In quale senso è possibile affermare che i lavoratori della conoscenza «stanno alla metropoli come l’operaio fordista stava alla catena di montaggio»? (Berta, 2007) Al di là degli elementi problematici presenti nella sua analisi, uno degli aspetti di maggiore interesse proposto dagli studi di Richard Florida consiste proprio nell’aver stabilito un nesso tra la dimensione creativa del lavoro e l’ambiente socioculturale in cui è inserito. La sua classe creativa, in altri termini, non è “sradicata” poiché neces-sita di una adeguata infrastruttura sociale. Florida non è stato il primo a porre l’ac-cento sulla relazione tra lavoro creativo e ambiente urbano; altri hanno evidenziato l’impatto dei professional nella definizione di una nuova immagine della città – come «macchina per l’intrattenimento» (Lloyd - Clark, 2001) – o sul ruolo dei nuovi bohè-mien nei processi di gentrification dei centri storici (Lloyd, 2006); altre analisi insi-stono sull’importanza delle attività culturali (pubbliche e industriali) nell’affermarsi di spazi urbani emblematici, i «quartieri culturali» (Roodhouse, 2006). A Florida si deve però, forse, il tentativo di stabilire una correlazione più esplicita tra città e lavoro creativo.
Espandendo il campo di osservazione dai creativi alla più generale composizione dei lavoratori della conoscenza, è da osservare che vi sono numerosi fattori che spiegano la concentrazione nelle aree urbane delle attività più qualificate. Da secoli nelle città hanno sede le organizzazioni pubbliche e i servizi collettivi (università, ammini-strazione, grandi strutture ospedaliere, ecc.) che impiegano una rilevante quantità di lavoro qualificato e professionale. Le politiche di welfare del Novecento hanno inoltre rappresentato un potente fattore di strutturazione delle città (Le Galès, 2002) stabilizzando, anche in quelle a prevalente vocazione industriale come Torino, un vasto strato intermedio economicamente garantito e culturalmente evoluto. Alcune istituzioni sono in continua espansione. È cresciuto in modo rimarchevole, per esem-pio, il numero degli studenti universitari: l’accesso di massa all’istruzione superiore ha riversato nelle città un grande numero di studenti fuori sede nonché di personale addetto alla ricerca e alla formazione (anche se spesso temporaneo e precario). In secondo luogo nelle grandi città si concentrano le attività degli studi professio-nali, di tipo tradizionale (studi legali e notarili, architetti, psicologi, commercialisti, consulenti del lavoro, ecc.) e innovativo (consulenza alle imprese, agenzie creati-ve, studi di design e architettura, società di advertising, pubblicità, media, servizi editoriali e giornalistici, public relations, progettazione, engineering, e via di segui-to). Attività che non richiedono spazi significativi né infrastrutture dedicate; i costi sostenuti per il mantenimento di una sede “in centro” sono bilanciati dai vantaggi
di immagine, dalla posizione baricentrica nel territorio servito, dalla prossimità agli snodi ferroviari. E da quella di poter beneficiare di un ampio bacino di contingent worker costituito da stagisti, neolaureati, giovani disponibili a occupazioni precarie e temporaneamente poco retribuite. Analogamente a quanto rilevato dalla sterminata letteratura sui distretti marshalliani di seconda generazione nell’analisi dei vantaggi competitivi dei sistemi di piccola impresa, anche per le attività di servizi la concen-trazione spaziale genera vantaggi di agglomerazione - circolazione di conoscenza, fertilizzazione incrociata delle idee, trasferimento informativo, contenimento dei costi nella ricerca e selezione del personale, ecc. È su queste basi che alcuni autori, osservando il settore delle produzioni e delle organizzazioni culturali, hanno pro-posto il concetto di «distretto culturale» (Santagata, 2000; Sacco - Ferilli, 2006). Su argomenti non dissimili si basa peraltro il modello della global city (Sassen 2000, 2008), che si caratterizza per la concentrazione delle funzioni di comando e coordi-namento dell’economia globale, ma anche dei servizi specialistici che tali funzioni richiedono (think tank, consulenza, studi legali, centri finanziari, agenzie stampa, ecc.). Si potrebbe osservare che ben poche città europee corrispondono al prototipo della global city. Su scala ridotta le funzioni di coordinamento e di relais tra territo-rio e reti globali si possono però ritrovare anche nelle medie città del Nord Italia, soprattutto se come Torino ereditano dal passato imprese, organizzazioni, servizi di dimensioni importanti e capaci di misurarsi su scale extra-locali.
