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L’elemento centrale che emerge dalla ricerca, sia per quanto riguarda il versante delle imprese sia il versante degli studi di design, è il processo di transizione che il mondo del design; dal punto di vista delle forme del lavoro ma anche del rapporto che intrattiene con l’impresa industriale. Può essere utile, in questo senso, anticipare alcune riflessioni sulle principali risultanze emerse, rinviando alla lettura del docu-mento la lettura e il comdocu-mento dei dati.

Il design “esploso”

Il profilo della professione che emerge dalla ricerca è quello di un design “esploso”. Una esplosione che assume il sapore di una metafora per indicare una transizio-ne che, mettendo in discussiotransizio-ne molti capisaldi della tradiziotransizio-ne professionale, apre nondimeno nuove opportunità di centralità economica e ruolo sociale. L’immagine che emerge è quella di un design che, pure non inabissandosi nel mare magnum di un indistinto lavoro della conoscenza, vive da tempo una progressiva estensione e liquefazione dei suoi confini professionali e semantici. Non si tratta di una radicale discontinuità rispetto ad un mondo che è sempre andato oltre la pura identificazione con lo styling delle forme. E tuttavia il design, a cavallo delle mura delle imprese, si configura sempre più come funzione di mediazione e tessitura tra una pluralità di competenze e skill professionali.

Il design dentro l’impresa

Anche dentro le mura dell’impresa, nel suo nucleo creativo, il design si configura soprattutto come attività cooperativa tessitrice di network organizzativi e trasversali alle funzioni. Fatta eccezione per quei casi in cui è determinante la complessità tec-nologica del prodotto, la creatività del design nasce come prodotto eccedente della cooperazione più che dei saperi tecnico-formali; essa diventa funzione dell’elemen-to personale e culturale oltre che dell’investimendell’elemen-to interno in R& . L’innovazione S nasce dalla rete non soltanto dalla potenza della tecnica. La creatività diventa, per dirla con Aldo Bonomi (2006) parte di una “ragnatela del valore” che attraversa i confini sempre più porosi dell’impresa per distendersi nel territorio.

L’industria design-based

Il mondo dell’industria design-based appare differenziato al suo interno quanto alle modalità e alle strategie attraverso cui le imprese mettono a valore le reti della cono-scenza e i soggetti che attraverso esse lavorano. Nel campione esaminato possiamo distinguere quattro situazioni:

‡ L’ lite delle grandi marche del Made in Italy che hanno fatto la storia del design. é Il design rappresenta una funzione acquisita all’esterno dei confini aziendali ricorrendo soprattutto alle firme più prestigiose dei grandi studi internazionali

del design. Al centro delle strategie di design l’affermazione e la difesa della reputazione storica del brand aziendale, vero punto di forza del prodotto. In questo segmento di aziende divengono sempre più importanti le reti distributi-ve globalizzate monomarca gestite in modo diretto e utilizzate come terminali intelligenti di apprendimento e di comunicazione nei confronti della clientela. Si differenzia il caso dei grandi stilisti del car design torinese per i quali il brand rimane simbolo di esclusività per le fasce alte della clientela, ma il design ha carattere quasi totalmente “interno” ai confini aziendali.

‡ Il design come risposte di cambiamento organizzativo dell’impresa davanti alle sfide del mercato. Un secondo sentiero evolutivo è rappresentato da quelle azien-de che se da un lato producono per lo più internamente i contenuti di azien-design e , ricerca si caratterizzano soprattutto per una capacità di mutamento organizza, -tivo dei propri gangli intelligenti in risposta alle pressioni dell’ambiente esterno. Sono aziende che tendono a sviluppare la complessità organizzativa delle pro-prie divisioni di ricerca e sviluppo, aggiungono il design (e i designer) sperimen-tando un processo di formalizzazione della propria cultura produttiva interna. La necessità di coordinare una organizzazione divenuta più complessa porta in una fase successiva a coordinare il lavoro sviluppando il lavoro trasversale dei team (gruppi di lavoro). Designer, product manager, marketing cooperano lungo tutto il processo. Ciò porta ad estendere ruolo e competenze del design lungo l’intero arco dell’innovazione fino alla progettazione della fase commerciale. I ruoli e le professionalità si incrociano in modo sostanziale.

