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PARTE III. LE VILLE DI FIERA

Capitolo 3. Le case padronali di Sant’Ambrogio e di Porto di Fiera.

3.1. Sant’Ambrogio durante l’età moderna.

3.1.3. Villa Piovesan.

Villa Piovesan Zamuner (immagini 3.14), conosciuta durante il Settecento come “palazzetto dei Lin”, si affacciava su un’ex “marezana”, o renaio, della restera, detta all’epoca “la bassa”, poco prima del luogo ove si trovava il porto. L’abitazione è stata restaurata durante il secolo scorso e convertita recentemente al solo uso residenziale, ma sul lato ovest (il retro, verso il Prato) si conservano ancora i bassi corpi di fabbrica che erano i magazzini a supporto dell’attività artigianale della famiglia Piovesan (armatori che vantavano numerose proprietà a Fiera durante il Novecento). E. Pupo nella sua tesi di laurea ha affermato che in origine proprietaria del complesso fosse la famiglia Lin: l’aveva costruito accanto al renaio condiviso con i Savoldello, e poi lo ha ceduto, all'inizio dell'Ottocento, a tale Panagiotti Paico, che l’ha utilizzato solo come casa di villeggiatura. Partendo dai primi dati a disposizione, dobbiamo ricordare che non abbiamo la possibilità di sapere quale fosse l’aspetto della dimora fino al Novecento, in quanto le mappe d’estimo del Sei-Settecento di Sant’Ambrogio o non esistono, o sono mutile proprio nella parte del Prato. Le uniche mappe che possiamo consultare sono quelle dei Savi ed

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Esecutori alle Acque all’Archivio di Stato di Venezia275, le quali però non mostravano

alcunché dal momento che si concentrano sul fiume, e le abitazioni venivano rappresentate in maniera schematica come nel Catasto Napoleonico e Austriaco.

Cominciando con l’estimo del 1713, la proprietà è segnata alla particella 33276 come

“Ca’ Lin”, in parte affittata e in parte utilizzata come “loco dominical”, comprendente una casa con della terra annessa che si trovava tra la restera “a mattina”, i Saondelli (Savoldello, alla particella 35, che affittavano a Iseppo Grigoletto) “a mezzogiorno” – quindi di fianco, sulla restera -, i Tomieta (Piero Tomiato, alla 38, il quale però risiede nel “Borgo Altilia”) “a sera”, i Lin “a monte” (sul retro, verso il Prato), e il tutto era affittato a Pasqualin Reato277, la cui numerosa famiglia era livellaria e proprietaria di diversi fondi a Sant’Ambrogio: Giovanni Maria, suo parente, è infatti annoverato tra i “privati locali”. È in questo periodo che le case padronali hanno iniziato ad essere chiamate “ca’”, anche in casi come questo, in cui le dimensioni della dimora erano modeste; ma probabilmente qui si faceva riferimento allo status dei proprietari in primis, i Lin, forse la nobile famiglia venuta da Bergamo e iscritta alla nobiltà nel 1686.

Andando a ritroso, consultando il libretto di perticazione redatto nel 1681, la particella 33278 apparteneva a Zuanne quondam Domenico Bonocchio, la 35 ad Antonio Savoldelli di Venezia, mentre i Reato si trovavano alla 27, e quelle circostanti per la maggior parte erano in mano agli stessi proprietari di trent’anni dopo. In questo caso, un aiuto, seppure piccolo, viene dalla mappa del 1673, che mostra, proprio su quel lato del Prato, le abitazioni (rese in maniera molto stilizzata) dei Reato – qui definiti Reatti – e di Bonocchio279. Ne deduciamo che il possedimento che era stato dei Bonocchio

275 Come il disegno dell’Ingegner P. Lucchesi risalente al 31 luglio 1781: ASVE, S.E.A., Sile, 168/23/52. 276 ASTV, Comunale, Estimi, b. 252, c. 412r.

277 Il Pasqualin Reato che muore nel 1751 a 80 anni (APF, Libro dei Morti 1702-1751). 278 ASTV, Comunale, Estimi, b. 243, c. 7r.

