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La città e il territorio nel sistema amministrativo.

PARTE II. IL TREVIGIANO NELL’ETÀ MODERNA.

Capitolo 1. L’amministrazione sotto il dominio veneziano.

1.1. La città e il territorio nel sistema amministrativo.

Volendo prendere in esame il periodo della dominazione veneziana, vediamo come sin dall’inizio, ossia dai patti di dedizione stipulati a metà del Trecento, la Serenissima si sia introdotta nel sistema di governo trevigiano e ne abbia condizionato l’operato in modo totalizzante; ha detto in proposito F. Posocco che lo Stato Veneto aveva sviluppato una sorta di “struttura di protettorato federativo”, differentemente dal Dogado e dallo Stato da Mar, nei quali invece

esercitava i diritti di possesso e di conquista. La Dominante peraltro, non solo per ragioni di cultura e tradizione marittima, ma anche per interessi sostanziali, era scarsamente interessata alla difesa militare ed allo sviluppo urbano in Terraferma, mentre all’inizio era palesemente avversa alle infide aristocrazie locali […]. Modesti di conseguenza sono gli interventi operati nel territorio acquisito fino alla fine del Quattrocento, se si escludono quelli finalizzati alla regolazione idraulica della laguna e alla officiosità del sistema portuale marittimo53.

L’intellighenzia di Treviso è stata, nell’arco di questi secoli, una classe dirigente “fantoccio”, con un’autonomia decisionale pressoché nulla, e i cui interessi erano rivolti al mantenimento dello status quo auspicato da Venezia e ad essa utile per la sua sopravvivenza. Infatti, di fianco, o meglio, al di sopra degli organismi territoriali, era stata istituita la carica di Rettore, il quale era sempre originario di Venezia (solitamente tale carica era divisa tra un Podestà e un Capitano, ma a Treviso erano ricoperte dalla medesima persona), cosicché ai sudditi restava «solo una ben circoscritta ed attentamente

53 Atlante del Veneto. La forma degli insediamenti urbani di antica origine nella rappresentazione

fotografica e cartografica, a cura di F. POSOCCO, Regione del Veneto, Marsilio, 1991, p. 15. Leggermente

diversa l’opinione di P. Lanaro (in I mercati della Repubblica Veneta: economie cittadine e stato

territoriale (secoli XV-XVIII), Marsilio, Venezia, 1999), la quale ha sostenuto che molti studiosi stiano

continuando ad analizzare la Storia ponendo come premessa il processo di accentramento del potere, senza tenere troppo conto delle realtà locali; su ciò però già aveva gettato luce Ventura, evidenziando la debolezza intrinseca dello stato moderno, formato da una molteplicità irriducibile di centri di potere, ognuno provvisto di diritti e privilegi particolari.

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controllata via via ristretta autorità amministrativa»54. Tuttavia, il governo di Venezia non ha toccato

la gerarchia delle fonti di diritto, e affidò un’eventuale uniformazione legislativa [...] alla “prassi politica e giudiziaria”, ad un “processo di osmosi dalla sottile, e lenta e impercettibile, ma sicura efficacia”. Si potrebbe dunque dire che nel Quattrocento esso diede corpo piuttosto ad una non-politica, che ad una politica del diritto, e cercò altre strade – come l’uso calibrato e mirato delle istruzioni (commissioni) ai rettori inviati nelle città di terraferma, oppure l’esercizio dell’appello da parte delle magistrature centrali veneziane - per affermare le prerogative dei propri rappresentanti, o per creare camere di compensazione nel rapporto tra città suddite e dominanti55.

Venezia si poneva dunque come un’entità collaborativa, ma di fatto imponeva il proprio dominio: il suo insediamento in Terraferma, ed in particolare a Treviso, è avvenuto senza bruschi cambiamenti nella prassi amministrativa e politica locale, ed in questo è consistito il successo della sua operazione: diluiva nel tempo la sua azione per prendere il controllo di ogni aspetto della vita cittadina, sottraendo man mano il potere agli organismi locali, esautorandoli in primo luogo negli affari interni. Così facendo, la Serenissima riduceva la nobiltà autoctona a una sorta di ceto impiegatizio senza una reale autorità decisionale; d’altronde, è altrettanto vero che quest’ultima si disinteressava dei propri compiti e perciò delle sorti della città, concentrando piuttosto le preoccupazioni nel mantenimento del rango, tant’è che L. De Bortoli ha affermato che quello trevigiano era un ruolo

di seconda fila e che accompagna la subalternità della sua debolissima classe dirigente, più che evidente di ridotta autonomia istituzionale e amministrativa di una città e di un territorio ritenuti, invece, fondamentali e strategici nella cornice difensiva ed economica della Dominante56.

