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La libertà di autoderminazione terapeutica: il rifiuto e l’interruzione delle cure

Se con riferimento all’articolato sul consenso informato, il legislatore si è limitato al mero recepimento e codificazione di principi ormai pacifici, con il comma 5 dell’art. 1 introduce una previsione realmente innovativa volta a chiarire uno degli aspetti più controversi nell’ambito del dibattito sul tema, ovvero l’esplicitazione dell’ambito di autonomia decisionale del paziente rispetto a trattamenti sanitari. In tale comma, infatti, viene riconosciuto il diritto per ogni persona capace di agire di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o anche singoli atti del trattamento stesso, affiancato, a fondamentale complemento, dal diritto di revocare, in qualsiasi istante, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.

L’enunciazione legislativa è di particolare importanza in quanto non solo riconosce a livello normativo come espressione della libertà di autodeterminazione terapeutica il diritto di rifiutare le cure, ma sancisce expressis verbis la piena legittimità del rifiuto di cure anche laddove sia potenzialmente a rischio la sopravvivenza stessa del paziente. Viene così “fugato ogni dubbio circa l’ossequio da prestare alla volontà negativa del paziente capace, senza eccezione dell’ipotesi che sia in gioco la sua vita e indipendentemente dalla cavillosa distinzione fra trattamenti da intraprendere e trattamenti in atto”146.

Con riferimento alle ipotesi in cui l’esercizio della libertà di scelta del paziente si concretizzi in un diniego alle terapie salva-vita proposte dal medico, venendo in considerazione altri valori parimenti presenti nell’ordinamento (l’indisponibilità della vita umana e l’autodeterminazione dell’individuo), si sono affermati due orientamenti interpretativi, spesso faticosamente conciliabili.

Per lungo tempo parte della dottrina e della giurisprudenza ha individuato nell’indisponibilità della vita il limite ultimo al rifiuto di terapie147. Facendo riferimento al divieto degli atti di disposizione del corpo suscettibili di ledere in modo permanente l’integrità fisica (art. 5 c. c.) e alle norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) si è sostenuto che il medico non potrebbe in nessun modo ottemperare alla richiesta di sospensione o rifiuto di cure che pongano il paziente in pericolo di vita, “in quanto tale dissenso, implicando un atto dispositivo di un bene indisponibile, si pone contro l’ordinamento”148.

Di tutt’altro avviso l’indirizzo prevalente149 - oggi suggellato anche dalla novella legislativa - che valorizza gli aspetti “soggettivi” del diritto alla salute. L’idea sottesa a questa impostazione parte dell’assunto che “divenuto ‘regola della vita’, il consenso della persona consente una disponibilità di sé che copre l’intero arco dell’esistenza e diviene così anche la regola fondamentale del morire” e, pertanto, “deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”. Piuttosto, il diniego o la richiesta di interruzione di una terapia di sostegno vitale esprimono un “atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”, in ossequio ad un’idea ampia di salute, da declinarsi a seconda della percezione che ognuno ha di sé ed insuscettibile di divenire “oggetto di imposizione coattiva”, in nome di un “dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”150. Come affermato dalla Cassazione nel Caso Englaro, il consenso del paziente ha “come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di

147 Cfr. nota 130.

148 In senso contrario a tale ipotesi, G. FACCI, I testimoni di Geova ed il «dissenso» all'atto medico, in , 2007, 116.

149 Sul punto, G.ALPA, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, in Testamento biologico, a cura del Comitato " Scienza e Diritto " della Fondazione Umberto Veronesi, in www.fondazioneveronesi.it, 2005, p. 27; G.U.RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l'art. 32, comma 2°, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in D. pubbl., 2008, p. 105 e ss.; S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non

diritto, Milano, 2006, p. 253; R. ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo, estratto dal volume Delle persone fisiche. Art. 1-10, nel Commentario Scialoja-Branca, 1989, 337, fa riferimento al "c.d. diritto di essere ammalato, di non curarsi o di lasciarsi morire". Cfr., poi, M. AZZALINI, Il

rifiuto di cure. Riflessioni a margine del caso Welby, in Nuov. Giur. civ. comm., 2007, p. 20313 ss..

trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla”, nel rispetto dell’idea che ciascun soggetto ha di sé e dei valori posti alla base della propria esistenza. Peraltro, di fronte ad un rifiuto potenzialmente in grado di mettere a rischio la sopravvivenza stessa del paziente, si deve escludere che il sacrificio del bene della vita possa costituire un limite al diritto all’autodeterminazione terapeutica. Piuttosto, la posizione di assoluta centralità nell’ordinamento delle prerogative della persona e la nuova dimensione assunta dal concetto di salute - non più intesa come semplice assenza di malattia, bensì come stato di completo benessere psico-fisico che coinvolge “gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto” - impongono di rispettare la libera determinazione del paziente in ordine alle cure, anche laddove la sua scelta possa condurre alla morte151.

