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L’impresa come mente collettiva

Pur nella grande varietà delle storie e delle strategie imprenditoriali praticate dal campione di aziende coinvolte nella ricerca, emergono alcuni sentieri evolutivi di fondo che possono aiutarci a spiegare i modi attraverso cui le reti della conoscenza e i soggetti che con esse lavorano vengono messi a valore dentro il meccanismo dell’im-presa. Si possono così individuare tre modelli evolutivi nei quali a diverse strategie di messa a valore del design, sebbene tutte entro i confini del passaggio dal modello della catena a quello della ragnatela del valore, si accompagnano differenti sentieri di evoluzione delle forme organizzative in cui si articolano le strutture intelligenti dell’impresa.

«Accanto alla distribuzione più tradizionale di rivenditori, ne abbiamo circa 4000 al mondo, da una decina di anni abbiamo iniziato questa strategia di punti Kartell monomarca e anche di shopping shop all’interno dei migliori rivenditori, quindi aree dedicate all’interno dei rivenditori. Questa strategia sta andando molto bene, abbiamo più di 100 monomarca al mondo. La monomarca ti permette soprattutto di associare il prodotto al marchio, di dare più l’idea della collezione, dare la filoso-fia del marchio. In questo modo possiamo controllare la nostra immagine dandone una percezione uguale in tutto il mondo»(Kartell). Anche l’organizzazione di eventi pubblici e la captazione di circuiti culturali e scene creative informali rappresentano una strategia sempre più utilizzata soprattutto dalle imprese dal brand più conso-lidato per vestire il proprio prodotto di significati e rappresentazioni in grado di suscitare identificazione nel cliente. Tutto ciò muta le strategie di rappresentazione: la tradizionale partecipazione ai momenti fieristici in funzione dell’esposizione del prodotto cede terreno ad una attenzione all’evento come momento di costruzione di relazioni e di monitoraggio dei mutamenti del gusto.

Sempre all’interno dell’ lite storica dell’industria é design-based, si differenzia in parte il caso dei grandi brand del car design torinese come sicuramente la Pininfarina. Il brand rimane simbolo di esclusività per le fasce alte della clientela. La principale differenza di queste aziende rispetto al precedente segmento, dovuta ovviamente alla loro diversa natura (produttrici di contenuti di design più che utilizzatrici), sta sicuramente nel carattere quasi totalmente “interno” ai confini aziendali dell’or-ganizzazione del design. Come mostra il caso della Pininfarina, sono imprese che hanno sperimentato un processo evolutivo deciso nelle forme organizzative con l’introduzione dei gruppi di lavoro e quindi rendendo sicuramente più poliedrica e complessa la stessa figura del designer.

«Ormai siamo in un mondo di assoluta poliedricità. Quando ho iniziato a fare que-sto lavoro, negli anni ottanta, non c’erano neanche i gruppi di lavoro. C’erano archi-tetti, designer che lavoravano in modo segmentato. Poi i gruppi sono iniziati negli anni novanta e in Italia eravamo in ritardo. In America c’erano già. Mi ricordo che i primi designer che ho assunto – negli anni novanta – erano quasi tutti stranieri perché erano operativi. Cioè, conoscevano il software, i programmi e il modo di lavorare in gruppo. In Italia era tutta gente che aveva fatto architettura e che non conosceva niente. Eravamo indietro di cinque anni però, devo dire, poi abbiamo recuperato e adesso vedo che da queste scuole di design escono ragazzi mentalmente preparati»(Pininfarina Extra).

Infine un caso che pur rientrando nel novero dell’ lite dei grandi é brand presenta caratteristiche distinte, per certi versi intermedie, è invece la milanese Caimi Brevet-ti, azienda che unisce la produzione interna di contenuti di design con il ricorso alla progettazione esterna non limitata però alle grandi firme.

