava, non poteva ricevere adeguati controlli esterni, favorendo così la corruzione del sistema.