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L’oratorio di villa Fenoglio Giacomelli Zalla.

PARTE III. LE VILLE DI FIERA

Capitolo 3. Le case padronali di Sant’Ambrogio e di Porto di Fiera.

4.2. L’oratorio di villa Fenoglio Giacomelli Zalla.

Secondo S. Chiovaro, questo oratorio, che ella ha affermato sia stato edificato nel Settecento, costituisce l’elemento di maggior pregio del complesso edilizio sulla Callalta. Esso è servito da cappella, inoltre, quando a metà dell’Ottocento la signora Rosa Fenoglio ha ceduto parte dei suoi possedimenti per consentire al paese di avere un cimitero adeguato, dal momento che in età napoleonica è stata vietata la sepoltura nella chiesa parrocchiale e nelle sue vicinanze. La chiesetta (immagini 4.3), dedicata alla Beata Vergine del Rosario371, sotto il punto di vista architettonico e decorativo appare piuttosto elaborata rispetto a quelle che abbiamo passato in rassegna, e la potremmo accostare a quella di villa Braida: entrambi i proprietari all’epoca dell’erezione dei rispettivi oratori molto probabilmente godevano di una florida situazione economica. L’oratorio di cui ci

369 «Ulteriori iscrizioni lungo diversi piani di circonferenza della campana, riportano i nominativi del

committente Abbadessa Suor Giustina Manzoleni e della fonderia di Bartolomeo Delvai. Queste scarne indicazioni possono far supporre il possesso ad un ordine monacale, ma nulla ci informa sulla comunità religiosa di appartenenza della Abbadessa, sulla sua origine, sulla localizzazione della fonderia», G. TONETTO, A. BELLIENI, Treviso fuori le mura..., Op. Cit., p. 130.

370 L’estimo del 1680 mostra che il proprietario del complesso era il NH Gabriel Contarini, e quello del

1713 l’abate Gio. Domenico Zancariol (ASTV, Comunale, Estimi, b. 241, Corona).

371 Anche un altare della chiesa di Sant’Ambrogio era ad essa dedicato: a Fiera esisteva nel Seicento una

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stiamo occupando rappresenta un esempio particolare: esso spicca decisamente nella sua zona, caratterizzata all’epoca da una bassissima densità abitativa e da abitazioni modeste, anche per quanto riguarda quelle che erano considerate ville, ma che differivano dalle altre solo per le dimensioni e la quantità di terreno alle proprie dipendenze, e, come abbiamo visto, non potevano vantare una fattura pregevole per quanto concerne l’architettura e la decorazione.

La chiesetta, la cui porta principale è posta sulla strada, si trova leggermente arretrata rispetto a questa grazie a quello che potremmo definire un minuscolo sagrato. La sua forma lascia arguire come sia strutturato il piccolo ambiente interno: presenta infatti un’aula rettangolare che sul fondo si allarga nella zona absidale. La facciata rettangolare, racchiusa da una coppia di paraste, si conclude con una trabeazione che reca incisa l’iscrizione “VIRGINI DEIPARAE DICATA ROSARII”, sopra la quale si imposta il consueto timpano triangolare, decorato da due serie di dentelli e un falso oculo al centro. Il portone, abbastanza grande rispetto alle dimensioni della parte frontale della chiesa, era schermato da una grata, come richiedevano i precetti dell’epoca, perché i fedeli potessero vedere all’interno e rivolgere le proprie preghiere alla figura di culto posta sull’altare, ma non potessero accedere allo spazio. Questa porta, contornata da una cornice in pietra, è sormontata da una cimasa sporgente curva e dentellata, sorretta da un paio di mensole a voluta che affiancano il portone. Addossati ai lati della facciata vi sono due ulteriori elementi decorativi alti quasi quanto il portone, affiancati a loro volta da due volute e sormontate da una statuetta ciascuna, le quali però non sembrano avere un significato religioso. Ai lati del corpo di fabbrica, sia dell’aula che dell’abside, si aprono alcune finestre circondate da una cornice in bassorilievo e schermate da grate; sul lato sinistro della chiesetta, sul fondo, si trova invece un piccolo campanile. Per quanto riguarda gli elementi presenti al suo interno, l’oratorio conserva tuttora sul soffitto un affresco monocromo raffigurante l’Assunzione, e un altare marmoreo sormontato da una statua tardoseicentesca della Madonna del Rosario, di buona fattura, e altre due, rappresentanti San Luca e San Francesco, presumibilmente del XVIII secolo. P. Pozzobon ha definito la statua della Vergine un’«opera barocca equilibrata ed espressiva», «senz’altro da collocare alla fine del ‘600, epoca in cui fu costruita la cappella»: un’opera di «alto livello

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artistico» e così apprezzata che nel secolo scorso ne è stata tratta una copia lignea per la chiesa parrocchiale, da porre in una cappella da poco aggiunta alla sua struttura372.

