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Profili di rilevanza penale del trattamento terapeutico: il rifiuto di cure e le scelte concernenti il fine vita dopo la legge sul c.d. biotestamento

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Academic year: 2021

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Classe accademica di Scienze Sociali

Settore di Scienze Giuridiche

Diploma di licenza

PROFILI DI RILEVANZA PENALE DEL TRATTAMENTO

TERAPEUTICO:

il rifiuto di cure e le scelte concernenti il fine vita

dopo la legge sul c.d. biotestamento

Candidato Relatore Beatrice Neroni Chiar.ma Prof.ssa Gaetana Morgante Allieva Ordinaria di II livello Scuola Superiore Sant’Anna Tutor

Chiar.mo Prof. Emanuele Rossi Scuola Superiore Sant’Anna

Anno accademico 2016-2017

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Sommario

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO I ... 8

I PRESUPPOSTI DI LICEITA’ DEL TRATTAMENTO MEDICO ... 8

1. Autodeterminazione e informazione, salute e consenso informato ... 8

2. La “giustificazione” del trattamento ... 14

3. Le regole di legittimazione del trattamento medico tra strumenti normativi e prassi giurisprudenziali: il ruolo della Convenzione di Oviedo ... 19

3.1 Il consenso del paziente capace ... 20

3.2. Il consenso del paziente incapace ... 22

3.3 Il trattamento delle infermità mentali ... 25

3. 4 Le situazioni di urgenza terapeutica... 27

4. La problematica rilevanza penale del trattamento medico arbitrario: quale titolo di responsabilità per il medico? ... 33

CAPITOLO II ... 46

LA LEGGE 219/2017: RIFIUTO DI CURE E DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO ... 46

1. Premessa: Lo sfondo della legge e i precedenti giurisprudenziali (i casi Welby ed Englaro). ... 46

2. Il consenso informato secondo la legge (art. 1) ... 52

3. La libertà di autoderminazione terapeutica: il rifiuto e l’interruzione delle cure 56 3. 1.La condotta del sanitario che attui il rifiuto di cure: l’esenzione da responsabilità del professionista tra scriminanti e atipicità della condotta ... 62

3. 2 Le modalità di espressione del consenso e del rifiuto di cure per i soggetti minori e incapaci ... 67

(3)

4. Le disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT) ... 73

5. La pianificazione delle cure condivisa ... 80

6. Brevi osservazioni a margine ... 81

CAPITOLO III ... 86

IL RIFIUTO DI CURE NON “LIFE SAVING” ... 86

1. Una premessa ... 86

2. Dal “diritto a lasciarsi morire” al “diritto ad una morte dignitosa”: un persistente vuoto normativo per le ipotesi di c.d. eutanasia attiva ... 87

3. L’esclusione di un diritto a morire nella giurisprudenza Cedu ... 89

4. La rilevanza penale delle condotte di aiuto al suicidio ai sensi dell’art. 580 c.p. 93 5. Il caso Cappato- Dj Fabo ... 100

4.1. La richiesta di archiviazione dei PM... 102

4.2 L’imputazione coatta del G.I.P. ... 107

6. I c.d. “diritti infelici” approdano alla Corte Costituzionale ... 111

6.1 La parola alla Consulta ... 115

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE ... 119

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro si propone di affrontare il tema della rilevanza penale del trattamento terapeutico nei suoi profili fisiologici e patologici, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa intervenute in materia, riservando una particolare attenzione alle problematiche connesse al rifiuto di cure.

Il rapporto tra il medico ed il paziente ha subìto una profonda trasformazione nel tempo, che ha determinato il passaggio da una concezione paternalistica - in base alla quale il paziente era mero destinatario delle scelte terapeutiche assunte unilateralmente dal medico secondo scienza e coscienza — ad una concezione personalistica, che permette al paziente di interagire in modo continuo e tendenzialmente paritario nel processo di elaborazione della decisione medica, nel quadro della c.d. “’alleanza terapeutica”. In questo mutato contesto, il consenso informato, espressione della libertà di autodeterminazione terapeutica, costituisce, di regola, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza di esso l’intervento del medico è ritenuto illecito, in quanto arbitrario, anche quando sia stato posto in essere nell’interesse del paziente, sebbene le conseguenze penali da ascrivere al sanitario siano ancora oggetto di un dibattito aperto in dottrina e in giurisprudenza, in ragione dalla mancanza di una fattispecie incriminatrice ad hoc nell’ambito della quale ricomprendere tali condotte, soprattutto laddove vi sia un esito “fausto” dell’intervento.

