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4. La rilevanza penale delle condotte di aiuto al suicidio ai sensi dell’art 580 c.p.

4.2 L’imputazione coatta del G.I.P

Nel luglio 2017, il G.I.P. presso il Tribunale di Milano, rigettando sia la richiesta di archiviazione che le subordinate eccezioni di incostituzionalità (sostanzialmente non condividendo l’idea di una interpretazione restrittiva, costituzionalmente orientata, dell’art. 580 c.p.), formulava con ordinanza un’imputazione coatta nei confronti di Cappato per il delitto di istigazione e agevolazione al suicidio.

Il g.i.p. milanese si allinea all’unica pronuncia della Cassazione attinente alla fattispecie in esame, i cui esiti non erano stati seguiti da parte dei pubblici ministeri. In particolare, il g.i.p. rigetta l’interpretazione restrittiva della condotta agevolatoria del suicidio, e afferma che la norma sanziona “ogni condotta che abbia dato un apporto causalmente apprezzabile ai fini della realizzazione del proposito suicidario”.

Facendo quindi coerente applicazione della teoria condizionalistica, il giudice afferma la rilevanza causale della condotta del Cappato rispetto all’atto suicida posto in essere dall’Antoniani; dalla considerazione della sicura sussistenza del dolo, poi,

269 In senso critico, R.E.OMODEI, L'istigazione e aiuto al suicidio tra utilitarismo e paternalismo: una

visione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., cit..

270 P.BERNARDONI, Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa, la Procura di

il g.i.p. ricava la riconducibilità della condotta di Cappato alla fattispecie incriminata dall’art. 580 c.p.271.

Inoltre, basandosi sulla ricostruzione fattuale che emerge dalle indagini preliminari, il g.i.p. ritiene che la condotta di Cappato non sia stata solo causalmente determinante dell’evento-suicidio sul piano materiale, ma che la stessa abbia costituito anche una forma di rafforzamento della volontà suicida dell’Antoniani. Infatti, secondo il giudice, nonostante DJ Fabo fosse già fermamente determinato a morire al momento in cui è entrato per la prima volta in contatto con Marco Cappato, la prospettazione da parte di quest’ultimo della possibilità di recarsi in Svizzera per accedere al suicidio medicalmente assistito avrebbe costituito un deciso rafforzamento della volontà di attuare il suicidio così come esso si è poi effettivamente verificato, un rafforzamento della volontà di praticare “quel suicidio”. Il giudice prende poi in considerazione, adottando una prospettiva antitetica, il secondo argomento proposto dai pubblici ministeri a sostegno della richiesta di archiviazione, ossia l’esistenza di un “diritto a morire con dignità” che costituirebbe una scriminante per la condotta di Cappato o, comunque, la base dell’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p..

Innanzitutto, l’ordinanza analizza la disciplina legislativa in materia di indisponibilità del diritto alla vita, ed afferma che dal complesso di norme costituito dagli artt. 5 c.c. e 579 e 580 c.p. emerge la volontà legislativa di limitare al massimo la possibilità per il singolo di disporre della propria integrità fisica e della propria vita.

Sulla base di questa premessa, il giudice si interroga sulla compatibilità della disciplina legislativa di rango ordinario con i principi costituzionali e convenzionali. Il punto di partenza del ragionamento è, ancora una volta, l’art. -32 c. 2 Cost. nella lettura fornitane dalla giurisprudenza nei casi Englaro e Welby, da cui “emerge con tutta evidenza […] un diritto a lasciarsi morire per mezzo del rifiuto di un trattamento sanitario”. Il passaggio successivo, però, si discosta dall’impostazione adottata dai pm e dai difensori dell’indagato: il giudice, valorizzando la distinzione naturalistica

271 La soluzione proposta dal g.i.p. milanese si discosta da quella adottata dal g.u.p. di Vicenza (Trib. Vicenza, sent. 14 ottobre 2015, dep. 2 marzo 2016, g.u.p. Gerace, imp. A. T., cit.)

che sussiste tra la condotta di chi lascia che la natura faccia il suo corso – adottando al più terapie palliative e antidolorifiche – e chi attivamente anticipa il momento del decesso, afferma che partendo dalla premessa di cui sopra non soltanto non possa ricavarsi un “diritto ad una morte dignitosa”, ma che anzi l’esistenza di un tale diritto sia certamente da escludersi, in quanto privo di un fondamento normativo positivo. Ad ulteriore sostegno di questo argomento, il giudice richiama il testo del d.d.l. allora approvato dalla Camera ed in esame al Senato in materia di “disposizioni anticipate di trattamento”, che si limiterebbe a recepire lo status quo giurisprudenziale in materia di “eutanasia passiva”, negando così implicitamente la legittimità di qualsiasi condotta di suicidio assistito o di eutanasia attiva.