Invero, il comma in esame si riferisce inequivocabilmente alla situazione di chi, durante una patologia che mette a rischio la sua sopravvivenza – e non soltanto prima ed in previsione futura –, rinuncia ad un trattamento sanitario già in atto o rifiuta che lo si effettui, riconoscendo l’equivalenza normativa di due situazioni distinte solo sul piano naturalistico: l’ipotesi del rifiuto di trattamenti sanitari salvavita da parte di un paziente, da un lato, e il caso di rinuncia di trattamenti sanitari quoad vitam da parte di un paziente che richieda la loro sospensione o la loro interruzione, operata tramite un’azione del medico (ad esempio la disattivazione di un sostegno artificiale).

Per effetto della l. 219/2017 si opera pertanto la definitiva equiparazione tra la mancata attivazione di un trattamento sanitario e la sua revoca, con conseguente superamento di ogni residua perplessità riferita all’evenienza in cui la morte del paziente derivi non già dal progredire della malattia per un’iniziale omissione di cure non consentite, quanto piuttosto dall’ interruzione (richiesta dal paziente) di un trattamento già in atto, ad esempio attraverso la disattivazione di un sostegno artificiale152.

151 Ibidem.

152 C. CUPELLI,La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire ed omettere, in Riv. it. dir. proc.

Quanto all’ipotesi dei trattamenti già in corso, per la cui interruzione si richieda un positivo intervento tecnico, era sembrato meritevole di un trattamento giuridico diverso, in considerazione del comportamento tenuto dal medico che, dal punto di vista naturalistico, è ascrivibile ad un’azione (si pensi allo spegnimento di un respiratore), invece che ad un mero non facere (non iniziare una terapia) imposto dalla superiore volontà del paziente di non farsi curare e salvare. Questo indubbio profilo di diversità materiale ha ingenerato negli interpreti il convincimento di trovarsi in una situazione maggiormente assimilabile all’eutanasia attiva, quale aiuto a morire, piuttosto che a un legittimo rifiuto di un trattamento medico, riecheggiando in pratica la classica distinzione –foriera di ben differenti conseguenze in termini di responsabilità penale - tra “procurare la morte” e “lasciare morire”153.

L’apparente divario tra le due ipotesi si riduce sensibilmente - ristabilendo la comune riconducibilità alla matrice di un legittimo rifiuto di terapie (in questo caso di sostegno vitale) - non appena si rifletta sull’equivalenza, dal punto di vista normativo, delle due situazioni rispetto al contenuto dell’art. 32 Cost..

È innegabile, infatti, già sul piano logico – prima ancora che giuridico - che una volta subordinata al consenso del paziente la legittimità circa la praticabilità iniziale di cure (anche vitali) – ammettendo quindi un rifiuto inteso come richiesta di non inizio -, sarebbe del tutto incongruente non concordare sulla necessità anche del suo consenso a proseguirle, in sostanza sul riconoscimento di una revocabilità o ritrattabilità del consenso iniziale(così come di un eventuale dissenso) una volta espresso, con altrettanto piena legittimazione di una rinuncia al trattamento sanitario (come richiesta di sospensione) da parte del singolo.

Per giunta, qualora si negasse tale equiparazione, legittimando solo un rifiuto iniziale del trattamento da parte del malato, si andrebbe incontro a una serie di effetti irragionevoli, oltre che paradossali.

A titolo esemplificativo: a seconda della possibilità di interrompere la terapia da soli o no, la sospensione di cure sarebbe consentita solo a taluni pazienti e non ad

153 Sulla distinzione enucleata su un piano naturalistico, morale e giuridico – tra “ mercy killing” e “letting die” si traduce notoriamente nella contrapposizione tra eutanasia attiva e passiva. S. CANESTRARI, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2016, p. 63 ss..

altri, con una selezione basata sulla tipologia di malattia, sullo stato di avanzamento della patologia sofferta (che incide sul momento in cui si può rinunciare o meno) e sul tipo di terapia attuata (un malato di tumore potrà sempre sospendere un ciclo di chemioterapia, non presentandosi alla seduta successiva se le precedenti sono state ritenute troppo invasive e comunque intollerabili in un rapporto personale di costi/benefici delle stesse cure).

Come ulteriore effetto paradossale, poi, qualora il paziente ritenesse di non potere più sospendere la terapia, potrebbe essere portato a non intraprenderla affatto, proprio per il timore che una volta iniziata non la si possa più interrompere e se ne debba quindi rimanere necessariamente prigionieri.

Un ulteriore e sicuro effetto discriminatorio si avrebbe poi nel caso in cui il paziente venisse sottoposto a terapie quando in stato di incoscienza, perché ad esempio un medico ha agito in stato di necessità, e pertanto non vi è stata alcuna possibilità di esprimere un dissenso iniziale, rimanendo irrevocabilmente vincolato alla loro prosecuzione154.