54 D. BELTRAMI, Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete nei secoli XVII e XVIII. La

penetrazione economica dei veneziani in terraferma, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma,

1961, p. 47. Inoltre, ha affermato G. DEL TORRE, «questi 450 anni di dominio favorirono un’integrazione tra la capitale e il Trevigiano nel suo complesso che non ha riscontro nelle altre zone della Terraferma. Tale integrazione ebbe però le sue premesse in una dura conquista e (...) in un forte controllo del potere centrale e dei suoi rappresentanti sulla vita politica e sociale locale», p. 11, in Il trevigiano nei secoli XV e XVI:

l’assetto amministrativo e il sistema fiscale, Il Cardo Edizioni, Venezia, 1990.

55 G.M. VARANINI, Gli statuti delle città della Terraferma veneta nel Quattrocento, in Statuti, città,

territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di G. CHITTOLINI e D. WILLOWEIT,

Annali dell'Istituto storico italo-germanico, Quaderno 30, Società editrice il Mulino, Bologna, 1991, p. 250.

56 L. DE BORTOLI, Cronache e istorie di fedeltà: pagine e immagini del dopo Agnadello nel Trevigiano,

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La dedizione comportava infatti che Venezia assumesse la direzione del potere legislativo e amministrativo: il Podestà, la massima carica di governo locale, aveva giurisdizione civile e criminale per conto del Doge, cui doveva presentare a fine mandato una relazione57 dettagliata sul proprio operato e sulla situazione cittadina, per constatare se quanto ordinato all’inizio del lavoro con la commissione o istruzione fosse stato compiuto. Accanto alla carica di Podestà vi era quella di Capitano, che si occupava degli affari tecnici e militari: nel caso specifico di Treviso, probabilmente per le dimensioni non troppo vaste di territorio da governare e per la facilità con cui si riusciva a mantenerlo sottomesso, le due cariche erano espletate dalla stessa persona. Tale figura è importante per comprendere la portata dell’amministrazione locale veneziana, in quanto «era attraverso questi suoi rappresentanti che Venezia poteva far sentire la propria presenza (...). Al rettore erano delegati fondamentali compiti di mediazione»58 fra il centro in cui si trovava a lavorare e Venezia, nonostante spesso non fosse ben informato sulla realtà locale, anzi, non era previsto la conoscesse; tanto che il suo compito era quello, più che altro, di utilizzare

la sua capacità di risolvere i problemi partendo da un approccio di carattere sostanzialmente politico. Così come il Rettore non era [...] un esperto nel campo del diritto ma, specie nei centri urbani di piccole dimensioni, godeva di un’ampia facoltà arbitrale nel rendere giustizia59.

Oltre al centro di Treviso, il Podestà governava la Podestaria a tale città soggetta – i cui confini potremmo assumere fossero quelli della provincia trevigiana odierna -, la quale era divisa in otto Quartieri. Questi erano rispettivamente suddivisi in centri più piccoli, le Ville, che erano presiedute da un Meriga (il capo-villaggio), solitamente affiancato da alcuni collaboratori, i Saltari (vigilanti del territorio), i Giurati ed il

Proiector Colte (l’addetto al fisco). Vi era poi la carica del Vicario, che, nonostante fosse

diversa sul piano politico da quella del Rettore, le somigliava su quello amministrativo. Egli veniva nominato dalla città capoluogo del distretto, in forza dei patti di dedizione, per una determinata realtà locale: però, se i rettori appartenevano alla nobiltà veneziana

57 Si veda Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, vol. 3: Podesteria e Capitanato di Treviso, a cura

dell'Istituto di Storia Economica dell'Università di Trieste, Milano, Giuffrè Editore, 1975.

58 A. VIGGIANO, Governanti e governati: legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana nello

Stato Veneto della prima età moderna, Canova Editrice, Treviso, 1993, p. 68.

59 G. DEL TORRE, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai, fiscalità e amministrazione (1515-

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ed erano scelti dal Senato, i Vicari facevano parte dell’aristocrazia della città capoluogo, ed erano eletti dal suo consiglio60. In sostanza, il Vicario era una sorta di figura di raccordo tra l’ente locale (extra moenia) ed il Rettore.