‡ La strategia delle grandi firme e del design di massa: caratterizza grandi brand manifatturieri che tuttavia, differentemente dal segmento delle lite, utilizza il é design come leva competitiva sul mercato del consumo di massa. Queste azien-de adottano strategie di internalizzazione spinta azien-delle funzioni di ricerca e pro-gettazione. Anche qui il profilo professionale tradizionale del design si ibrida con professioni e saperi confinanti dentro la struttura dell’intelligenza azien-dale. Questo porta il designer a trasformarsi in una figura dai saperi e dalle competenze sempre più poliedriche che deve associare la progettazione classica al management e alla tecnica di gestione delle reti produttive.

‡ Un quarto sentiero di utilizzo del design piuttosto trasversale a tutte le aziende intervistate interpreta la cultura del progetto come vettore di disegno delle rela-zioni di comunicazione e di scambio tra impresa e consumatore. Qui il design diventa un processo di comunicazione mirata in cui l’azienda tenta di esplorare gusti e culture che influenzano il cambiamento dei consumi. Il cuore di tutto il processo cognitivo interno è il marketing, nel senso che è la fase commerciale e della gestione dei flussi informativi raccolti sul mercato che poi orienta il succes-sivo passaggio alla progettazione.

Il design si terziarizza

Se il design “esplode”, anche il designer muta pelle. Esso tende a divenire un orga-nizzatore del processo innovativo nel suo complesso, una sorta di sistemista cui si richiede di coordinare più segmenti del ciclo, dal marketing al disegno, dalla pro-totipazione al rapporto con la distribuzione. Insomma, per dirla con una battuta il design si terziarizza perdendo in parte l’aura artistica delle origini.

Dentro le mura dell’azienda, oltre che professionista creativo diventa sviluppatore. Continua a progettare ma poi deve seguire il suo progetto lungo le diverse fasi fino al momento distributivo. Si sfondano i confini tra le competenze richieste. Queste si allungano a coprire l’intero ciclo del valore.

Fuori dalle mura dell’azienda, anche i produttori indipendenti di contenuti di design, organizzati in studi, agenzie, imprese di piccole dimensioni e sovente in forma del tutto autonoma costituiscono una popolazione affatto omogenea, non solo per ciò che attiene al posizionamento sul mercato, ma anche in ordine allo stesso contenuto tecnico del loro operato. L’attività di stilisti, progettisti, ingegneri tende sempre più a essere inquadrata nella produzione dei significati associati ai brand aziendali; la loro professionalità non è naturalmente riconducibile tout court al marketing e alla comunicazione aziendale, ma a queste risulta sempre più vicina. Nell’utilizzo di espressioni come innovazione o economia della conoscenza, occorre infatti conside-rare che solo in parte le innovazioni di prodotto insistono sul contenuto tecnologico delle merci, mentre sovente riguardano la sua “doratura” – l’esperienza e il contenu-to simbolico associacontenu-to al brand.

Design e lavoro creativo

La questione del ruolo del design e del suo utilizzo da parte dell’industria manifat-turiera eccede i confini del dibattito economico e assume una curvatura più sociale e politica se posto in relazione all’emergere di quella che R. Florida ha definito «clas-se creativa». Nell’interpretazione dell’economista americano e soprattutto della sua scuola europea, la capacità di produrre e/o attrarre figure altamente professionaliz-zate diverrebbe l’atout competitivo fondamentale per le economie ad accumulazione flessibile. Anche l’operato degli studi e delle piccole imprese s’inquadra in questa tendenza, specializzandosi di volta in volta in segmenti a valle o a monte del proces-so di produzione, ma più spesproces-so puntando a integrare saperi, attitudini, linguaggi eterogenei. La figura del designer, proprio laddove assume come non mai visibilità e prestigio, tende a sfumare in una nebulosa più ampia e a confondersi e combinarsi con altre professioni, nella direzione di un lavoro creativo senza aggettivi. Questa, non è però una frazione qualsiasi della più generale composizione dei lavoratori della conoscenza, poiché si posiziona esattamente in quell’attività produttiva di cam-biamento che – secondo l’opinione che intendiamo accreditare – qualifica e fornisce sostanza all’ipotesi di una centralità socioeconomica del lavoratore della conoscenza. Il lavoro creativo è «agente di cambiamento» (Carter, 1994), nel senso che opera

