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1 IL CONFINE ORIENTALE ITALIANO DALL'UNITA' AL 939

1.10 L’IMPRESA DI FIUME

Successivamente all'insediamento del governo Nitti, nel momento in cui l'Italia era scossa da un'ondata di scioperi ed agitazioni operaie, a Fiume scoppiarono ripetutamente gravi incidenti tra le truppe italiane e quelle francesi; sembrerebbe che le provocazioni fossero partite dei francesi che però contarono tra le loro perdite, negli scontri del 6 luglio 1919, ben nove morti. Agli scontri aveva partecipato anche la popolazione civile ed almeno due francesi erano stati uccisi quando ormai si erano arresi ed erano disarmati. In seguito agli scontri e al loro esito le truppe italiane vennero invitate ad abbandonare Fiume, azione che avrebbe indebolito ulteriormente la posizione dell'Italia nei negoziati107. Nella

città il ritiro dei Granatieri di Sardegna venne accompagnato da grandi dimostrazioni di folla, vestita di bianco rosso e verde, con le donne che si gettavano in ginocchio dinanzi ai partenti supplicandoli di non lasciarle nelle mani dei croati e i bambini che si aggrappavano alle loro gambe e li afferravano per le mani. Le nuove truppe italiane che avevano sostituito i granatieri vennero accolte da analoghe dimostrazioni di intenso entusiasmo.

105M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 133.

106P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, cit., pp. 50 ss.

107R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: l'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma,

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In questa situazione, Gabriele D'Annunzio, che già da diversi mesi aveva assunto posizioni ultra-nazionaliste, rivendicando addirittura tutta la Dalmazia, si mise a capo di un movimento di ufficiali e truppe rivoluzionarie108.

Nella stessa Fiume erano già giunti ex combattenti, favorevoli ad una prova di forza per risolvere il problema fiumano: dietro le quinte agiva la Trento e Trieste, che si dava da fare per arruolare battaglioni godendo dell'ambiguo appoggio dell'autorità di occupazione. Ufficialmente l'esercito fiumano fu costituito il 12 giugno ed il Consiglio Nazionale chiese allo scrittore Sem Benelli di prenderne la responsabilità organizzativa: questi rifiutò poco dopo l'incarico e di conseguenza vennero presi accordi con D'Annunzio che accettò di mettersi a capo delle formazioni armate illegali a Fiume. La candidatura di D'Annunzio era gradita anche ai comandi delle forze di occupazione, senza il cui tacito appoggio ogni colpo di mano sarebbe stato impossibile109. Tali manovre rientravano nei

piani eversivi che caratterizzavano la situazione politica nell'estate del 1919, in cui la ripresa delle ostilità al confine orientale aveva un ruolo importante: vi saranno coinvolti, a diverso titolo, D'Annunzio, Emanuele Filiberto duca d'Aosta (che sarà a capo della III armata), il generale Giardino, l'ammiraglio Cagni, Luigi Federzoni e Benito Mussolini.

Anche nell'opinione pubblica del Regno Fiume era già dal tempo della firma dell'armistizio il simbolo delle rivendicazioni italiane sull'Adriatico, e attorno al nome della città irredenta si coalizzò tutto l'interventismo, dalla destra alla sinistra: nel suo nome sembravano esprimersi tutte le motivazioni che avevano condotto l'Italia all'intervento.

Ufficiali, truppe ribelli e volontari si trovarono a Ronchi e da qui marciarono su Fiume, avendo rapidamente ragione del personale ai posti di blocco italiani: per protesta le forze dell'Intesa abbandonarono la città. Il massimo finanziatore dell'impresa era stato l'uomo d’affari triestino Oscar Sinigaglia, che dopo il giugno 1918 era stato caposervizio al Commissariato armi e munizioni, e che era a capo del Comitato per le rivendicazioni nazionali, trasformatosi poi nella Lega italiana per la tutela degli interessi nazionali.