Ebbene, il legislatore sembra avere colto questa sostanziale identità, scongiurando gli effetti paradossali e iniqui di una mancata equiparazione155. Del resto, alle medesime conclusioni erano già pervenute, anche in questo caso, le note e recenti pronunce che hanno avuto a oggetto ipotesi di rifiuto di cure da parte di soggetti capaci e incapaci156.

Allo scopo di fugare il campo da ambiguità su un tema altrettanto delicato, il legislatore specifica l’appartenenza della nutrizione e idratazione artificiali alla categoria dei “trattamenti”, con conseguente riconoscimento della possibilità di rifiutarli o di chiederne l’interruzione in forza dell’art. 32, co. 2 della nostra Carta costituzionale.

154 C. CUPELLI, Libertà di autodeterminazione e disposizioni anticipate di trattamento i risvolti

penalistici, in www.penalecontemporaneo.it.

155 In senso favorevole anche S. CANESTRARI, Consenso informato e disposizione anticipate di

trattamento, cit., p. 310.

156 Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza di proscioglimento del 23 luglio 2007 del GUP del Tribunale di Roma nel caso Welby, pronunciata nei confronti dell’anestesista che aveva operato il distacco del ventilatore artificiale, e al decreto di archiviazione dell’11 gennaio 2010 del GUP del Tribunale di Udine, con il quale è stata disposta l’archiviazione del procedimento per omicidio volontario a carico del tutore di Eluana Englaro e del personale medico e paramedico che lo ha coadiuvato nel distacco del sondino nasogastrico nei confronti della ragazza.

Nel corso dell’approvazione della legge, infatti, si è molto discusso in merito alla qualificazione di alimentazione e idratazione artificiale, come trattamenti sanitari che il paziente possa rifiutare o pretenderne la sospensione, e quindi come ulteriore coefficiente di indeterminatezza della vicenda che riguarda soprattutto i pazienti in “stato vegetativo persistente” (SVP)157.

La presente legge all’art. 1 comma 5 considera la nutrizione e l’idratazione artificiali trattamenti sanitari “in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Viene recepita l’impostazione fatta propria dalla Cassazione nel Caso Englaro secondo la quale “non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche”158.

Il principio affermato è diffuso nella letteratura medico-scientifica159, ma è contraddetto da un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica approvato il 30 settembre 2005. Secondo il citato parere “anche quando l’alimentazione e l’idratazione devono essere forniti da altre persone ai pazienti in SVP per via artificiale, ci sono ragionevoli dubbi che tali atti possano essere considerati “atti medici” o “trattamenti medici” in senso proprio, analogamente ad altre terapie di supporto vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Acqua e cibo non diventano infatti una terapia medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale... Il fatto che il nutrimento sia fornito attraverso un tubo o uno stoma non rende l’acqua o il cibo un preparato artificiale (analogamente alla deambulazione, che non diventa artificiale quando il paziente deve servirsi di una protesi)”. Non vi sono dubbi, invece, sempre secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite.

157 A. TORRONI, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, un rapporto

essenziale ma difficile, in Riv. Not., 2018, p. 435.

158 Cass. Civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, cit..

159 Hanno riconosciuto la natura di trattamento sanitario dell'alimentazione artificiale: un documento del 2007 della Società Italiana di Nutrizione Parentale ed Enterale (S.I.N.P.E.), consultabile sul sito www.zadig.it; un documento del Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale dei Medici e degli Odontoiatri del 13 giugno 2009, consultabile sul sito www.fnomceo.it.

La scelta di campo espressa nel testo approvato è, però, inequivocabile: si devono considerare anche i più discussi supporti vitali, la nutrizione e idratazione artificiali, come trattamenti sanitari, alla stregua di tutti gli altri, quindi anch’essi sono subordinati all’opportuna manifestazione di consenso da parte del paziente. Questa chiara presa di posizione conduce alla conclusione di ritenere che possano essere oggetto di legittimo rifiuto anche con lo strumento delle disposizioni anticipate di trattamento (art. 4, comma 1)160.

In coerenza con il principio del consenso informato come legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, il comma 6 dell’art. 1 - richiamato anche dall’art. 4, comma 5, in riferimento alle disposizioni anticipate di trattamento - prevede che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.

3. 1.La condotta del sanitario che attui il rifiuto di cure: l’esenzione da responsabilità del professionista tra scriminanti e atipicità della condotta

Premesso che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di non iniziare o di interrompere un trattamento sanitario, il legislatore precisa che il sanitario “in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civili o penali”.