Il Consiglio Maggiore ed il Consiglio Minore61 si occupavano invece di alcuni

aspetti pratici dell’amministrazione, ma mai di politica: non avevano quindi nessuna autonomia o autorità; si può dire dipendessero direttamente da Venezia. L’aspetto più rilevante del loro operato era quello che concerneva il fisco (sul quale tornerò): il Consiglio si faceva infatti esecutore delle imposizioni della Dominante, cercando comunque, per quanto poco, di tenere presenti i diritti della cittadina; tuttavia spesso falliva, non riuscendo a “proteggere” nemmeno il clero locale ed a “difendersi” dai proprietari veneziani che avevano cominciato a stabilirsi a Treviso. Nello stesso tempo aveva invece l’onere di tenere sotto stretta sorveglianza gli abitanti autoctoni attraverso la redazione degli estimi, ai quali i veneziani potevano in qualche modo sfuggire. Altri compiti del Consiglio Maggiore erano l’amministrazione delle opere pie, che comprendevano ad esempio il fondaco delle farine, il monte di pietà, l’edilizia urbana; l’istruzione pubblica, le leggi suntuarie; la difesa della città; i collegi e le corporazioni; le relazioni con l’autorità ecclesiastica. Il Consiglio Minore era invece un organo consultivo che a seconda delle necessità poteva diventare una sorta di “giunta esecutiva”: avendo meno membri era maggiormente controllabile, e non era raro lavorasse più del Consiglio Maggiore, cui fungeva da organo di coordinamento. Con l’avvento del dominio veneziano i Consigli hanno subito una riforma strutturale, e da organi deliberanti ed elettivi, sono divenuti organismi puramente consultivi. La Provvedaria, istituita nel 1407 sotto il Doge Michele Steno e il Podestà Giacomo Contarini, era la sede in cui si dirimevano le questioni che le fraglie si ritrovavano ad avere con la città, soprattutto per motivi fiscali: i membri erano consiglieri del Podestà e la loro autorità derivava dal fatto che dovessero rappresentare la città: erano insomma i custodi delle leggi e degli statuti di

60 Si veda I. CACCIAVILLANI, Le autonomie locali nella Serenissima, Signum, Limena, 1992, p. 60. 61 Il Consiglio Maggiore era composto da 300 membri, in parte nobili e in parte popolari. È arrivato a

comprenderne 500 durante il Trecento, poi 200. Durante la quarta decade del XIV secolo il Consiglio dei Trecento è divenuto il Consiglio Maggiore, in cui il posto garantiva un vitalizio ma non aveva carattere di possesso patrimoniale: non era alienabile, né ereditario. L’elezione comunque era indirizzata alla conservazione della carica in mano a poche famiglie. Nel Quattrocento il Consiglio è passato da una composizione di 120 membri a una di 100, 50 per il Maggiore e 50 per il Minore, e molti di questi facevano parte della medesima famiglia. Oltre a questi 100 vi erano 8 Provvisori e il Podestà.

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questa62. Ma, volendo allargare per un momento la prospettiva, ci rendiamo conto che quello trevigiano era uno statuto «fossile, non più rinnovato, che continua sì ad essere usato, ma il cui rapporto con la normativa veneziana è passivo e subalterno»63: alla fine, per il Consiglio dei Dieci, una delle massime preoccupazioni era l’interpretazione e l’applicazione delle norme, controllare che gli organi incaricati le rendessero esecutive e determinare gli strumenti con i quali tutto ciò veniva comunicato; per questo motivo, a partire dalla metà del Quattrocento, Venezia ha intensificato i rapporti tra centro e periferia: il Doge doveva poter osservare la pluralità delle giurisdizioni locali, ed al contempo collaborare nel rafforzamento delle istituzioni centrali. Di base, comunque, è possibile concordare con M. Knapton, il quale ha affermato che era rimasto fondamentalmente intatto il sistema amministrativo comunale di medievale memoria,

modificato dall’aggiunta di alcuni incarichi e dal trasferimento di poteri di nomina a Venezia o al suo Rettore, modifiche che diedero alla provincia camerlenghi, castellani e podestà distrettuali veneziani e presidi di provenienza esterna64.

E ancora, con S. Zamperetti, il quale ha spiegato che era stato piuttosto semplice per la Dominante sottrarre a Treviso il controllo del territorio, perché quest’ultima, nei fatti, non l’aveva mai conquistato.