Anche con riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il giudice si sofferma soprattutto sull’assenza di uno specifico obbligo di consentire pratiche di suicidio assistito. Infine, soffermandosi più nel dettaglio sulla richiesta di adire la Consulta proposta da entrambe le parti del procedimento, il g.i.p. rigetta tale istanza sulla base di una duplice argomentazione.

Innanzitutto, secondo il giudice la questione sarebbe manifestamente infondata in quanto inammissibile. Secondo il giudice in questo caso si verserebbe proprio in un’ipotesi di questione di illegittimità della norma “nella parte in cui non prevede qualcosa”, senza che quel “qualcosa” risulti pre-determinato sul piano costituzionale. Pertanto, un’eventuale accoglimento della questione porterebbe la Corte ad invadere lo spazio di discrezionalità che il dettato costituzionale lascia al legislatore ordinario, in aperta violazione del principio di divisione dei poteri e delle competenze che la Carta costituzionale attribuisce al giudice delle leggi.

In secondo luogo, la questione proposta dalle parti sarebbe manifestamente infondata anche nel merito. Innanzitutto, il concetto di “dignità della figura umana” che i p.m. ed i difensori invocavano come diritto da bilanciare con il principio di indisponibilità della vita non trova sufficiente copertura nella giurisprudenza costituzionale, nella quale invece si rinvengono numerosi richiami al principio di inviolabilità della vita umana. Inoltre, la ricostruzione operata dalla Procura crea una distinzione tra vite “degne” e vite “indegne” che collide totalmente

con la tutela incondizionata che viene accordata al bene giuridico “vita”, tanto dalla Costituzione quanto dalla legge ordinaria.

Anche gli altri argomenti proposti dai p.m. e dai difensori sarebbero poi inconferenti. In particolare, l’argomento fondato sulla natura discriminatoria dell’art. 580 c.p. in quanto creerebbe una distinzione irragionevole tra malati che possono ottenere, nei fatti, il suicidio per mezzo della rinuncia alle cure e malati che, per le condizioni fisiche in cui versano, non hanno questa possibilità, sarebbe privo di valore in quanto l’esito della rinuncia alle cure – il suicidio – rappresenta, secondo il giudice, una conseguenza accidentale e non già l’oggetto specifico del diritto previsto dall’art. 32 c. 2 Cost.; pertanto non vi sarebbe alcuna discriminazione giuridicamente apprezzabile tra le due categorie summenzionate e derivante dalla previsione in esame.

L’impianto dell’argomentazione offerta dal g.i.p. appare ben strutturato, con ampi richiami di tipo storico e giurisprudenziale (sia nazionali, costituzionali e di merito, che sovranazionali). Essa, però, non è sembrata convincere per diverse ragioni.

In primo luogo, non risulta pienamente coerente il provvedimento nella parte in cui il G.I.P. nega di far proprio “qualsiasi approccio confessionale o di carattere ‘paternalistico’” sul tema del suicidio assistito, dal momento che, nelle pieghe della motivazione, pur con frequenti richiami alla giurisprudenza costituzionale, si intravede una particolare concezione di tipo assolutistico del bene “vita”.

Va rilevato, in linea generale, che nelle situazioni in cui ai giudici si chiedono soluzioni che la politica non riesce a dare, il rischio che, nelle risposte concrete, possa entrare anche l’ideologia del giudice è sempre presente272.

Per quanto concerne, poi, le eccezioni di costituzionalità formulate dalla Procura e dalla difesa di Cappato, si può notare che il giudice ha esercitato i propri poteri in tema di valutazione sulla non manifesta infondatezza della questione in modo troppo approfondito e, quindi, eccedendo le proprie attribuzioni.

È noto, infatti, che nell’esercitare la sua funzione di "filtro", il giudice non deve mai sostituire il proprio giudizio a quello che spetta alla Corte costituzionale e quindi non

deve essere personalmente convinto dell’incostituzionalità della norma oggetto del giudizio, ma semplicemente assicurarsi che la questione posta non sia del tutto priva di fondamento.

Peraltro, quando il giudice, come è successo proprio nella vicenda in commento, anticipa una valutazione spettante alla Corte costituzionale come quella del confine tra il proprio sindacato e la discrezionalità del legislatore, finisce per ledere il diritto al giudice costituzionale, soprattutto nel caso in cui la questione di legittimità sia eccepita proprio dalle parti273.

Sbarrare l’accesso del giudizio della Consulta a questioni che, seppur difficilmente accoglibili, possono comunque portare a pronunce esortative di un intervento legislativo, denota un atteggiamento eccessivamente rigido degli operatori giuridici, fermi nelle interpretazioni tradizionali delle norme di parte speciale; ed inoltre impedisce alle nostre giurisdizioni superiori di intraprendere quel necessario quanto fruttuoso dialogo con le Corti internazionali che, in materie così delicate come quelle di cui ci si occupa, diviene strumento principe per le regolamentazione dei rapporti tra le diverse autorità del sistema multilivello274.