Il design come vettore del mutamento organizzativo

Un secondo sentiero evolutivo è rappresentato da quelle aziende che se da un lato producono – per lo più internamente – i contenuti di design e ricerca, dall’altro si caratterizzano soprattutto per una capacità di mutamento organizzativo dei pro-pri gangli intelligenti in risposta alle pressioni ambientali. L’esempio delle torinesi Sparco e Ferrino appare emblematico. Soprattutto nel caso della Sparco funzioni e strutture di design sono inserite nelle strategie dell’azienda come risposta a sfide ambientali che ne hanno messo in discussione la performance. Partita come piccola azienda costituita a partire dalla passione sportiva di due ex piloti nel 1977, l’azien-da compie un primo salto nel biennio 1998-2000 quando la crescita improvvisa del volume d’affari e l’internazionalizzarsi del proprio mercato la spingono verso un processo di formalizzazione dei saperi e degli skill professionali interni. Vengono assunti due ingegneri e si rafforzano le reti con il Politecnico di Torino. Per far fronte alle nuove esigenze l’azienda deve abbandonare la precedente cultura tecnica fondata su saperi taciti.

Nel 2003, in risposta all’entrata nel proprio mercato di riferimento di due competitor che fondavano la loro strategia sul design, l’azienda è spinta ad aggiungere alla pro-pria originaria vocazione tecnico-ingegneristica la cultura del disegno industriale: «Sostanzialmente tutti i player e competitor del mondo racing erano marchi dedicati all’aspetto tecnico. Nel 2003 due marchi come Puma e Alpinestar decidono di entra-re nel mondo racing soprattutto per raggiungeentra-re quella visibilità che il mondo delle corse avrebbe consentito. Quello che questi due marchi hanno portato non è stata l’innovazione tecnologica, è stato proprio il design. Il fatto che due aziende di design fossero arrivate nel nostro mondo ha fatto sì che qualcuno si mettesse a giocare sui nostri prodotti le sue carte più importanti. Ciò ha generato nei piloti una necessità diversa che a questo punto non era più tecnica ma era anche di design. Quindi anche noi abbiamo dovuto capire che il mercato stava virando verso aspettative diverse e per questo per la prima volta abbiamo assunto una designer presa dallo IED, con cui abbiamo iniziato ad instaurare stabili relazioni dirette per reclutare gli stagisti» (Sparco).

L’azienda rafforza quindi ulteriormente le proprie reti con l’università per incre-mentare il reclutamento di designer e ingegneri. Un aspetto interessante è poi che questa apertura viene sostenuta come strumento di flessibilizzazione e innovazione delle conoscenze e dei saperi aziendali estendendo soprattutto l’utilizzo delle tecno-logie di rete.

E proprio attorno all’utilizzo delle tecnologie digitali e di rete si sviluppa il suc-cessivo mutamento organizzativo dell’azienda. Mentre fino al 2007 l’organizzazio-ne interna della ricerca sul prodotto e della progettaziol’organizzazio-ne era centrata su un’unica struttura con ridotta specializzazione che riuniva sia la funzione di marketing che la ricerca tecnologica sotto la supervisione della figura ibrida di manager-professio-nista (product manager), a partire dal 2008 la struttura si specializza con la

costitu-zione di tre divisioni distinte: la divisione racing, la più importante con il 65 % del business orientata al prodotto, la divisione tuning orientata alla personalizzazione degli accessori per le macchine sportive e la divisione dedicata alla reti con le aziende costruttrici. In ognuna delle divisioni viene assunto un professionista dello sviluppo del prodotto (responsabile del processo di innovation and quality finalizzato alla programmazione annuale dell’innovazione di prodotto), del marketing, delle pub-bliche relazioni e un designer.

In questa struttura il profilo del design, pur rimanendo fortemente legato alla forma del prodotto, diviene più complesso. Esso si ibrida con la cultura tecnica, che però nel caso in questione in coerenza con il modello genetico dell’impresa mantiene la sua preminenza, tanto che le funzioni tecniche e di design vengono comunque tenute separate. La necessità di coordinare una struttura divenuta complessa ha portato a sviluppare software di lavoro che incrociano le diverse competenze e soprattutto a sviluppare un processo di innovazione centrato sul lavoro trasversale di team. Desi-gner, product manager, marketing cooperano lungo tutto il processo. Ciò porta ad estendere ruolo e competenze del design lungo l’intero arco dell’innovazione fino alla progettazione della fase commerciale. I ruoli e le professionalità si incrociano in modo sostanziale.