per preparare i cambiamenti tecnologici e i modelli di consumo nell’epoca in cui al cambiamento sono quasi sempre associati i principali successi economici. È in que-sto peculiare senso, dunque, che è da intendersi la sua centralità. In queque-sto conteque-sto il lavoratore creativo agisce come “mediatore culturale”, poiché opera simultanea-mente come traduttore di pratiche sociali, linguaggi, bisogni, sapere sociale in valore economico, ma anche come traduttore di istanze di valore economico in pratiche sociali e culturali.

La metropoli come spazio produttivo

Palcoscenico privilegiato di questa transizione è lo spazio metropolitano e soprattut-to le trasformazioni che ne hanno investisoprattut-to – oltre al mix produttivo – la struttura sociale. Al centro del discorso è dunque la composizione sociale del lavoro nella “fab-brica metropolitana”. Una metropoli da non limitare al cuore urbano o ai suoi quar-tieri creativi più o meno gentrificati. Sono piuttosto le città infinite con il loro melting pot produttivo e sociale i territori in cui i designer (nelle sue molteplici accezioni) si rapportano al mondo dell’impresa manifatturiera. Altro aspetto che emerge dalla ricerca, infatti, è la continua rilevanza del territorio e dei suoi giacimenti culturali come fonte dei processi innovativi delle imprese. Non solo in termini di tradizioni produttive ma, per esempio, anche come bacino privilegiato di reclutamento (soprat-tutto nel caso torinese).

Politiche urbane e politiche industriali

Se il lavoro creativo trae alimento dal suo humus metropolitano, emerge rafforzata l’ipotesi per cui eventuali “politiche industriali” per il lavoro e l’impresa creativa sconfinano naturaliter nelle politiche urbane in generale. Proprio quella esigenza di fare networking, di scambiare e condividere conoscenza, di essere vicini ai luoghi che producono idee innovative, di avere rapido accesso ai sistemi d’interscambio con altri nodi di livello nazionale e mondiale, avvalora l’ipotesi per cui una politica per l’impresa creativa è innanzi tutto un progetto di design ecologico, volto a dare forma e contenuto alla metropoli sia come forma vitale sia come brand che accompagna i suoi operatori.

Valori e appartenenza di classe

Gran parte delle riflessioni sul design insistono sull’apporto che le funzioni terziarie e creative, e più in generale la conoscenza, possono dare in quanto leve competitive per lo sviluppo. Il lavoro creativo, però, non è semplice funzione economica; l’in-chiesta sulle “culture” del lavoro costituisce un campo di ricerca di fondamentale importanza, per le sue conseguenze di rilievo economico ma anche al fine di sfuggire da semplificazioni interpretative in relazione al cambiamento della struttura sociale. L’indagine realizzata tra i designer, ad esempio, ci propone l’immagine di un lavoro creativo culturalmente non monolitico. Più in generale, analizzare la stratificazione

interna al campo dei knowledge worker sarà un tema assolutamente cruciale per l’analisi del lavoro contemporaneo.