Seppur riconosciuto a livello costituzionale e sovranazionale, il consenso ha trovato esplicita codificazione solo con la più recente l. 22 dicembre 2017, n. 219 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

La legge, intervenuta dopo una lunga gestazione, riconosce a livello normativo alcuni principi già elaborati dalla giurisprudenza nei noti casi di rilevanza mediatica Welby ed Englaro, ed ha l’indiscusso merito di chiarire l'ambito di autonomia decisionale del paziente rispetto a trattamenti sanitari. In particolare, la novella riconosce che il diritto di autodeterminarsi in ambito sanitario del paziente comporta il diritto di essere informato e il diritto di scegliere se e a quali trattamenti sottoporsi e ricomprende,

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altresì, il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, anche attraverso il ricorso alle Disposizioni Anticipate di Trattamento (c.d. D.A.T) o per mezzo di un rappresentante in caso di incapacità.

L'aspetto più innovativo - nonché di maggiore interesse ai fini della nostra trattazione- è da rinvenire proprio nell’avvenuto riconoscimento normativo del diritto di rifiutare le cure. Come già affermato dalla giurisprudenza della Cassazione nel Caso Englaro, il consenso del paziente ha “come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla”1, nel rispetto dell’idea che ciascun soggetto ha di sé e dei valori posti alla base della propria esistenza.

Di fronte ad un rifiuto potenzialmente in grado di mettere a rischio la sopravvivenza stessa del paziente, si deve escludere che il sacrificio del bene della vita possa costituire un limite al diritto all’autodeterminazione terapeutica.

In tale ipotesi, il medico deve attivare una fase procedimentale volta a verificare la consapevolezza della scelta del paziente, per scongiurare il rischio del c.d. abbondono terapeutico, all’esito della quale, però, è tenuto rispettare la volontà espressa di non iniziare o di interrompere un trattamento sanitario e “in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civili o penali”. Quest’ultima precisazione circa la piena liceità e legittimità della condotta del medico - necessaria per dare attuazione al diritto del paziente di rinunciare all’attivazione o al proseguimento di un trattamento sanitario – era da tempo auspicata dagli interpreti soprattutto al fine di garantire un definitivo consolidamento delle radici costituzionali del principio del consenso/rifiuto informato nella relazione medico-paziente

La scelta di rifiutare le cure nell’impianto della nuova legge si colloca nell’ambito delle scelte legate al trattamento terapeutico. La giurisprudenza prima e il legislatore poi hanno riconosciuto il diritto di decidere se curarsi o meno, che può comportare, ma solo come conseguenza indiretta, anche il diritto di lasciarsi morire. Il paziente capace che rifiuti le cure mediche prospettategli, pur sapendo che tale rifiuto condurrà alla morte, in realtà non sta “scegliendo di morire”, ma sta ancora

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“scegliendo di vivere”, secondo le modalità che più corrispondono alle opzioni ideologiche, religiose, sociali e familiari che competono all’interessato. L’eventus mortalis, dunque, non risulterebbe il fine immediatamente perseguito, ma la conseguenza accettata di una scelta in sé legittima che concerne l’esercizio del fondamentale diritto di autodeterminazione nel rispetto profondo, da parte del soggetto, della propria idea di dignità personale.

Non è pertanto possibile ritenere che la novella abbia dato un riconoscimento ancorché settoriale ad un diritto all’autodeterminazione nel fine vita, anche quando le sofferenze siano tali da renderla, nell’ottica del paziente, non più degna di essere vissuta. Al di fuori dell’ambito terapeutico, il diritto di porre fine alla propria esistenza non trova cittadinanza nel nostro ordinamento.

La questione è di stringente attualità in considerazione della vicenda legata al recente caso Dj Fabo – Cappato, che evidenzia con drammaticità la ricorrenza di ipotesi in cui per porre fine alla propria esistenza, non è sufficiente il rifiuto delle cure - in quanto le stesse non sono irrogate per il sostegno vitale, ma per alleviare le sofferenze legate allo stato patologico. Per poter morire il soggetto necessita, quindi, di una condotta attiva di un terzo che lo aiuti nel proposito suicida, ricadendosi, pertanto, nelle ipotesi di c.d. eutanasia attiva, vietata nel nostro ordinamento, stante la persistente vigenza nel codice penale degli articoli 579 (omicidio del consenziente) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio).

Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie la Corte d’Assise di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale, che evidenzia il perdurante vuoto normativo e la necessità di superare i problemi interpretativi posti da norme di cui difficilmente si riesce oggi a individuare una ratio coerente con i principi e con l’evoluzione del quadro valoriale di riferimento.

