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Il lavoro creativo nel design che cambia

Pure nelle differenze analitiche gli studiosi concordano nell’individuare le carat-teristiche salienti del mutamento di paradigma produttivo, in estrema sintesi, nel passaggio da un modello fondato sulle grandi unità per la produzione di beni dure-voli destinati al consumo di massa e sul lavoro industriale verticalmente integrato e concentrato nello spazio, a un modello che si fonda sulla produzione di servizi e conoscenza, organizzato in reti multi-livello (internazionali, transnazionali, sub-regionali) e spazialmente diffuse. La crisi delle economie di scala come one best way per soddisfare le domande sempre più differenziate dei consumatori è alla base del tramonto della produzione di massa e dell’affermarsi di modelli di accumulazione (e specializzazione) flessibile. In questo quadro di trasformazioni macroeconomiche s’inscrive la crescente rilevanza acquisita dalle funzioni creative e legate all’innova-zione (di cui il design è parte integrante a pieno titolo).

Il concetto di design si è fatto sfuggente. In un buon dizionario inglese, i significati attribuiti al vocabolo coprono un continuum di possibili fasi e sub-fasi delle moderne catene del valore: creare, inventare, formulare, adattare, ingegnerizzare, pianifica-re, attribuire un significato, evocapianifica-re, modellapianifica-re, disegnapianifica-re, destinare etc. To design, quindi, non attiene solamente alla forma ma impatta sulla sostanza degli oggetti, delineandone funzionalità, ambiti di applicazione, caratteristiche qualitative e sta-tus. Le professionalità di cui è possibile avvalersi, pertanto, insistono su un etero-geneo spettro di saperi, che investe attività ingegneristiche, di layout del prodotto, comunicative, psicologiche, persino sociologiche.

Dall’engineering al fashioning, tutto può definirsi design. Il termine design, però, oggi assume soprattutto un significato che allude al processo di differenziazione qualita-tiva delle imprese, alle strategie di distinzione dai concorrenti, all’apertura di nuove nicchie, segmenti d’eccellenza con barriere all’entrata intangibili, fatte di dettagli e storia, eppure difficilmente valicabili. Il quid immateriale, legato a ricerca e capacità distintive sia di produzione, sia di market signaling, capace di condurre l’azienda al raggiungimento di rendimenti crescenti e dimostrare il reale livello qualitativo del-le proprie merci, permettendo al consumatore di superare i fenomeni di sedel-lezione avversa, nonché di associare all’atto consumistico il raggiungimento di uno status. Per avere cittadinanza nella società dei consumi e del benessere, infatti, le perso-ne sono disposte a corrispondere un differenziale di prezzo rispetto alle alternative “industriali”.

Non può pertanto stupire che diversificazione e innovazione abbiano tanta parte nel connotare una delle funzioni chiave per affermarsi nei mercati. L’economia glo-bale, infatti, non si nutre dell’universale standardizzazione di prodotti, processi e conoscenza, ma è piuttosto un sistema che genera maggiore divisione del lavoro e specializzazione tra luoghi, poiché premia la ricerca di apporti originali e non ripe-titivi all’interno dei reticoli globali. Diversificare e innovare prima, connotare poi, sono leve immateriali per alzare i sentieri della crescita territoriale. Il processo d’in-novazione può aver luogo sia per progressi tecnologici, sia per quanto concerne le funzionalità degli oggetti (anche in virtù di nuove applicazioni sviluppate da tecno-logie esistenti), sia a livello di layout del prodotto o di politiche di comunicazione al cliente. Infatti, consumo e produzione, ormai lontani dalla ricerca delle “necessità”, si estendono verso gli orizzonti aperti dai desideri, dove si dilatano le possibilità di sofisticazione (upgrading qualitativo) e innovazione (tecnologica o killer application). Il processo di costruzione di valore, pertanto, si rimodella, da “catena” si fa “ragnate-la”, attraverso l’estensione delle fasi e dei soggetti coinvolti, per fare del design un’at-tività di costruzione e organizzazione di dispositivi di scambio con l’utente-cliente finale. Se la produzione di massa aveva nelle imprese i suoi laboratori di ricerca e sviluppo, oggi anche il consumo diventa laboratorio di innovazione. Ripercorrendo la storia delle aziende affermatesi in questo settore trasversale, si trovano svariati esempi di evoluzione dall’originario connubio artigiano-industriale a “multinazio-nale tascabile”, flessibile nella filiera e innovativa nel prodotto. Altri, viceversa, par-tendo dai saperi sedimentati nel territorio, sono diventati professionisti della creati-vità e dell’analisi antropologica finalizzata a captare quei bisogni “latenti” che tanta parte giocano nelle economie esperienziali odierne.