Lo studioso, quando ha datato l’oratorio di Porto e la statua della Madonna alla fine del Seicento, ha corretto quanto avevano sostenuto R. Ros e S. Chiovaro, e non ha sbagliato: ci sono infatti alcuni documenti, conservati presso l’Archivio Vescovile di Treviso, a confermarlo. La chiesetta risale infatti al 1692, anno in cui Santo Beltramelli, proprietario della casa dominicale situata nel luogo detto “il Paradiso”, ha inoltrato una supplica per l’edificazione di un oratorio presso la propria abitazione, di modo da poter assistere agevolmente alle funzioni sacre anche nel periodo delle piogge, durante il quale la Callalta diventava impraticabile e spostarsi fino alla parrocchiale, sebbene la distanza non fosse troppa, poteva risultare difficoltoso, sia a quella famiglia che alla gente di Porto, motivo per cui tale oratorio è stato poi detto anche “pubblico” (nell’istanza, per l’appunto, Beltramelli specificava che la chiesetta sarebbe stata costruita sulla Callalta, con una porta che desse sulla strada, per permettere l’orazione sia alla gente del luogo che ai viandanti). Per rendere l’idea di quanto tale problema fosse sentito anche dalle autorità, basti prendere visione delle date di invio della supplica e della rispettiva risposta: Beltramelli ha scritto la sua istanza alla Commenda di San Giovanni del Tempio (dato che anche parte del territorio di Porto era sotto la sua giurisdizione) il 2 luglio del 1692, e la licenza, fornita da Fernando Sugana, notaio trevigiano e vicario generale della Commenda, recava la data del 4 luglio del medesimo anno (documento 7, appendice373).

Sappiamo che non era l’unico oratorio in zona: è infatti del 1774 (documento 8, appendice374) un’istanza, inoltrata da Paolo Balbi, patrizio veneto residente a Fiera, che aveva come oggetto la richiesta al vicario di recarsi al suo oratorio privato (costruito “nel Palazzo”) per celebrare la messa, posto che il luogo sacro fosse dotato di tutti i paramenti necessari. Dalla lista che ne segue possiamo anche immaginare come si presentasse all’interno l’oratorio, e che tipo di decorazioni e oggetti contenesse: l’altare doveva essere in pietra, completo della sua pala e adeguatamente “adornato”, doveva esservi un calice in argento possibilmente dorato e i paramenti di stoffa necessari; qualora l’oratorio fosse sprovvisto di qualcosa, si sarebbe dovuto fare presente il problema alla Cancelleria

372 P. POZZOBON, La chiesa di Sant’Ambrogio di Fiera..., Op. Cit., p. 61. 373 AVTV, Cavalieri di Malta, b. 13.

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competente che avrebbe provveduto ad ovviare la cosa, per permettere lo svolgimento della messa.

Altri documenti riguardanti l’oratorio Fenoglio e redatti nel Settecento trattano invece delle funzioni sacre che potevano essere svolte al suo interno: alcuni, come quello del 25 luglio 1708 (documento 9, appendice375), parlano solo di questo, specificando in quali ricorrenze il parroco di Fiera dovesse celebrare la messa nella chiesetta; altri, come quello del 22 giugno 1765 (documento 10, appendice376), trattano di nuovo di istanze personali inoltrate dal proprietario: in quel caso Gabriele Trevisan domandava si potesse celebrare la messa in occasione della ricorrenza di San Giovanni Battista, oltre a quelle che già abitualmente venivano tenute, in quanto era un particolare desiderio della di lui madre, che, anziana e malata, ormai non riusciva più a recarsi alla chiesa parrocchiale.