La ricerca in questo senso suggerisce che è all’opera una divisione tra classe creativa e precariato, due habitus che attraversano trasversalmente la composizione esaminata, ma che anche la striano e articolano internamente. Il lavoro creativo, in altre parole, inteso come frazione del più generale lavoro della conoscenza, non costituisce in sé un ceto – da sovrapporre sic et simpliciter al vecchio ceto medio delle professioni. Se da una parte le trasformazioni macroeconomiche stanno definendo inedite gerarchie sociali su basi “cognitive”, l’indagine evidenzia che anche i riferimenti culturali e i valori sono eterogenei. L’individualismo radicale, che costituisce cifra di una parte di questo mondo, convive con il bisogno di regole, norme e orientamento egualitario di altri. L’indagine ha certamente intercettato come nucleo centrale quello che, con Andrew Ross (2002), possiamo chiamare popolo no collar: è questa la matrice cul-turale, egemonica tra questi lavoratori, che ha alimentato la narrazione sulla classe creativa - e che non vive solo nelle metropoli americane. Non è più tuttavia tempo di new economy e la stessa etica no collar è stata messa a dura prova in questi anni da due cicli di crisi (la prima all’inizio del decennio, la seconda è in corso); se è lecito affermare che alcuni dei valori e dei mutamenti etici prodottisi nel rapporto con il lavoro e col fare impresa sembrano avere carattere irreversibile, è da riscontrare che lo stesso lavoro creativo, seppure ciò non significhi che sia alla ricerca di un colletto, sembra avere progressivamente abbandonato l’utopia di produrre trasformazione e liberazione attraverso il lavoro o l’impresa

Una composizione sociale sotto stress

I designer sono una frazione di una composizione sociale sotto stress. Vi è all’opera una tendenza alla progressiva sussunzione degli spazi di vita e personali da parte del lavoro. Almeno ciò sembra suggerire il disagio legato all’abnorme estensione della giornata lavorativa, a una domestication del lavoro in cui a ben vedere è la dimensio-ne produttiva a pervadere e informare il tempo di vita, più che la seconda a “uma-nizzare” la prima. L’impresa e l’organizzazione, detto con altre parole, sembrano essersi riappropriate dello spazio e del tempo del lavoro creativo.

Reti transaziendali e scambi comunitari

Il lavoro creativo è general intellect che si nutre di reti e relazioni transaziendali e scambi comunitari. Ma è fuori dalla rappresentanza degli interessi tradizionale. È la natura intrinsecamente relazionale e cooperativa del lavoro creativo a raffor-zare il suo rapporto simbiotico con la dimensione urbana, dove l’interazione sociale si “ispessisce” e dove si trovano più occasioni di scambio e condivisione di cono-scenza. Ma le sole reti che si creano sul mercato forse non bastano più; il fenomeno associativo e delle community potrebbe essere lì a testimoniarlo. Indecise se essere associazioni corporative, campi attrezzati per l’interazione cooperativa, luoghi di

rappresentazione, sedi di risorse collettive, per ora si può sostenere che esse testimo-niano l’emergere di bisogni aggregativi e di strutturazione organizzativa che l’offer-ta di rappresenl’offer-tanza tradizionale non riesce a soddisfare. È un percorso embrionale, ma di fondamentale importanza. Spetta alle istituzioni (pubbliche e non) saperne cogliere la portata e approntare le situazioni e i modi per impostare un confronto non rituale con questa composizione. Il punto, probabilmente, non è ampliare la membership della governance urbana e degli esausti tavoli di concertazione aperti nello scorso decennio, quanto forse definire situazioni non burocratiche mirate a specifici progetti. Se le città, ma il discorso può essere esteso ad altri livelli territoriali, necessitano di nuove spinte e idee propulsive, l’apporto del lavoro creativo diviene una risorsa importante. Questa riflessione ha tuttavia due facce: anche i lavoratori creativi sono stretti tra la tentazione di una chiusura corporativa e la promozione di una nuova etica pubblica.

Lavoro creativo e beni collettivi per la competitività

Lavoro creativo e beni collettivi per la competitività locale: il difficile rapporto con le banche e quello con le Università. È evidente che la riflessione proposta non coinvolge solo le amministrazioni locali, ma riguarda più in generale il rapporto tra lavoratori cre-ativi e attori, pubblici o privati, che detengono, producono, gestiscono beni collettivi per la competitività dei territori. A partire dalle banche e dalle Università. Le prime, e ciò non può essere eluso in questo ragionamento, non sono considerate dai titolari degli stu-di come partner per lo sviluppo. Il rapporto con gli istituti stu-di crestu-dito, nella larga maggio-ranza dei casi, è limitato alle tradizionali operazioni bancarie e creditizie; nel rapporto con gli intermediari finanziari, in altre parole, le imprese della creatività sembrano espri-mere atteggiamenti (e diffidenze) del tutto tradizionali. E sembrano in ciò ricambiati.

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