«Il percorso si articola in una riunione al mese che parte da una serie di idee, passa attraverso la validazione delle idee, la validazione del progetto e degli investimenti, la prototipazione, la validazione del prototipo. Durante il processo i designer e i product manager lavorano insieme perché in realtà una cosa non può esistere senza l’altra. Tutti e due con il marketing fanno parte di questo processo nella sua pletezza, partecipano a tutte le riunioni e alle tappe di confronto con la parte com-merciale. Quindi il designer non è una figura che può intervenire alla fine, ma deve partecipare a tutto il processo perché deve captare da tutte queste riunioni» (Sparco). Anche l’interscambio comunicativo rispetto alla clientela diventa fondamentale: gli input dei piloti nel caso dell’azienda in questione costituiscono una delle fonti di innovazione del prodotto e delle sue caratteristiche tecniche normalmente utilizzate.

Grandi firme e design di massa

Un terzo tipo di strategie è quella che caratterizza grandi brand manifatturieri che tuttavia, differentemente dal segmento delle lite, utilizza il design come leva comé -petitiva sul mercato del consumo di massa. All’interno del nostro campione è, ad esempio, il caso di player globali come Basic Net o Lavazza. Aziende con pluriloca-lizzazione globale che esternalizzano in reti globali di subfornitura la produzione (integralmente Basic Net, solo in parte Lavazza) ma hanno mantenuto e incremen-tato funzioni di progettazione, ricerca, sviluppo del prodotto. Differentemente dal segmento dell’ lite storica, queste aziende adottano strategie di é insourcing delle fun-zioni di ricerca e progettazione.

L’aspetto più interessante di questo modello appare, anche qui come nel caso prece-dente, l’esplosione del profilo professionale tradizionale del design e la sua ibridazio-ne con professioni e saperi confinanti dentro la struttura dell’intelligenza aziendale. BasicNet è un’impresa-rete che organizza reti globali di subfornitura. È un modello in cui il design trova anzitutto un “limite naturale” di cultura produttiva proprio nel carattere di contractor non direttamente produttivo dell’azienda. Ad esempio, in BasicNet non producendosi più nulla il limite è che «noi non possiamo sviluppare internamente perché non siamo più un’azienda che ha apparati produttivi propri e quindi ci appoggiamo alle realtà industriali che sono quelle con cui noi poi collabo-riamo» (BasicNet).

Insomma il progressivo allontanamento dell’attività manifatturiera vera e propria costituisce un “limite” dato il carattere generalmente poco codificato del design. E così, in questo modello, il design si allunga e insegue la produzione. La progettazio-ne percorre le reti di fornitura per andare a posizionarsi progettazio-nelle realtà industriali che producono su commessa dell’impresa-rete. Questo porta il designer a trasformarsi in una figura dai saperi e dalle competenze sempre più poliedriche che deve associare la progettazione classica al management e alla tecnica di gestione delle reti produt-tive. Il designer diventa così un professionista sviluppatore oltre che professionista creativo. Il designer progetta ma poi deve seguire il suo progetto attraverso la diverse fasi fino al momento distributivo. Si sfondano i confini tra le competenze richieste. Queste si allungano a coprire l’intero ciclo come nel precedente modello.

«Quindi da noi si fa design ma si fa soprattutto sviluppo. I ragazzi che collabora-no con me socollabora-no dei designer ma socollabora-no anche degli sviluppatori; nel loro biglietto da visita non c’è scritto design anche se parte del loro lavoro è disegnare, ma sono degli sviluppatori. Perché chiunque di noi si disegni, si concepisca una collezione è la stessa persona che se la va a sviluppare nella situazione industriale in cui si produce effettivamente. Quindi sono persone che disegnano, pensano, seguono gli approcci della parte commerciale» (BasicNet).