Abbiamo in seguito il documento che testimonia la visita pastorale del 1753 nel colmello di Porto, e che fornisce una buona descrizione del nostro oratorio (documento 11, appendice377): anzitutto, a quella data, il proprietario del complesso era Gabriele

Trevisan, gentiluomo veneziano. La chiesetta, intitolata alla Beata Vergine del Rosario, conteneva al suo interno l’altare in pietra viva, sormontato da una statua della Madonna, sempre in pietra: è stato in tale occasione che il vicario Giuseppe Bocchi ha ordinato la disposizione di un ripiano sul quale porre la statua, di modo che non fosse a diretto contatto con l’altare. Vi erano inoltre diverse reliquie: una della Ss.ma Croce, completa della licenza di autenticità per poterla esporre, e altre che, però, dal momento che non erano dotate della medesima licenza, dovevano essere tolte alla pubblica venerazione. Era presente il consueto calice d’argento dorato, con piede in rame, corredato dalla biancheria e dai parimenti sacri necessari per la celebrazione dei riti. Nel medesimo documento si cita anche un altro oratorio di Porto, di proprietà di Pietro Daino378, ma tale chiesetta, ora scomparsa, si trovava in mezzo ai campi, e non su una strada ai tempi abbastanza importante, bensì una consortiva, e infatti si evince dallo scritto che non fosse tenuto in

375 AVTV, Cavalieri di Malta, b. 13.

376 AVTV, Parrocchia di Sant’Ambrogio di Fiera, b. 174, fascicolo 6. 377 AVTV, Cavalieri di Malta, b. 5.

378 È possibile scorgere tale oratorio nella mappa della villa di Porto sia del Callegaris che del Rizzi, al

mappale 24. «Doveva essere dedicato alla Beata Vergine del Buon Consiglio: così almeno risulta da C. AGNOLETTI (vol. I p. 513). C’è chi sostiene che esso fosse molto antico e che si trovasse presso un convento; questa seconda ipotesi troverebbe conferma nell’edificio ad arcate disegnato accanto alla piccola chiesa», è stato comunque trasformato in una stalla e successivamente demolito. Questo è quanto ha affermato P. POZZOBON, nella nota a pagina 43 de La chiesa di Sant’Ambrogio di Fiera..., Op. Cit.

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particolare considerazione: l’altare era di fattura abbastanza buona ma “senza coltura”, e i paramenti erano tenuti “sotto chiave” dal proprietario, nonostante si trattasse di una chiesetta pubblica.

Tornando a noi, i documenti successivi risalgono alla metà dell’Ottocento, quando la villetta era dei Fenoglio: precisamente, si tratta di una carta del 1850 e di una presumibilmente degli stessi anni, forse del 1857, dal momento che la carta utilizzata e la calligrafia sono le stesse di un atto che vedremo tra poco; anzi, parrebbero proprio due parti del medesimo documento (documenti 12 e 13, appendice379), e mostrano le suppliche della signora Rosalia Silvano Fenoglio per poter assistere quotidianamente alle funzioni liturgiche presso il suo oratorio (che però lei descrive come intitolato all’Immacolata Concezione) dal momento che, essendo di età avanzata e soffrendo quindi degli acciacchi della vecchiaia, le era impossibile raggiungere la chiesa di Sant’Ambrogio. Chiedeva inoltre che tale concessione fosse estesa anche al resto della famiglia, ai domestici e ai viandanti.

L’ultimo documento, datato 26 luglio 1857 (documento 14, appendice380), si

riferisce all’atto di cessione della signora Fenoglio, con il quale, nel 1846381, concedeva

parte delle sue terre alla chiesa di Sant’Ambrogio, per poter ivi costituire il cimitero di paese, dato che con il decreto napoleonico di Saint-Cloud del 12 giugno 1804382 non era più possibile, per questioni igieniche, seppellire i morti nella chiesa e nelle sue vicinanze. In seconda battuta il documento cita l’avvenuta morte del figlio di Rosalia, Pietro, a Oderzo nel 1857: si era disposto che le sue ceneri fossero trasportate nella casa di Porto, e tumulate nell’oratorio, insieme a quelle del resto della famiglia. Come sappiamo, il cimitero ha ospitato i morti di Fiera dalla data che ho indicato, ma non erano state ritrovate

379 AVTV, Parrocchia di Sant’Ambrogio di Fiera, b. 174, fascicolo 9 (entrambi). 380 Idem.

381 A quanto pare: e non nel 1809, come ha scritto C. Scantamburlo nella sua tesi; si veda ASTV, Comunale,

b. 3772, 29/4/1846.