Il concorso dei fattori sopra elencati, che insistono perlopiù sui vantaggi localizza-tivi delle atlocalizza-tività ad elevato contenuto di lavoro cognitivo, è sufficiente a spiegare in modo esaustivo la concentrazione di lavoratori qualificati nei centri urbani; non spiega però le ragioni per cui designer, produttori di audio-video, pubblicitari affer-mano (Aaster - Torino Internazionale, 2008) di non potere immaginare la loro sede al di fuori di un grande centro urbano. La spiegazione basata sui vantaggi localizza-tivi è pertanto da integrare, focalizzando l’attenzione su altri due elementi: il primo attiene alle peculiarità della produzione della conoscenza nel nuovo capitalismo, il secondo insiste sui modelli culturali dei diversi profili knowledge worker.
Reti sociali e produzione di conoscenza
Tutti gli studi sull’economia della conoscenza hanno individuato tra le sue contrad-dizioni salienti il potenziale conflitto tra saperi aperti e saperi chiusi – la cui circolazio-ne è regolata da diritti di proprietà – pocircolazio-nendo in luce come la produziocircolazio-ne di cono-scenza si nutra dello scambio e della condivisione di informazioni, scoperte, modelli – tra organizzazioni o tra team di ricercatori, specialisti, utilizzatori. La tensione tra saperi aperti e chiusi è considerata, in breve, intrinseca alla economia fondata sulla conoscenza (Foray, 2006).
L’apertura dei saperi e il loro eccedere le enclosures che vorrebbero regolarne il traffi-co è normalmente posta in relazione traffi-con i network di professionisti, tecnici, ricerca-tori. Taluni autori hanno posto in rilievo il ruolo cruciale, nella creazione e
diffusio-ne di conoscenza, delle comunità professionali (David, 2000), altri fanno riferimento alle reti transaziendali (Butera, 1997) o al «trading informale dei segreti aziendali» (Von Hippel), e via di seguito. In sintesi, questi studi hanno “stressato” l’importanza del nesso, nel nuovo capitalismo, tra risorse generate all’interno e all’esterno delle imprese – nonché quello tra sapere non finalizzato e ricerca applicata.
Il giurista liberal della Yale University Yochai Benkler, ha formulato l’idea di una «produzione orizzontale basata sui beni comuni», esaltando le caratteristiche del World Wide Web, da egli individuate nella condivisione, nella centralità delle strategie non proprietarie, nell’eccedenza della cooperazione rispetto al mercato, nell’orizzontalità (Benkler, 2007). Criticando il regime della proprietà intellettuale dipinge il possibile sviluppo di una sorta di «capitalismo senza proprietà», che trove-rebbe in esperienze come Google delle prime esemplificazioni, in tendenza vincenti. Ciò che qui interessa notare (aldilà del punto di vista esprimibile sull’ottimismo della visione di Benkler) è che per tutti questi autori gli ambienti generatori di conoscenza non si risolvono nei confini aziendali. Molti hanno enfatizzato la funzione delle ICT nell’abilitare questo inedito modello d’innovazione cooperativa; è però da osservare che i network professionali e la cooperazione finalizzata a scambiare conoscenza non viaggia solo nelle reti telematiche, ma più sovente si nutre dell’interazione socia-le e dei rapporti face to face. Possiamo in questo senso concludere che i professionisti organizzati in piccole società nei settori ad alta intensità di conoscenza (come media, informatica, design, cultura in genere), ritengono cruciale la localizzazione urbana poiché essa moltiplica le occasioni di scambio, favorisce un più rapido accesso all’in-formazione, l’interscambio tra locale e globale. In breve, funziona come world wide fisico, basato sull’interazione sociale anziché sugli scambi via web.