108C. Ghisalberti, Da Campoformio a Osimo. La frontiera orientale tra storia e storiografia,

Edizioni scientifiche Italiane, Napoli 2001, pp. 169 ss.

109R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: l'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma,

55 La città di Fiume visse nell'anno dell'occupazione dannunziana un'epoca peculiare, sottratta alla banalità del quotidiano. A Fiume confluivano cercatori di fortuna, eccentrici, violenti, reduci che non volevano smobilitare, pregiudicati, ma si viveva in uno stato d'animo di entusiasmo collettivo. Un particolare impatto ebbe l'avventura fiumana sull'elemento nazionale della Venezia Giulia, tanto che dalla sua Trieste alcune centinaia di giovani si unirono ai legionari110.

Inoltre l'esperimento fiumano sembrava rispondere alla parola d'ordine «né destra, né sinistra», vi avevano aderito infatti anarco-sindacalisti come Giulietti e De Ambris, nazionalisti come Federzoni, elementi militari, futuristi e fascisti. Il comune denominatore dell'impresa restava quella «configurazione più bella della vita», in nome di un superomismo estetizzante e di una fusione tra duce e massa che per la prima volta veniva sperimentata nel microcosmo fiumano. Fiume sembrava incarnare l'esaurirsi della promessa di una rigenerazione della nazione attraverso la guerra: le speranze che l'interventismo aveva collegato alla partecipazione al conflitto sembravano ora reinventarsi nella «città olocausta»111.

La politica assumeva a Fiume una dimensione totalizzante e collettiva: la città viveva in uno stato di perdurante baccanale, cui il “Comandante” attribuiva la valenza simbolica di «sovra realtà», di realtà al livello superiore. A Fiume «la politica si intreccia indissolubilmente alla promessa di una vita diversa», viene praticata l'idea della vita come festa inebriante, come continua trasgressione delle norme e liberazione degli istinti, di danze spontanee e musica112.

Il governo Nitti reagì inizialmente all'impresa cercando di prendere tempo ed evitare una soluzione violenta: il 13 settembre il vicecapo di Stato maggiore Badoglio era stato nominato commissario militare straordinario per la Venezia Giulia ed incaricato di recarsi a Fiume per ristabilire l'ordine nella città. Badoglio prese una serie di misure volte ad evitare altre defezioni nell'esercito di stanza nelle terre liberate e rinsaldarne la disciplina; Fiume venne isolata dalle comunicazioni telefoniche e telegrafiche e vennero introdotti blocchi stradali. In Italia l'impresa di Fiume venne accompagnata da comizi delle associazioni patriottiche, nazionaliste e di reduci, mentre reagivano con distacco e disinteresse i sindacati e partiti di sinistra.

110P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 75 ss. 111M. A. Ledeen, The First Duce. D’Annunzio at Fiume, The John Hopkins University Press,

London 1977 cit. in M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 151.

112C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Il Mulino

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Le trattative portate avanti da Badoglio non sortirono alcun esito, e nel frattempo i ribelli tentarono di allargare il moto oltre Fiume. Come già riportato, il 23 settembre un centinaio di legionari, armati di mitragliatrici, compivano un colpo di mano a Traù, fuori dalla zona di occupazione italiana, provocando due morti tra i serbi. La città venne occupata dagli americani e nell'esercito iniziavano a riscontrarsi segni di inquietudine e di vacillante disciplina: nel Regno l'attenzione dell'opinione pubblica si concentrava sull’ondata di agitazioni operaie e sociali, che sembravano preannunciare una situazione prerivoluzionaria113.

Nella riunione del Consiglio della Corona del 25 settembre Nitti denunciava con preoccupazione la scarsa affidabilità dell'esercito e della marina nei territori occupati, a cui aggiungeva il pericolo di un colpo di mano serbo:

«[…] si segnalano parecchi tentativi militari in Dalmazia finora limitati o repressi senza violenza, ma in via di diffusione rapida. Il secondo fatto è che si notano in parecchi punti movimenti di truppe jugoslave, non solo verso Fiume, ma verso l'Albania e la Dalmazia […] La situazione interna dello Stato serbo-croato può forse essere causa di guerra, o almeno di eccitazione alla guerra»114.