382 L’editto di Saint Cloud (o Décret Impérial sur les Sépultures) ha raccolto in due corpi legislativi le

precedenti norme sui cimiteri. Ha stabilito che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati (e “il Paradiso” si prestava particolarmente bene a tale scopo: non solo per una questione che potremmo definire quasi spirituale e poetica, ma proprio perché tale zona era così definita a causa della sua amenità). Il decreto è stato esteso al Regno d'Italia dall'editto Della Polizia Medica solo il 5 settembre 1806. Vediamo però che tra tale pubblicazione e la concessione della signora Fenoglio sono passati quarant’anni: in quell’arco di tempo, e precisamente dal 1809, infatti, i cadaveri che giacevano in prossimità della chiesa di Sant’Ambrogio erano stati trasportati e tumulati presso un grande cimitero che era stato costruito fuori da Treviso, a sud, in zona San Lazzaro (chiamata nei registri dei morti conservati presso la parrocchia di Fiera “ai Lazzaretti”). Quando il 29 aprile del 1846 è avvenuta la concessione del terreno, i morti sono di nuovo stati trasportati a Fiera; la benedizione ha avuto luogo quello stesso 16 luglio.

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fino a quel momento (o forse addirittura compilate) le pratiche che permettessero la costruzione di un sepolcro per la famiglia Fenoglio all’interno della chiesetta, che, da quel periodo, è divenuta anche cappella a servizio del cimitero. Il cimitero di Porto è stato in funzione fino al 1923383, poi il suo posto è stato preso da un orto: è ancora visibile però il suo muro di cinta, a destra della chiesetta, leggermente arretrato rispetto ad essa. Da questo cimitero, secondo la testimonianza di Mario Botter riportata nella citata opera di P. Pozzobon, proveniva il bassorilievo cinquecentesco (e mutilo) raffigurante un leone marciano in pietra d’Istria, ora murato nella parete laterale esterna della chiesa di Sant’Ambrogio: una delle ultime testimonianze dello stretto legame tra Fiera di Treviso e la Repubblica di Venezia.

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CONCLUSIONI

È difficile tentare di chiudere una ricerca di questo genere, dal momento che, come abbiamo visto, molte sarebbero ancora le tematiche da analizzare e gli spunti da approfondire. Tuttavia, a qualche conclusione si può affermare di essere giunti: essendo partiti dall’esame delle opere specifiche sul borgo di Fiera, si è dovuto in un certo senso cercare e provare a “colmare” le loro lacune, le quali vertono per la maggiore sullo studio della documentazione archivistica e cartografica. Inoltre, dato che ben poco si sono concentrate sulla realtà delle case dominicali, è stato necessario indagare quei documenti in questo senso, accompagnando tale analisi a quella che poteva essere tentata su altri aspetti relativi alle ville. Negli studi precedenti, infatti, non è stata tentata una disamina esatta dei documenti cartografici riguardati la zona, ma solo, a volte, degli estimi: ne sono risultate dunque ricerche molto approfondite ma unilaterali, concentrate solo sulla storia locale (con particolare interesse al periodo medievale, meno a quello moderno) o sull’economia della zona, con l’esame delle singole attività senza però l’approfondimento della storia delle famiglie proprietarie e del contesto in cui tutto ciò accadeva. È da qui che ho voluto far partire la mia ricerca, e in questo senso spero di poterla ampliare.

È stato quindi molto utile addentrarsi nella realtà locale moderna, occupandosi in prima battuta dell’organizzazione territoriale trevigiana, sia dentro che fuori le mura, della gestione amministrativa e fiscale imposta dal governo veneziano, delle problematiche derivate dagli interventi cinquecenteschi alle mura, per poi rivolgere l’attenzione su come sono stati trattati questi aspetti nella specifica realtà di Fiera. Questo borgo era, in sostanza, un luogo di frontiera, un paese che, nonostante facesse parte fisicamente della Zosagna di Sotto, amministrativamente ed economicamente era gestito in maniera simile a Treviso, e godeva però di un certo grado di autonomia anche sotto il punto di vista dell’assetto urbanistico, soprattutto dopo i fatti di Cambrai; differente era la situazione di Treviso infra moenia, in quanto la città era completamente sottomessa al governo veneziano, essendo gestita da un suo rappresentante e avendo una classe dirigente autoctona che non aveva quasi nessuna autorità nella gestione degli affari interni.