Nè aveva comportato problemi, in questa indeterminatezza di potere del centro urbano, proiettare su di esso, mediante l’inserimento dal 1367 di

provisiones ducales a correzione degli statuti locali, il proprio diritto, o

addirittura riformare drasticamente – e si tratta di una pratica assolutamente assente nella gestione delle altre “magnifiche comunità” della Terraferma – il governo del Comune, abolendo nel 1407 gli Anziani65 , il Consiglio dei

Quaranta66 e il Consiglio Maggiore e attribuendo al Podestà e Capitano

62 G. DE ZOTTI, Gli istituti dell'amministrazione civile di Treviso nel Cinquecento, tesi di laurea, relatore

R. Cessi, Università degli Studi di Padova, 1941, p. 344: «L’approvazione degli statuti delle corporazioni era di competenza del Consiglio Maggiore, ma il controllo dell’esecuzione dei capitoli approvati era ufficio dei Provvisori».

63 G. VARANINI, Op. Cit., p. 260.

64 M. KNAPTON, Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano

a Treviso, p. 47, in Tomaso da Modena e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale di studi per il sesto

centenario della morte, Treviso 31 agosto-3 settembre 1979, Stamperia di Venezia s.p.a., 1980, pp. 41-78.

65 Organo risalente all’inizio del XIV secolo, composto da 16 membri, dei quali 4 nobili e 12 popolari.

Questi, insieme a 6 consoli, componevano la Curia del Podestà. Con gli Scaligeri rimasero in 6.

66 Formato da 20 nobili e 20 popolari, affiancava i Provveditori e secondo Del Torre incideva nella vita

politica più del Consiglio Maggiore, che veniva convocato proprio dai Quaranta. Con l’avvento degli Scaligeri (1329-1339) il numero dei membri è sceso a 20.

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veneto, affiancato solo nominalmente da sei cives locali, l’intera amministrazione e la direzione della vita politica cittadina67.

Infatti, solo qualora si presentasse un grave problema amministrativo il Podestà e i Provveditori potevano decidere di convocare un Consiglio non stabile, composto da un centinaio di cittadini68. Insomma, solo a parole la Dominante lasciava alle comunità conquistate la libertà di darsi – o mantenere - un proprio statuto, cioè di scegliere la propria forma di governo e le proprie regole di convivenza, quindi un’autonomia di facciata che riguardava la legislazione, l’amministrazione e la giustizia, ma di fatto era esplicita l’ingerenza che si riservava per intervenire e ribadire la propria supremazia negli affari locali. Questo era particolarmente evidente nell’utilizzo delle provvisioni dogali: hanno detto per l’appunto G. Farronato e G. Netto che Venezia, nel 1339 (anno della dedizione), ha accettato gli statuti trevigiani «dopo avervi premesso un decretum ducale nel quale si riservava ogni diritto di intervento e stabiliva la precedenza degli ordini giunti da Venezia (le “Provvisioni Dogali”) sugli statuti»69. Questa disaffezione nei confronti

delle cariche pubbliche da parte della classe dirigente trevigiana (nelle altre città della Terraferma non è stata riscontrata infatti tale problematica), che favoriva la debolezza verso il potere centrale, derivava, secondo G. Del Torre, dal fatto che il Comune medievale non era riuscito ad imporsi sui signori dei territori circostanti, e vi era inoltre una troppo marcata divisione tra nobili e popolari70. Le cariche di governo erano in mano ai milites ed ai cives (dottori, notai), mentre gli artigiani facevano capo alle scuole e alle fraglie71. La discriminazione verteva senz’altro a favore dei proprietari di beni immobili: il ceto mercantile e artigiano era quindi in una posizione di svantaggio, nonostante detenesse il capitale mobile: l’aristocrazia signorile e la ricca “borghesia” non erano fuse, non lo erano e non lo sarebbero mai state, nella realtà trevigiana. Inoltre, si era alimentato

67 S. ZAMPERETTI, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale

veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, il Cardo, Venezia, 1991, p. 53. Secondo G.

De Zotti le cose non stavano propriamente così: alcuni organismi erano stati soppressi, ma i Consigli erano ancora in funzione, anche se in maniera subalterna. Della medesima opinione di S. Zamperetti è G. Del Torre, il quale ha affermato la stessa cosa nell’Op. Cit., puntualizzando che nel 1435 veniva ricostituito sia il Consiglio Maggiore che quello Minore. Quello che si può arguire è che ci fosse molta instabilità e mancasse una soluzione statutaria: gli organi amministrativi del Trevigiano erano in balìa di Venezia.

68 Si veda A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento, seconda

edizione (1993), Unicopli, Milano, 1964.