Il giudice rimettente suggerisce alla Consulta di prendere in debita considerazione proprio la recente l. 219/2017, ritenendo che i principi in essa sanciti possano essere d’aiuto anche ai fini della interpretazione dell’art. 580 c.p.. Più precisamente, si osserva che la nuova normativa riconosce la possibilità di ogni individuo di disporre anticipatamente le proprie volontà sul “fine-vita”, fino ad affermare che lo stesso può decidere effettivamente di porvi fine. Il giudice a quo sottolinea, infatti, che nel caso di malattia il legislatore ha espressamente riconosciuto il diritto a decidere di lasciarsi

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morire a tutti i soggetti capaci. Il mancato riconoscimento da parte del legislatore di un diritto al suicidio assistito secondo la Corte d’Assise implicherebbe l’impossibilità di pretendere dai medici del servizio pubblico la somministrazione o la prescrizione di un farmaco che procuri la morte, ma non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre fine alla propria vita, posto che una simile libertà troverebbe fondamento nei principi espressi dagli articoli 2 e 13 della Carta costituzionale.

Il ventaglio delle possibili decisioni della Corte Costituzionale, che si pronuncerà a breve - l’udienza è fissata per il prossimo 23 ottobre-, è piuttosto ampio: dalla inammissibilità al rigetto della questione di legittimità costituzionale, dall’indicazione di quale sia la corretta interpretazione della norma ad una pronuncia di accoglimento. Secondo illustri costituzionalisti, che hanno manifestato una certa perplessità sull’opportunità di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, il vuoto normativo, però, deve essere riempito attraverso un nuovo intervento del legislatore e non attraverso l’interpretazione della Consulta.

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CAPITOLO I

I PRESUPPOSTI DI LICEITA’ DEL TRATTAMENTO

MEDICO

1. Autodeterminazione e informazione, salute e consenso informato

In stretta consonanza con il processo di valorizzazione della persona si è sviluppato, quale valore autonomo, il principio di autodeterminazione in ordine ai trattamenti sanitari, che ha determinato il passaggio da una concezione paternalistica del rapporto medico-paziente — in base alla quale il paziente era mero destinatario delle scelte terapeutiche assunte unilateralmente dal medico secondo scienza e coscienza — ad una concezione personalistica, che permette al paziente di interagire in modo continuo e tendenzialmente paritario nel processo di elaborazione della decisione medica, nel quadro di una  “’alleanza terapeutica’ che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene”2. In questo mutato contesto, il paziente ha maturato il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura ed ai possibili sviluppi del percorso terapeutico proposto dal medico, onde poter decidere consapevolmente e liberamente se sottoporsi o meno ad esso.

Il diritto all’autodeterminazione terapeutica ha così progressivamente assunto la dignità di diritto fondamentale dell’uomo, ai sensi degli artt. 2, 13, commi 1 e 2, e 32, comma 2, Cost..

2 Di “alleanza terapeutica” nell'evoluzione del rapporto medico-paziente parla, in primis, il documento del Comitato nazionale per la bioetica del 29 giugno 1992, intitolato Informazione e consenso all'atto medico. (COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Parere su Informazione e consenso nell'atto

medico, 20-6-1992, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'Informazione e

l'Editoria, Roma, 1992, 15).

Sul tema cfr., tra gli altri, nella dottrina penalistica, L. EUSEBI, Il diritto penale di fronte alla malattia, in FIORAVANTI, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, 124-127; F. DASSANO, Il consenso informato al trattamento terapeutico tra valori costituzionali, tipicità

del fatto di reato e limiti scriminanti, in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi,

Torino, 2004, 423, in cui si fa espresso riferimento all'alleanza terapeutica come modello relazionale. Il concetto di alleanza terapeutica è ripreso anche in giurisprudenza: Cass. Civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Fam. e dir., 2008, p. 129, con note di F. CAMPIONE, Stato vegetativo permanente e diritto

all'identità personale in un'importante pronuncia della Suprema Corte, A. GALIZIA DANOVI,

L'interruzione della vita tra volontà e diritto, e G.GALUPPI, Brevi osservazioni sulla sentenza n.

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In particolare, si è ritenuto che la nozione di “salute”, cui fa riferimento l’art. 32 Cost., non può essere circoscritta, in applicazione di un parametro oggettivo, all’”assenza di malattia”, ma viene intesa come “stato di completo benessere fisico e psichico” dell’individuo, certamente influenzato anche dagli “aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza” 3 . L’autodeterminazione rispetto alla propria salute consente a ciascun individuo di affrontare la malattia e di vivere il dolore secondo le proprie convinzioni4.