Il governo italiano ribadiva a più riprese l'italianità di Fiume, mostrandosi disponibile ad accettare la soluzione dello Stato libero e cercando di fare opera di persuasione sugli elementi moderati del Consiglio Nazionale in funzione antidannunziana; anche in Parlamento nessuno appoggiò la proposta di dichiarare l'annessione di Fiume, temendo i contraccolpi di un isolamento diplomatico. Di fronte a queste circostanze D'Annunzio si fece più intransigente: i suoi attacchi a Nitti (o «Cagoia» come era solito chiamarlo), si fecero violentissimi e nei suoi propositi sovversivi venivano coinvolte le stesse istituzioni dello Stato, facendo divenire Fiume un miscuglio di trame eversive di ogni genere115.

Badoglio non era in grado di garantire la disciplina sull'esercito e il 26 settembre in un dispaccio a Nitti scrisse di non poter «assolutamente garantire che non passino a D'Annunzio quante truppe egli vuole»116.

A Fiume e in Dalmazia la situazione andava precipitando: fra il 13 e il 14 novembre 600 uomini del presidio fiumano guidati da D'Annunzio, Rizzo e Reina sbarcavano a Zara, dove le truppe regolari aderivano al movimento; anche

113R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: l'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma,

cit., p. 539.

114P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, cit., pp. 325 ss.

115R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: l'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma,

cit., p. 539.

57 l'ammiraglio Millo si schierò dalla loro parte, parlando alla folla e salutando l'allargamento del movimento dannunziano alla Dalmazia, arrivando a telegrafare a Nitti un messaggio in cui con questo suo atto egli reputava di aver agito da italiano e da soldato.

Nitti intanto perseverava con i suoi tentativi per giungere ad un compromesso con gli elementi moderati del Consiglio nazionale, sulla base della costituzione dello Stato libero con ampia autonomia al suo interno per la città di Fiume e della continuità territoriale tra lo Stato libero e l'Italia117.

L'avventura fiumana si stava avvicinando alla sua fase finale: i legionari, che erano stati 10.000 al culmine dell'impresa abbandonavano ormai Fiume alla spicciolata; la maggior parte della popolazione era favorevole a concludere la vicenda con la soluzione di compromesso prospettata dal governo italiano e i più qualificati tra i collaboratori di D'Annunzio ne avevano preso le distanze.A Fiume D'Annunzio godeva ormai solo dell'appoggio di legionari irriducibili, decisi a condurre la loro rivoluzione alle estreme conseguenze.118

L'8 settembre 1920, Fiume si dotò di una propria Costituzione, la Carta del Quarnaro, dovuta in larga misura alla penna di Alceste De Ambris: questa aveva come base il principio dell'autogestione e della valorizzazione del lavoro produttivo. La sovranità dei cittadini vi veniva proclamata indipendentemente dal sesso, razza, lingua, classe o religione. La maggior parte delle funzioni pubbliche avrebbe dovuto venire espletata al massimo livello di decentralizzazione possibile. Molto avanzati erano i principi sociali, a cui la carta si impegnava: tutti i cittadini di Fiume avrebbero avuto diritto all'istruzione, all'educazione fisica, ad un salario sufficiente a vivere in contropartita ad un minimo di attività lavorativa, all'assicurazione contro le malattie, gli incidenti, la disoccupazione e la vecchiaia. La musica vi era dichiarata istituzione religiosa e sociale, la bellezza avrebbe dovuto pervadere ogni nuova costruzione, restauro o ornamento119.

Dopo la firma del trattato di Rapallo la situazione fiumana non era tuttavia più tollerabile, e anche Mussolini prese le distanze da D'Annunzio, vedendo ormai in lui un concorrente scomodo e pericoloso. Giolitti intervenne a porre fine all'occupazione ed in poco tempo l'avventura fiumana ebbe termine: D'Annunzio aveva però aperto la strada della manipolazione di massa con mezzi parareligiosi,

117P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, cit, p.338.