In dottrina era da tempo auspicato che il legislatore sancisse in modo inequivoco la liceità e la legittimità della condotta del medico - necessaria per dare attuazione al diritto del paziente di rinunciare all’attivazione o al proseguimento di un trattamento sanitario - soprattutto al fine di garantire un definitivo consolidamento delle radici costituzionali del principio del consenso/rifiuto informato nella relazione medico- paziente 161 . Tale precisazione era stata resa necessaria, anche a livello giurisprudenziale, in considerazione di quanto accaduto nell’ambito del caso Welby, che aveva visto un medico anestesista rinviato a giudizio dalla Procura di Roma per il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) per avere accolto il desiderata del paziente di staccarlo dalle macchine che lo tenevano in vita.

160 Infra paragrafo 3.2.

Occorre allora interrogarsi sulla natura giuridica della non incriminazione del medico nel compimento della condotta di interruzione o mancato inizio delle cure, in virtù della consapevole volontà del malato.

L’opinione dominante in giurisprudenza162e dottrina163, avvallata dal Gup di Roma nel procedimento penale relativo al caso Welby164, ritiene che il rifiuto alle cure del paziente, espressione del legittimo esercizio del diritto all’autodeterminazione terapeutica, garantito dall’art. 32, comma 2, Cost., scrimina la conseguente condotta del medico che concretizzi l’esercizio di tale diritto, eliminandone l’antigiuridicità. Si afferma che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui; pertanto il medico che agisce adempiendo tale dovere è scriminato in virtù del disposto di cui all’art. 51 c.p., non solo nel caso in cui ometta di iniziare le cure, ma altresì qualora la propria condotta, come nel caso di c.d. distacco della spina, sia naturalisticamente attiva.

Una opinione minoritaria165, invece, colloca la natura giuridica della mancata incriminazione del medico non nell’assenza di antigiuridicità della condotta dello

162 Ex plurimis, Cass. pen., Sez. IV, n. 4957/2014.

163 Si rinvia alla dottrina citata a commento delle sentenze Welby ed Englaro.

164 La sentenza del Tribunale penale di Roma, che ebbe ad assolvere il dott. Riccio, riconobbe che l'imputato aveva posto in essere una condotta causativa della morte del paziente, ma che era possibile ravvisare l'esimente dell'adempimento di un dovere ai sensi dell'art. 51 c.p., dato che, a seguito del rapporto instauratosi tra paziente e medico, non può il secondo non tenere conto della volontà del primo che si avvale dell'art. 32, comma 2, Cost. che deve, comunque, prevalere nel possibile contrasto con l'art. 579 c.p. In sostanza per il GUP l'esercizio del diritto di cui all'art. 32, co. 2, Cost. da parte del titolare ha, per espressa e insuperabile previsione costituzionale, come suo unico limite quello specificatamente contemplato da una norma di legge. “Pertanto — scrive il GUP — la norma

costituzionale, ponendo una stretta riserva di legge all'individuazione dei limiti da apporre al libero dispiegarsi del diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, ha tracciato espressamente una unica strada entro la quale solo il legislatore ordinario potrà bilanciare i diritti e i diversi interessi in gioco, dettando le regole necessarie ed i confini al libero esercizio delle facoltà riconosciute alla persona ...” 

165 Sostanzialmente tributaria: (1) della riserva espressa in dottrina (S. ANZILLOTTI, La posizione di

garanzia del medico, Milano, 2013, 247) sull'eccessiva enfatizzazione del consenso quale causa “di

un impoverimento del ruolo (giuridico, deontologico, sociale) del professionista medico" e, insieme, "svuotamento dell'originaria posizione di garanzia della tutela della vita e dell'integrità corporea"; (2) dell'opinione espressa da C. CUPELLI, Responsabilità colposa e "accanimento terapeutico

consentito", in Cass. pen., 2011, IX, 2940, in ordine alla circostanza che "il consenso rappresenta non solo il necessario presupposto ma anche l'insuperabile limite della posizione di garanzia del medico,

stesso, in quanto adottata in adempimento di un dovere giuridico, ma sul piano del fatto tipico, il quale è carente del nesso causale tra la condotta e l’evento. In altri termini, la non punibilità del medico discende, più che dall’applicazione della scriminante, quale essa sia, dalla mancanza della tipicità della condotta, in quanto viene a mancare il nesso di causalità tra la morte e la condotta del medico, essendo la morte causata dal naturale decorso della malattia.

Tale impostazione qualifica sempre, anche nel caso di interruzione di cure come il distacco della spina, la condotta del medico come omissiva, in quanto tale condotta non introduce in nessun caso un nuovo fattore di rischio, ma concretizza un rischio preesistente (la malattia). Una condotta naturalisticamente attiva può essere definita giuridicamente omissiva se si valorizza non il singolo atto di disattivazione, ma l’intero processo nel quale esso s’inquadra ed acquista un senso sociale.