Un quarto sentiero di utilizzo del design piuttosto trasversale a tutte le aziende intervistate è poi quello che interpreta prevalentemente la cultura del progetto come vettore di disegno delle relazioni di comunicazione e di scambio tra impresa e con-sumatore. È una concezione del design che, nel nostro campione, emerge soprattutto nel caso di una grande impresa terziaria, una vera e propria media company come Seat. Qui il design diventa un processo di comunicazione mirata in cui l’azienda tenta di esplorare gusti e culture che influenzano il cambiamento dei consumi. Per Seat il cuore di tutto il processo cognitivo interno è il marketing, nel senso che è la fase commerciale e della gestione dei flussi informativi raccolti sul mercato che poi orienta il successivo passaggio alla progettazione del prodotto editoriale.

«Il cuore parte dal marketing, il marketing ha l’idea del prodotto e quali devono essere i contenuti di questo prodotto. Lo stesso prodotto viene poi sviluppato in pro-totipo e testato. Tutta questa parte viene fatta con delle persone che si occupano di

progettazione industriale, progettazione che porta al prodotto finito» (Seat Pagine Gialle). In un’azienda di questo tipo la tendenza è internalizzare l’attività di ricer-ca: Seat produce all’interno 85%. Eppure, per Seat, il salto e l’innovazione intesa l' come scostamento dalle procedure consolidate fluisce dall’esterno attraverso le reti di consulenza con gli studi di graphic o web design oppure attraverso il turn over dei componenti del nucleo creativo interno; turn-over che l’azienda auspica come vet-tore di innovazione. E, tuttavia, è da sottolineare che le reti cognitive che l’azienda proietta verso l’esterno non implicano semplice complementarietà nel rapporto con i fornitori esterni: l’opera di questi ultimi si inserisce entro l’orientamento strategico definito dall’azienda.

La formazione

L’impresa utilizza conoscenza prodotta esternamente e nel medesimo tempo si con-figura come una istituzione dotata di una propria cultura. I casi aziendali esaminati mettono in evidenza pur con differente enfasi, l’importanza della congruenza tra la propria identità culturale e i contenuti del design comprati esternamente oppure veicolati dai nuovi professionisti che si inseriscono nell’organizzazione aziendale. Tutte le imprese intervistate, trasversalmente ai sentieri evolutivi e alle forme di organizzazione del design descritte, investono fortemente nella formazione delle proprie figure di knowledge worker.

In primo luogo va sottolineato come lo stage in azienda venga segnalato in entrambe le aree metropolitane come il fondamentale canale di reclutamento dei professionisti interni. È da segnalare che la tendenza a costruire formali reti di scambio e reclu-tamento con il mondo universitario sia diffusa in modo particolare tra le imprese dell’area torinese.

Insomma l’impresa pur pescando molto dal mondo delle grandi fabbriche del sapere metropolitane, si trova comunque nella necessità di ri-processare le competenze for-mali acquisite dal professionista in ambito scolastico e universitario.

È da notare altresì che la formazione pur essendo intensa avviene quasi esclusiva-mente entro i confini aziendali e attraverso modalità on the job caratterizzate da grande informalità, per lo più attraverso l’inserimento del giovane professionista entro i team di lavoro interni. Sono molto più rari invece i casi in cui viene segnalata la partecipazione organizzata ad attività formative esterne.

Ma quali sono i saperi richiesti? Se dal punto di vista del capitale educativo formale (il titolo di studio) le competenze richieste appaiono prevalentemente tecnico-inge-gneristiche (lauree in ingegneria e architettura), è anche vero che tutti gli intervistati segnalano la rilevanza delle competenze “relazionali” nella valutazione del profes-sionista interno. Il curriculum conta ancora molto inizialmente, ma nella valutazio-ne successiva entrano in gioco altre variabili. Dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale è poi da osservare che in quasi tutte le aziende intervistate lo sbocco finale del meccanismo dello stage è l’assunzione stabile a tempo indeterminato.