118M.A. Ledeen, The First Duce. D’Annunzio at Fiume, op.cit., pp. 185-187. 119M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 159.

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e Fiume può essere considerato il laboratorio per le più importanti tecniche del consenso messe in atto dal regime fascista. Tuttavia, il fascismo riprese dal movimento dannunziano solo l’impalcatura esterna, mentre l'elemento centrale del fascismo italiano, il culto dello Stato totalitario, fu del tutto estraneo alla concezione politica di D'Annunzio120.

Mentre si riprendevano le trattative per giungere ad un compromesso sulla questione di Fiume, con la presentazione di controproposte jugoslave e controdeduzioni francesi ed inglesi, scoppiò in Italia la crisi che avrebbe portato alla caduta del ministero Nitti: in occasione dell'anniversario dell'entrata in guerra, una violenta manifestazione di studenti universitari a Roma venne repressa con rigore dalla forza pubblica con morti da ambedue le parti. Nei giorni successivi venne ordinato l'arresto di tutti cittadini fiumani e dalmati presenti in Italia: la misura fu applicata in modo drastico e non risparmiò neppure le donne e i bambini, innescando una dura polemica contro il governo sulla stampa nazionalista; Nitti cercò di correre ai ripari ricevendo una delegazione fiumana e facendo trasferire in Sicilia il questore responsabile della retata, ma ormai la sua posizione era compromessa. Il 9 giugno il governo veniva messo in minoranza su un decreto che prevedeva l'aumento del prezzo del pane e l'11 giugno 1920 Giovanni Giolitti riceveva l'incarico di formare il nuovo governo, con al Ministero degli Esteri il conte Carlo Sforza121.

La vicenda adriatica giunse ad una temporanea conclusione qualche mese dopo quando, attraverso le rispettive ambasciate a Vienna, nell'ottobre 1920 gli jugoslavi vennero informati che l'Italia, desiderosa di chiudere la questione era disposta a fare ulteriori concessioni rinunciando a Fiume e riconoscendo la sovranità dell'Albania; in cambio, gli jugoslavi avrebbero dovuto accettare la linea di confine sul Monte Nevoso, dato il suo significato strategico122.

Il 12 novembre a Villa Spinola (oggi conosciuta anche come Villa del trattato), nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo, si riunirono ancora Trumbić e Sforza, oltre a Giolitti e al ministro della guerra Ivanoe Bonomi per l'Italia e Milenko R. Vesnić (presidente del Consiglio) e Kosta Stojanović (Ministro delle Finanze) per la Jugoslavia; verso la mezzanotte si firmò un

120R. De Felice, D’Annunzio politico 1918-1938, Laterza, Roma-Bari 1978. 121P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, cit., pp.470-476.

122I.J. Lederer, La Jugoslavia dalla Conferenza della pace al Trattato di Rapallo 1919-1920, cit.,

59 trattato, in 9 articoli, che confermava praticamente ciò che era stato deciso a Parigi123. Il trattato che si apriva con la formula «Il Regno d'Italia e il Regno dei

Serbi, Croati e Sloveni, desiderando stabilire tra loro un regime di sincera amicizia e cordiali rapporti, per il bene comune dei due popoli [...] hanno convenuto quanto segue», prevedeva il confine al Monte Nevoso secondo il tracciato originario del

Patto di Londra in Istria, le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta e la

sovranità di Zara. In Dalmazia l'Italia rinunciava ad ulteriori pretese, ma gli italiani della Dalmazia potevano optare per la cittadinanza italiana rimanendo in loco. Ciò garantiva loro una tutela ben superiore a quella accordata per trattato alle altre minoranze europee. Fiume venne dichiarata città libera, mentre la Jugoslavia otteneva il vicino porto di Porto Barros124.

1.11 L’AFFERMARSI DEL FASCISMO SUL CONFINE