Con ciò non si intende enfatizzare oltre misura la dimensione cooperativa del lavoro in rete nelle attività knowledge intensive; la rete, a differenza di quello che molti teo-rici dei network sostengono, non è mai perfettamente orizzontale, non escludibile e non competitiva. Essa costituisce senza dubbio un ambiente privilegiato per l’ag-giornamento di competenze e conoscenze («Le reti di relazioni sono fondamentali, perché non è tanto la competenza che serve ma servono i contatti, servono le reti in termini di network»).46 La stessa necessità di divulgare e condividere informazioni e conoscenza, per diventare strategia competitiva dell’attore individuale, deve tuttavia combinarsi con scelte di segretezza. È questo il paradosso dell’economia della cono-scenza: le idee devono circolare ma nel contempo devono essere tutelate. Vale per le imprese, che destinano sempre più ingenti risorse alla tutela dei diritti proprietari; vale per il singolo lavoratore della conoscenza, combattuto perennemente tra scelta cooperativa e defezione. Nella versione autonoma e auto imprenditoriale egli, più ancora delle imprese, «necessita di una «vetrina» dove mostrare le idee, ma anche proteggerle da chi potrebbe saccheggiarle» (CNA in proprio, 2008).
La città come ambiente emblematico
Cogliere fino in fondo le implicazioni del rapporto tra lavoratori della conoscenza (o almeno di una loro parte) e ambiente urbano richiede uno sconfinamento di campo: non è tanto la produzione di contenuti e servizi cognitivi a richiedere una localizza-zione metropolitana, quanto la riprodulocalizza-zione del lavoratore della conoscenza come soggetto portatore di una specifica identità e detentore di saperi distintivi. Ancora più nettamente: nelle città il lavoratore della conoscenza ha maggiori opportunità per produrre se stesso. Gli ambienti urbani offrono infatti una relativa abbondanza di servizi e occasioni per consumi culturali e formativi: è lo spazio emblematico di quella che è stata definita ICE economy (Information Culture Education). Una parte dei knowledge worker è impiegata direttamente in questo circuito, ma soprattutto i lavoratori della conoscenza sono tra i principali fruitori di prodotti culturali e for-mativi. È la loro domanda che alimenta lo sviluppo di quelli che sono stati definiti (Crane, 1997) settori della «cultura urbana» e «periferico» della produzione cultu-rale.47
Ragionare sui lavoratori della conoscenza partendo dal loro complesso rapporto con gli spazi del vivere, dell’abitare, dell’affermare stili di vita e modelli culturali, dun-que, potrebbe fornire indicazioni di valore più generale per l’analisi della società urbana. In particolare l’adozione di un modello «ecologico»48 proposto da alcuni autori (Sassatelli - Santoro - Semi, 2008) per l’analisi della stratificazione sociale e di ceto, basato sulla combinazione di aspetti relativi al capitale economico, culturale e ai modelli di consumo degli attori, potrebbe fornire spiegazioni più convincenti della concentrazione di lavoratori della conoscenza nelle aree urbane di quanto non facciano quelle basate esclusivamente su variabili economiche.
Situando questa prospettiva nello specifico terreno del cambiamento di Torino, un esempio della relazione tra nuove professioni e spazio urbano potrebbe essere fornito dalle preferenze residenziali e dai luoghi di ritrovo e aggregazione di questi gruppi. La rivitalizzazione di alcuni quartieri centrali e il contestuale emergere di aree spe-cializzate nei servizi per il tempo libero – fenomeni giornalisticamente restituiti con l’espressione di movida – può essere in effetti interpretata come appropriazione del centro urbano da parte dei gruppi sociali in possesso di buone risorse economiche e di elevato capitale culturale. Un fenomeno cui normalmente ci si riferisce con l’espres-sione di gentrification (Smith, 1996); nella gran parte dei casi studiati di gentrification tale processo è trainato o anticipato da sottogruppi di trend-setters, perlopiù giova-47 Diane Crane distingue, nella sua analisi della produzione culturale, un settore «centrale», costituito dalle indu-strie che producono i contenuti mediali di massa, da un settore «periferico» (a base nazionale, destinato a gruppi specifici definiti da età e stile di vita) e da quello che definisce «circuito della cultura urbana», prodotta e diffusa in contesti cittadini per pubblici locali (Crane, 1997).