Grazie all’esame di cartografia ed estimi, e attraverso una disamina della situazione della prima periferia trevigiana per quanto riguarda la zona della Zosagna, abbiamo visto che quest’area aveva conosciuto, durante l’età moderna, la massiccia espansione

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veneziana, che avrebbe portato i nobili della laguna all’acquisto di molte proprietà fondiarie e produttive. Tale espansione non ha impedito però alla classe agiata e media, sia trevigiana che veneziana, di accaparrarsi col tempo qualche possedimento ed accrescerlo, una volta iniziato il decadimento del potere dell’aristocrazia della Serenissima, nonostante la sua posizione nell’entroterra veneto fosse sempre stata privilegiata, soprattutto sotto il punto di vista fiscale, dal governo lagunare. Quello che è emerso, dicevamo, è stato un contesto che ben poco può essere paragonato a quello delineato dalla storiografia tradizionale quando si è occupata delle grandi ville venete: nel nostro caso non incontriamo infatti dimore prestigiose che hanno influito pesantemente sul territorio circostante, ma case padronali piuttosto modeste - ancorché fornite di fondi agricoli ed attività economiche importanti per il borgo e sufficienti al sostentamento della famiglia del padrone e dei suoi sottoposti – che, invece che diventare “cellule generatrici della corripondente maglia territoriale”, si sono inserite piuttosto gentilmente nel sito prescelto, senza apportarvi modifiche strutturali significative, ma sfruttando comunque al meglio quanto esso poteva offrire.

E Fiera aveva certamente molto da offrire: grazie alla presenza del Sile e della rete idrica corrispondente, molto curata, e alla vicinanza del centro cittadino, era provvista di uno scalo portuale considerato importante fino allo scorso secolo e di un mercato annuale tra i maggiori della prima periferia trevigiana. Erano quindi diverse le attività produttive fiorite in questo luogo, soprattutto quelle legate all’acqua, come i mulini o gli squeri, infatti alcune delle dimore esaminate le avevano inglobate all’interno delle loro proprietà: villa Bassan ospitava i Fermo di Cani, famiglia di barcari per generazioni che ha avuto la possibilità, grazie ai proventi della propria attività, di edificare una casa padronale e utilizzarla anche per altre attività economiche. A villa Cornaro, forse la più antica, invece, dimoravano i livellari della Commenda, i quali si occupavano di agricoltura e degli squeri alle dipendenze della stessa. Villa Piovesan, posta sull’ansa vicino al luogo ove era collocato il porto, è stata una casa di villeggiatura per qualche tempo, e probabilmente solo nel Novecento è stata utilizzata come deposito e sede per le attività economiche della famiglia che vi abitava. Queste tre abitazioni, poste sul Prato della Fiera o tra questo e la restera, hanno dimensioni e fatture modeste, segno del fatto che non dovessero costituirsi come progetto territoriale, economico e culturale per il sito, quanto un’espressione contenuta dello status raggiunto dai proprietari, che riconoscevano in primis il senso della

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collocazione della villetta in funzione delle attività alle sue dipendenze e dei vincoli cui il luogo era sottoposto.

Villa Benes Comirato aveva nel Settecento diversi fondi ed anche alcune botteghe nell’area alle sue dipendenze, mentre nel Novecento è stata utilizzata come semplice casa di villeggiatura, avendo la famiglia del proprietario acquistato anche la villetta adiacente rendendola il centro delle attività molitorie sul tratto dello Storga che ha sempre diviso i due appezzamenti. Il fondo di villa Fenoglio invece, l’unica provvista di oratorio, era dedicato alla sola agricoltura, essendo il terreno circostante il migliore della zona (era infatti conosciuto come “il Paradiso”). Questi due complessi edilizi, posti sulla Callalta nella frazione di Porto, uno dei quali a ridosso di un corso d’acqua, avrebbero potuto essere più grandi e soggetto di modifiche territoriali, dal momento che si trovano in un sito senza vincoli determinanti e con sufficiente spazio a disposizione: tuttavia, lo sviluppo è avvenuto diversamente, anzi, in modo molto simile al caso di Sant’Ambrogio: anche in questo caso i proprietari, che quasi sempre facevano parte della borghesia, hanno concentrato i loro interessi sull’acquisizione dei fondi e delle attività produttive e sulla gestione di queste, invece che sul lavoro di ampliamento e decorazione della dimora per farle fare quel salto di qualità che avrebbe permesso di definirla quale “villa veneta” a tutti gli effetti. Insomma, a Fiera, da sempre luogo di passaggio abitato da chi si occupava delle attività economiche che l’hanno interessato fin dal Medioevo, non si era mai sviluppata una “cultura di villa” per questi motivi e per rispetto verso la stessa morfologia della zona, che aveva permesso invece lo svilupparsi ed affermarsi, nel corso nei secoli,