Accanto all’art. 32 Cost. sono invocati in materia di consenso informato e autodeterminazione terapeutica, gli artt. 2 e 13 Cost., là dove il primo riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, a cominciare dal diritto alla vita, il secondo, nel proclamare l’inviolabilità della libertà personale, sancisce, il potere individuale di disporre del proprio corpo.

Sussiste, invero, uno stretto collegamento tra l’art. 32 e l’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale anche con riguardo alla salute e all’integrità fisica dell’individuo5, costituendo aspetti della libertà personale sia la “libertà

morale” del soggetto, che si manifesta anche nell’autodeterminazione terapeutica6, “che inerisce al diritto di ciascuno alla salute, in quanto diritto fondamentale", sia la "sua libertà fisica intesa come rispetto della propria integrità corporea” 7.

Il diritto alla salute deve, quindi, essere inteso come “libertà di curarsi”8 e la sua ricomprensione tra i diritti di libertà implica, automaticamente, la tutela anche del suo risvolto negativo, caratteristica di tale categoria di diritti, e quindi “il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi”9. In tal modo si riconosce la non

3 G.FIANDACA, Luci ed ombre della pronuncia a sezioni unite sul trattamento medico-chirurgico

arbitrario, la quale richiama " una più moderna concezione della salute, che trascenda dalla sfera della mera dimensione fisica dell'individuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica”, in Foro it.,2009, p. 305.

4 N.VICECONTE, Il diritto di rifiutare le cure: un diritto costituzionale non tutelato? Riflessioni a

margine di una discussa decisione del giudice civile sul " caso Welby ", in Giur. Cost., 2007, I, p. 2364

e ss..

5 Cass. 14 marzo 2006, n. 5444, in Giust. civ., 2006, I, p. 802; Cass. 30 luglio 2004, n. 14638; Cass. 25 novembre 1994, n. 10014.

6 Corte cost. 22 giugno 1990, n. 307, in F. it., 1990, I, p. 2694, con note di A.PRINCIGALLI e G. PONZANELLI, Lesione da vaccino antipolio: che lo Stato paghi l'indennizzo!

Cfr. anche Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847 n. 2847, in F. it., 2010, I, c. 2113, secondo la quale "

l'autodeterminazione in ordine alla tutela per via terapeutica della propria salute " costituisce diritto

fondamentale della persona.

7 Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, cit..

8 Cass. pen., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437, in Foro it., 2009, II, p. 305

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coercibilità del vivere10 e si evitano le “pericolose prospettive di impossessamento totalitario, non solo ideologico ma anche fisico, dell’essere umano” che l’affermazione del dovere giuridico di curarsi comporterebbe11.

Il consenso informato viene a svolgere - secondo la Corte costituzionale - la funzione di “sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute”, nel senso che, “se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha altresì il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto”, allo scopo di “garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente” e, quindi, “la sua stessa libertà personale”12.

Così ricostruito, il consenso informato costituisce, di regola, “legittimazione e fondamento del trattamento sanitario”: senza di esso l’intervento del medico è ritenuto illecito, anche quando sia stato posto in essere nell’interesse del paziente, secondo una configurazione del rapporto medico-paziente fondato “prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico”13.

In altri termini, è riconoscibile al medico non un generale “diritto di curare”, a fronte del quale il malato si troverebbe in una posizione di soggezione, ma la mera “facoltà o la potestà di curare”, che, per potersi estrinsecare, necessita del consenso

con nota di G.CASABURI, Autodeterminazione del paziente, terapie e trattamenti sanitari " salvavita

".

In dottrina, cfr. G.M.FLICK.T.PASQUINO e A.PIOGGIA, in Decisioni di fine vita, a cura di M.BIANCA, Milano, 2011; G.ALPA, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, in Testamento biologico, a cura del Comitato " Scienza e Diritto " della Fondazione Umberto Veronesi, in www.fondazioneveronesi.it, 2005, p. 27; D.VINCENZI AMATO, Il silenzio della legge e il testamento

di vita, in Testamento biologico, id.;

In senso contrario, cfr. E.GIACOBBE, Autodeterminazione, famiglia e diritto privato, in D. fam., 2010, p. 313, secondo la quale " l'art. 32 Cost. [...] nel tutelare il diritto alla salute non comprende il suo

contrario - c.d. libertà negativa - anche perché siamo nell'ambito dei diritti soggettivi e non dei c.d. diritti di libertà ".