48 Gli autori propongono di considerare il modo in cui si declinano insieme capitale economico (di cui la posizione professionale continua a costituire un valido predittore), capitale culturale e quello che definiscono consumer capital, legato a esperienze e competenze derivanti da pratiche di consumo e non riducibili alle altre due forme di capitale (Passatelli - Santoro - Semi, 2008).
ni, non necessariamente percettori di alti redditi ma quasi sempre con elevato status educativo e culturalmente tolleranti. A trainare la nuova residenzialità nei quartieri glamour, in ogni caso, sono soprattutto professionisti del terziario e giovani istruiti. Ceti che tendono a modellare gli spazi in cui vivono riproducendo habitat culturalmente coerenti con i propri stili di vita e modelli di consumo (cfr. Sassatelli, 2007).49
È altrettanto evidente, uscendo dall’esempio, che queste considerazioni richiamano la necessità di specificare il discorso e riferirlo ai diversi gruppi in cui idealmente possiamo classificare il mondo dei lavoratori della conoscenza. Altrettanto rilevanti, se si vuole, sono le tendenze (anch’esse trainate da lavoratori istruiti e con buoni redditi) alla de-urbanizzazione o alla segregazione volontaria in aree residenziali “sicure” e distanti dai clamori delle zone glamour. Non esiste un solo profilo di ceto medio, fruitore di eventi culturali e di locali à la page. Ci sembra però evidente il ruo-lo esercitato da alcune minoranze, tra cui elevata è la presenza di professionisti, lavo-ratori qualificati, creativi, studenti, nella promozione di una nuova identità urbana, che nella retorica pubblica ha sostituito la grigia Torino industriale, ma che realisti-camente è da leggere come processo di giustapposizione e non di sostituzione.50
È per queste minoranze che forse si può avanzare l’ipotesi di una città come spazio produttivo; non già e non tanto di beni e servizi, ma più propriamente della propria identità sociale, attraverso la combinazione tra risorse formative, culturali e sociali che la città mette a disposizione. Come è stato evidenziato, a tenere insieme pro-fessioni intellettuali, creative, culturali, non sono tanto denominatori socio-tecnici, ma il fatto di essere «comunità di sentimento» che abitano spazi intrisi di emozioni comuni e che disegnano una nuova geografia dei consumi e delle identità. Il «legame è il luogo» più che la professione (Fiorani, 2005).
È a questo punto che ci si può ricollegare ad alcune ipotesi avanzate in sede intro-duttiva e abbozzare una provvisoria chiusura del cerchio. Affermare che la dimen-sione urbana è l’ambiente di riferimento dei lavoratori della conoscenza coglie pro-babilmente un aspetto cruciale delle forme contemporanee di organizzazione nello 49 Non è ozioso, per quanto non costituisca bersaglio di questo contributo, interrogarsi anche sui possibili effetti perversi di questa “rinascita delle città”. La rivitalizzazione dei centri storici procede infatti parallelamente – co-stituendone talora la premessa – a una progressiva espulsione delle fasce a basso reddito o con occupazioni incerte verso periferie frammentate e prive d’identità (Petrillo, 2006). Tali effetti sostitutivi appaiono procedere parallela-mente alla creazione di zone omogenee per caratteristiche socio-culturali dei residenti, come espresso, ad esempio, dall’immagine della «città a tre velocità» proposta dalla sociologia francese (Donzelot, 2004). Tali processi, com’è stato notato, appaiono in generale meno rilevanti nelle città europee che in quelle americane. Non è tuttavia ozioso interrogarsi sulla direzione intrapresa dai cambiamenti e sui suoi possibili esiti. Una convincente lettura del Qua-drilatero come caso di quartiere “che si distingue” (che realizza condizioni “distintive” per i ceti medio-alti a elevato capitale culturale, secondo la classica analisi di Bourdieu) è stata realizzata negli anni passati (Semi, 2004). 50 Sono interessanti le analisi contenute in una recente ricerca realizzata attraverso l’analisi budget time che ha coinvolto 1.830 famiglie torinesi. In essa si evidenzia la relativa continuità, rispetto ad analoghe rilevazioni con-dotte negli anni ottanta, nell’uso del tempo nell’area metropolitana. Questo in realtà continua ad essere fortemente strutturato dal lavoro, laddove si riscontra nella popolazione giovanile un maggiore orientamento al leisure serale e notturno, fenomeno statisticamente rilevante che non costituisce tuttavia un fenomeno di massa o diffuso tra tutta la popolazione (Belloni, 2007).