279 Una minima conferma in proposito: nella mappa del 1673 la prima abitazione a comparire su quel lato

è quella dei Sarato, mentre dopo quella di Bonocchio vi sono due casette, una livellaria della chiesa di Santa Caterina di Treviso, e una intestata a tale Foscan: facendo un confronto con l’estimo del 1681, scopriamo che la particella 25 (che doveva trovarsi proprio in quel luogo, appena prima di quelle analizzate) apparteneva proprio a tale Panolino (o Paolino) Sarato – l’uomo di comun che ha accompagnato il meriga e Calligaris nella redazione dell’estimo -, mentre la 37 era di Donna Anzola vedova di Menego Canciano, che pagava il livello a Santa Caterina in solidum con il cognato Lunardo “fratello d’esso ser Menego d’essa Fiera”. Alla 40 c’era Michiel Foscan (uxorio nomine), un “hoste in Treviso”. Nell’estimo del 1713 alla particella 25 abbiamo una casetta che Francesco Negrizzioli da Venezia affittava a due locali (Iseppo Saratto è ancora in zona ma di lui non c’è traccia nemmeno nelle particelle contermini), alla 37 e alla 40 troviamo Domenico Dall’Aglio (il quale possedeva anche la 39, 41, 42, 43), livellario di Santa Caterina, che affittava la prima ad Antonio Pavan, e la 39 a tale Canzian (forse quel Canciano di cui si diceva prima?), che però pagava il livello alla Scuola del Santissimo di Fiera. Dobbiamo ricordare che questi spostamenti

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sicuramente dalla data del 1673 ed a quella del 1681, sia passato pochi anni dopo ai Lin, i quali lo avevano affittato in parte ai Reato, che comunque fino a qualche tempo prima avevano una casetta lì vicino. I Savoldello, invece, che non compaiono nella mappa del 1673 (come d’altronde molti altri), li vediamo alla particella 35 nel 1681 e nel 1713.

Nel sommarione del Catasto Napoleonico280 alle particelle 51, 52 e 64 figura il già citato Panagiotti Paico quondam Andreonico281, padrone di una casa da villeggiatura (quella di cui stiamo parlando, la 64), una casa da fattore ed un orto, occupanti le particelle sul retro. Nel Catasto Austriaco282 le medesime particelle sono intestate alla signora Rosalia Silvano Fenoglio (la proprietaria di villa Fenoglio Giacomelli Zalla, che vedremo più avanti), la quale aveva moltissime proprietà anche a Sant’Ambrogio. È però lecito supporre ella non vivesse in questa villetta, che, invece, affittava come le altre proprietà a Sant’Ambrogio. Il censimento del 1871 nomina invece tale Nicolò Piovesan, fabbricatore: potremmo ipotizzare si trattasse dell’avo dei fratelli Piovesan che hanno acquisito la proprietà nel Novecento (o forse prima?) e l’avevano trasformata nella base del loro piccolo impero imprenditoriale. Tra l’altro, grazie ai registri parrocchiali di Fiera, scopriamo che i Piovesan erano presenti in loco già dal Settecento (nell’estimo del 1713 alla particella 30 Zuane Cian e Domenico Piovesan hanno in affitto una casa colonica e del terreno da Paolo Veronese: è difficile – se non impossibile – provare si trattasse della stessa famiglia, ma lo segnalo solo per indicare la presenza di questo cognome in zona all’epoca); tuttavia, questo era ed è un cognome molto diffuso a Treviso, e dobbiamo tenere presente la possibilità non fosse la stessa famiglia.

Passando agli aspetti architettonici, la dimora, a due livelli e secondo E. Pupo di impianto tardo-settecentesco, presenta uno schema planimetrico a pianta rettangolare ed è stata ampliata verso nord all’inizio dell’Ottocento, come documenterebbero alcuni elementi che sembrerebbero estranei all’impianto originario (ad esempio la torretta

vanno tenuti da conto fino a un certo punto, perché con il passare del tempo e l’aumentare dei proprietari i possedimenti si sono frazionati e moltiplicati.

280 ASVE, Catasto Napoleonico, Sommarioni, b. 1071.

281 Paico o Paicò. Ho trovato nel Libro dei Battesimi 1795-1858 custodito all’Archivio della Parrocchia di

Fiera il documento di battesimo dei gemelli Andrea e Domenico del signor Lorenzo Paccò di Giuseppe: potrebbe trattarsi forse di un membro della stessa famiglia? Anche se sarebbe difficile dirlo, dal momento che Panagiotti Paico quondam Andreonico sembrerebbe la forma italianizzata di un nome straniero. Altro dato: nell’elenco dei proprietari di Fiera del 1834 (ASTV, Comunale, b. 2914), è scritto che la casa 132 era stata affittata da Fortunato Fermi a Paicò Lorenzo.

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d’angolo che ospita i servizi, le finestre a mezzaluna sul fronte laterale, la terrazza sul fronte posteriore).