Vi sono poi le “firme” affermate, innovatori del passato recente che godono di presti-gio e fama mondiali. È così che in questi territori del “produrre qualificando”, dove l’ondata della globalizzazione fa sentire i suoi spazi più per l’espansione dei mercati che per la pressione dei concorrenti, troviamo aziende design-based, che «hanno fat-to del design il loro asset primario, basando su quesfat-to tutte le decisioni strategiche

relative a sistema competitivo, sistema di prodotto e struttura aziendali» (Lojacono, 2002).

Il percorso di ricerca ha inteso esplorare, senza pretese di esaustività o completezza, l’eterogeneo panorama delle attività produttive che, nel tempo e seppur con profon-de differenze, hanno connotato le aree metropolitane di Milano e Torino, come luo-ghi ove il Made in Italy manifatturiero terziarizzato ha saputo proiettare le imprese italiane nei mercati internazionali. È indubbio che di fronte alla duplice sfida della globalizzazione dei mercati e della “smaterializzazione” del valore, il capitalismo manifatturiero “di territorio” italiano è stato ed è chiamato a grandi mutamenti. In questo contesto il design diviene risorsa cruciale per accompagnare il sistema produt-tivo nella nuova fase. Ma lo stesso mondo del design è a sua volta spinto a profondi mutamenti riguardanti sia la natura della sua funzione nel processo di valorizzazio-ne sia le modalità del suo rapporto con l’impresa produttiva. In molti hanno parlato di “democratizzazione” del design intesa in un duplice significato: come processo di superamento dei confini ristretti delle nicchie del lusso per approdare ai mercati di massa, e come formalizzazione dei saperi e allargamento del bacino di reclutamento con la moltiplicazione delle istituzioni in cui il design viene insegnato. È lecito tutta-via avanzare alcune riserve nei confronti di questa immagine. Su questo argomento si tornerà a breve.

Al centro della riflessione proposta nelle pagine seguenti, prima che le imprese e le loro strategie, sono le concrete figure del lavoro creativo. Le imprese, tutte, destinano ormai una quota di lavoro e risorse sganciata dagli obiettivi produttivi immediati, il cui compito è produrre l’innovazione e il cambiamento (di contenuti, immagine, tec-nologia, ecc.) da utilizzare come base per la creazione di nuovo valore. Secondo alcu-ni studiosi (Foray, 2006) è proprio la presenza di questo lavoro a foralcu-nire sigalcu-nificato alla tesi dell’economia fondata sulla conoscenza. E sono questi lavoratori, interni ma spesso esterni alle mura dell’impresa, chiamati a mettere sotto sforzo le loro capacità e attitudini creatrici, a costituire il nucleo di riferimento per la grande narrazione sulla «classe creativa» (Florida, 2003). Oltre la retorica sulla creatività e l’immagine un po’ stereotipata dei giovani che producono valore trattando segni, linguaggio e immaginario, occorre verificare se in questi anni nelle nostre città si sia affermato – o sia in via di affermazione – un gruppo professionale in grado di accrescere il porta-foglio delle competenze locali. E parallelamente analizzare le materiali condizioni che favoriscono o ostacolano la riproduzione allargata di questo bacino di saperi. Il potenziale competitivo delle aree metropolitane, sempre più, appare collegato alla capacità di riprodurre in modo allargato queste risorse, il cui bacino d’incubazione è sempre meno rintracciabile nei centri stile aziendali e sempre più nelle reti e nelle istituzioni della conoscenza che innervano lo spazio metropolitano. È ad essi dun-que che prioritariamente la ricerca si rivolge, nell’auspicio che possa contribuire ad alimentare non solo il dibattito sulle nuove professioni, ma anche fornire un piccolo apporto per incrementare il ruolo “pubblico” dei lavoratori della creatività.