spazio dell’economia. A patto però di situare questa ipotesi nella molteplicità dei processi che definiscono il campo e le stratificazioni del knowledge working. In sé, un’economia fondata sulla conoscenza non trova particolari vantaggi dall’inse-diamento nelle grandi città: gli input economici che la alimentano (lavoro qualifica-to, tecnologia, skill tecnici e competenze creative) si ritrovano tanto nelle metropoli quanto nelle aree periferiche. Si può piuttosto affermare, certo in modo congettu-rale, che le attività produttive di nuova conoscenza (l’economia della conoscenza in senso stretto) traggono dalla localizzazione urbana il vantaggio della prossimità alle istituzioni pubbliche e private della ricerca e dello sviluppo. È soprattutto la for-mazione (intesa nel duplice senso dell’acquisizione di risorse cognitive e d’identità sociale) dei lavoratori della conoscenza, però, a radicarsi nella dimensione urbana al punto da esserne per molti aspetti consustanziale. Quella che, utilizzando altri ter-mini, abbiamo chiamato “produzione dei produttori” e che si realizza nel complesso gioco tra istruzione, formazione culturale e stili di vita. Un gioco che si radica nei network professionali, sociali e culturali della città inquadrando forme di parteci-pazione, carriere professionali, gruppi sociali. Si può ipotizzare che a questo mon-do corrispondano maggiormente alcune figure professionali e ambienti lavorativi: potrebbe in questo senso essere utile recuperare quella distinzione, a suo tempo pro-posta da Berger (1994), tra una «nuova classe media»,51 e la «vecchia classe media» fondata sugli affari e sulle professioni tradizionali. Motore della nuova classe media, culturalmente formatasi nei movimenti della fine degli anni essanta e dei primi s anni ettanta secondo il sociologo americano, era la s knowledge class impiegata nei settori «a ridosso dell’economia pubblica», da cui dipendeva per reddito e status. Questa analisi può essere appropriabile ed essere situata nella realtà dei nostri knowledge worker urbani: anche per essi infatti è di fondamentale importanza la dimensione “pubblica” dell’economia, laddove con questa espressione non ci si rife-risce al pubblico impiego o all’amministrazione statale (o almeno non solo), quanto all’orientamento verso la realizzazione di obiettivi eccedenti i meri risultati econo-mici. Parliamo delle attività formative in senso stretto, ma anche dei settori cultu-rali e creativi in senso più ampio, dell’editoria, dell’informazione e dei media, della progettazione di servizi collettivi, del design, dell’entertainment, e di quelle dedicate alla riproduzione individuale e collettiva (sanità, assistenza, benessere, ecc). Si tratta di settori che in parte dipendono dal finanziamento pubblico e in parte operano nel mercato dei servizi.
51 Berger faceva riferimento alla crescita, nel settore dei servizi, di un «sottosettore che fornisce servizi non mate-riali, basati sulla conoscenza: “risorse umane”, “immagine aziendale”, “giustizia sociale”, “qualità della vita”, e così via. Le persone occupate in questo settore costituiscono un immenso esercito presente nell’istruzione a tutti i livelli, nella burocrazia, nei mezzi di comunicazione di massa, nell’industria della terapia: dai professori di psichiatria ai consulenti in materia di sesso tra anziani».
È soprattutto a questo tipo di professionista, dunque, che occorre riferirsi quando alludiamo al nesso tra spazio urbano e lavoratori della conoscenza. Un professioni-sta talvolta inquadrato all’interno di grandi organizzazioni, ma altrettanto sovente disperso nelle tante forme in cui è strutturata la produzione contemporanea (reti, studi, piccole società, lavoro autonomo). Queste figure non costituiscono la frazio-ne più numerosa del lavoro contemporafrazio-neo né probabilmente dello stesso variegato universo dei lavoratori della conoscenza. È però all’interno di questi gruppi che si infittiscono i segni peculiari di una composizione del lavoro, altrettanto qualifica-ta ma culturalmente distinqualifica-ta dai professional e dai tecnici dell’economia di mercato in senso stretto, tendenzialmente caratterizzata da valori (se non proprio interessi) comuni e stili di vita convergenti. Una composizione urbana, al cui interno è possi-bile ricercare eventuali processi coalizionali e aggregativi, sia nel campo della tutela degli interessi di gruppo (dove tuttavia le distanze determinata dalla posizione lavo-rativa possono essere molto forti – ad esempio tra dipendenti pubblici e lavoratori autonomi del privato) sia in quello dell’espressione culturale e dei valori.