La facciata principale283, che dà direttamente sull’ansa del Sile, mostra finestre rettangolari ordinatamente disposte secondo un impianto simmetrico e tripartito e unite tra loro da fasce marcadavanzale, e raggruppate per coppie sono distribuite lateralmente rispetto all’apertura centrale, una coppia per piano, corrispondenti alle quattro stanze angolari: la distribuzione degli interni è dunque quella “classica”. Si distingue la monofora al centro del primo piano, che assume le dimensioni di una portafinestra dal profilo centinato con poggiolo. Sopra la cornice modanata che conclude la facciata si imposta al centro un volume timpanato che presenta un piccolo foro ovale al centro della parte d’imposta, più un motivo quadrilobato al centro della parte triangolare. Il portale d’ingresso è corrispondente alla porta finestra del primo piano, ed è leggermente più basso rispetto alle finestre del piano terra. Confrontando un’immagine attuale con una dell’inizio del Novecento che è stata riportata nella tesi di laurea di E. Pupo284, notiamo

che, almeno per quanto riguarda la facciata, vi è stato un piccolo cambiamento: sono state recuperate due piccole aperture che originariamente erano a fianco della porta d’ingresso, motivo molto comune nelle case dominicali extraurbane; esse infatti non si vedono nella fotografia in bianco e nero, che, peraltro, mostra anche la dimora in stato di abbandono. Ciò potrebbe farci supporre che i Piovesan avessero rilevato la proprietà intorno alla metà del Novecento, o poco prima, visto che avevano fatto fortuna con la guerra.

Gli altri lati della casa mostrano schemi differenti, o meglio, non seguono nell’organizzazione alcuno schema particolare: il lato sinistro, che dà sul giardino di un’altra proprietà, mostra due aperture per piano poste vicino all’angolo sul retro più due canne fumarie (la casa infatti è dotata – ora come all’inizio del Novecento – di quattro camini, uno per angolo). Il lato destro, che dà sulla stradella interna B, è diverso: le due finestre per piano sono in questo caso divise dalla seconda canna fumaria, e si vede inoltre il corpo aggiunto sul retro leggermente aggettante sulla strada rispetto al volume della casa. Tale fabbrica ospita una finestra architravata in mezzo a due più piccole centinate, e si conclude con una torretta d’angolo munita di aperture circolari, la quale ospita il vano

283 Pupo ha detto che lo schema della villetta sia di impostazione post palladiana (p. 66): non mi è chiaro il

senso di tale affermazione, ma forse sta ad indicare l’abbandono del modello della villa-tempio verso l’acquisizione di un modello più dimesso, ma sempre identificabile grazie al mantenimento di alcuni elementi architettonici decorativi, come il frontone o la tripartizione della facciata e degli interni.

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scale ed ha un lucernaio a forma piramidale. Di fianco a questa, sul retro, vi è una terrazza piuttosto ampia impostata su un ulteriore basso corpo di fabbrica aggiuntivo. È interessante a questo punto soffermarsi un momento sui permessi che si richiedevano durante l’Ottocento per poter compiere rimaneggiamenti e restauri sulle abitazioni, e sulle disposizioni date in merito: ne ho confrontati parecchi nelle buste delle Licenze per Fabbriche conservate presso l’Archivio di Stato di Treviso, e ho notato che vi erano alcune norme di base per poter procedere con i lavori: potrei quindi ipotizzare fossero state previste anche per villa Piovesan (qualora abbia subito rimaneggiamenti nel XIX secolo). Anzitutto la documentazione doveva essere accompagnata da un disegno tecnico riproducente la costruzione nei dettagli, almeno nel prospetto. Si veda ad esempio un documento del 1852285 indirizzato alla Congregazione Municipale: si presentava un “disegno prodotto per innalzamento e riduzione della casa in Sant’Ambrogio di Fiera marcata al civico numero 149”, che era stato approvato, a patto che si seguissero i seguenti dettami:

1) Il tetto deve essere munito di doccia con cannoni fino a terra; 2) I fori finti devono essere muniti di vetro oscuro;

3) I serramenti da porta e finestra al pianterreno devono aprirsi dal di dentro; 4) I serramenti finti o veri dipinti con tinta uniforme.

Osservando le foto di villa Piovesan, vediamo che tali regole, per quanto a volte dettate solo dal buon senso, sono state rispettate. Ora, concludendo questa parte sulle dimore di Sant’Ambrogio, sembra semplice capire il motivo per cui queste possano essere definite “case padronali”: le dimensioni sono contenute e le forme architettoniche modeste, il giardino e la tipica scala d’accesso mancano, le fabbriche a loro disposizione erano – e sono - pochissime. Le attività economiche, più che dipendere dalla dimora vera e propria, erano una realtà del luogo da cui piuttosto la villa dipendeva, tanto che potremmo ipotizzare fosse stata edificata di conseguenza, invece che per dare corpo a un progetto economico e territoriale come nel caso delle “ville maggiori”, le quali sfruttavano quanto vi era già in zona a livello sia agricolo che industriale, ma a cui davano in un certo senso un centro e una regolamentazione. Nel caso di Fiera invece le abitazioni avevano dovuto adattarsi alla realtà e agli spazi locali, che erano stati definiti secoli prima

285 ASTV, Comunale, b. 4549, Licenze per Fabbriche. Sezione XII, capo numro 491, anno 1850, b.1,

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e difficilmente avrebbero potuto mutare, dato che su quegli aspetti e quelle attività si fondava la raison d’être e l’attrattiva del borgo.