69 Gli Statuti del Comune..., Op. Cit., p. CXXXIII.

70 Una questione di storia della mentalità, come ha detto E. Brunetta, che sarebbe interessante approfondire. 71 Per poter conquistare la carica di un ufficio pubblico bisognava essere iscritti ad una corporazione. Queste

nello scenario cittadino rivestivano una qualche importanza, ma di fatto il potere era in mano ai nobili, almeno durante l’età comunale.

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un «paradosso per il quale la nobiltà cittadina incrementò il suo potere formale e di facciata a scapito di un potere reale che Venezia non era disposta assolutamente a concedere»72: l’aristocrazia locale aveva un ruolo subordinato, e solo nella città in cui risiedeva, e ciò era accettato in quanto la Serenissima accordava ad essa uno spazio di manovra minimo che riusciva comunque a soddisfare il suo mero desiderio di supremazia sociale. Venezia forniva alla nobiltà una serie di riconoscimenti formali e la possibilità di vivere delle proprie rendite parassitarie senza troppi problemi, e questo – insieme alla non uniformità delle leggi nei vari territori della Terraferma - bastava alla conservazione dello status quo: è stato nell’inutile difesa di queste prerogative

che le comunità spesero il fiore delle loro risorse, mentre il frazionismo nascente della cultura del privilegio precluse la possibilità del crearsi di una classe dirigente appena capace di imporsi oltre il confine ristretto della singola ‘villa’73.

Ma credo sarebbe importante tentare anche un ragionamento di un altro tipo, partendo da un assunto proposto da G. Barbieri: egli ha notato che è stata tendenza comune nella storiografia degli ultimi decenni addossare la colpa della decadenza della società e dello Stato Veneto alla sola classe aristocratica, che però effettivamente costituiva una minima percentuale della popolazione: come, quindi, il popolo non era riuscito a imporsi per spingere verso un cambiamento? «Ad avviso di chi vi parla, quindi, la crisi dello Stato Veneto trascende il comportamento di una sola classe, pur non potendosi nascondere i vizi e l’inettitudine da tanti denunciata», ed

analoga imputazione va fatta per le altre forze sociali, che, nel Quattro e nel Cinquecento, si mostrarono generalmente orgogliose di vivere all’insegna di San Marco, e nei secoli successivi non fecero gran che per cambiare vessillo74:

in sintesi, fino a quel momento la dominazione di Venezia non era riuscita a convincere l’aristocrazia che il suo ruolo non era più preponderante, e allo stesso modo non aveva convinto i villici degli esiti cui

72 E. BRUNETTA, L. VANZETTO, Storia di Treviso, Il Poligrafo, Padova, 1988, p. 30.

73 I. CACCIAVILLANI, Op. Cit., p. 36. Questo “ginepraio di particolarità” era un elemento da conservare

insieme alla subordinazione della classe aristocratica, in quanto «l’autonomia amministrativa e politica non va mai disgiunta dagli aspetti economici, che spesso (...) la condizionavano», p. 85.

74 Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori. Atti del convegno, Trieste 23-24 ottobre 1980,

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la trasformazione dell’assetto proprietario avrebbe condotto le campagne; al contrario, gli uni pensavano di avere ancora spazio per il ripristino delle loro prerogative in forza di un evento esterno, gli altri si illudevano che la situazione di non ancora spenta prosperità potesse mantenersi in perpetuo. […] agli occhi dei contadini Venezia […] era il simbolo della speranza di poter regolare i conti con i signori75.

Sarebbe comunque necessario indagare le relazioni di interdipendenza, dipendenza, o indipendenza tra i territori veneti prima e dopo la conquista: quello che è certo, è che la Serenissima ha indebolito le città della Terraferma aumentando il loro grado di dipendenza dal Dogado, in primo luogo per ragioni economiche. Infatti, Venezia si era posta al centro di una regione economica, ancora prima che questa si fosse formata politicamente – cosa alla quale avrebbe tentato di provvedere la capitale stessa, senza infine riuscirvi. P. Lanaro ha sostenuto che per comprendere il “caso veneto”, per il quale non è mai stato proposto dalla storiografia tradizionale un modello centralizzato, sarebbe necessario indagare il grado di centralizzazione ed il rapporto tra Venezia e le diverse entità “autonome”, ma questo presupporrebbe l’ammissione dell’esistenza di strutture territoriali le quali,

lontano da forme centralizzanti, possono avere sperimentato come pulsione caratterizzante […] una progettualità di uniformità che, lungi dal realizzarsi, ha lasciato intatte le antiche istituzioni. In tale senso resta la possibilità di interpretare certi processi alla luce della mentalità e della cultura