10 Cfr. G.M.FLICK, in Decisioni di fine vita, a cura di M.BIANCA, cit., secondo il quale non vi è un dovere di vivere, giacché il diritto alla vita è un diritto inviolabile ma non indisponibile; F. MANTOVANI, voce Eutanasia, in Dig. pen., IV, Torino 1990, p. 425, p. 425.

11 F.MANTOVANI, Eutanasia, cit., p. 425.

12 Corte Cost., 23 dicembre 2008, n. 438, in F. it., 2009, I, c. 1328.

13 Cfr., in tal senso, Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., secondo la quale " la pratica del consenso

informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi".

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del paziente e si arresta di fronte alla sua volontà negativa14. In quest’ultimo caso il medico ha il dovere giuridico di non iniziare o di sospendere la cura. Infatti, i doveri di solidarietà sociale, che impongono al medico di prestare le cure, “non possono spingersi sino al punto di ledere un diritto fondamentale dell’individuo, benché nella sua accezione negativa”15.

Nessun trattamento diagnostico e/o terapeutico può, dunque, essere intrapreso dal medico senza la previa acquisizione di un valido consenso informato del paziente, salvo i casi eccezionali dei trattamenti sanitari obbligatori e ove ricorra uno stato di necessità16.

Il principio del consenso informato nel contesto sanitario, in mancanza di una regolamentazione normativa specifica ed organica fino alla recente Legge 22 dicembre 2017, n. 219 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”17, ha trovato comunque riconoscimento, oltre che nelle norme costituzionali, nelle fonti di rango sovranazionale, in specie nella convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997 (art. 5)18 e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 (art. 3)19 ; in numerose leggi speciali dell’ordinamento interno20; e nelle norme di deontologia medica (artt. 33 e 35 codice di deontologia medica approvato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei medici e degli odontoiatri il 16 dicembre 2006)21.

14 Cass. pen., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437, cit., p. 305; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, Firenzani, in Cass. pen., 2002, p. 2041.

15 In dottrina, cfr. N.VICECONTE, Il diritto di rifiutare le cure: un diritto costituzionale non tutelato?, cit., p. 2364 e ss..

16 Infra paragrafi 3.4 e 3.5. 17 Infra Capitolo II.

18 L'art. 5, rubricato “regola generale”, sancisce la necessità del consenso libero ed informato, quale atto previo del paziente per il compimento di qualsivoglia intervento in ambito sanitario.

19 L’art. 3, rubricato “diritto all’integrità della persona”, prevede: “1. Ogni persona ha diritto alla

propria integrità fisica e psichica. 2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani”.

20 A partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo aver premesso, all'art. 1, che la tutela della salute « deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana », sancisce, all'art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.

21.Secondo l’art. 35 del codice di deontologia medica "il medico non deve intraprendere attività

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Il consenso al trattamento medico deve assumere determinate caratteristiche. Il consenso deve essere anzitutto personale, poiché, di fronte al paziente legalmente capace e in possesso della capacità di intendere e di volere, nessun altro soggetto è autorizzato a prestarlo in nome dell’interessato e ad assistere al colloquio informativo con il medico, salva la diversa volontà (invero non infrequente) del malato. Il consenso, tuttavia, conserva, fintanto che sia possibile, il requisito della personalità, seppur in un’accezione attenuata, anche quando il malato sia un minore o un incapace legale, ovvero sia persona non in pieno possesso della capacità intellettiva e decisionale, dal momento che il medico, in ossequio alla disciplina deontologica di cui all’art. 38, nonché ad alcune disposizioni speciali presenti nel nostro ordinamento, deve in ogni caso favorire la partecipazione del diretto interessato al processo informativo e decisionale22.

La giurisprudenza di legittimità ha inoltre chiarito che il consenso o il dissenso ad una determinata terapia devono essere oggetto di manifestazione “espressa, inequivoca, attuale, informata”, dovendo esprimere “una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto ‘ideologica’, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una ‘precomprensione’” 23. Il consenso o il dissenso alla terapia devono, cioè, seguire e non precedere un’informativa completa e analitica sullo stato di salute del paziente e sulla terapia da applicare, presupponendo nel malato la consapevolezza della gravità “attuale” delle proprie condizioni di salute24.

un commento al codice deontologico v. M.BARNI, Un codice deontologico di chiara sostanza

medico-legale, in Riv. it. med. leg., 2007, p. 543 ss.

22 C. D. LEOTTA, Consenso informato, in Dig. Disc. Pen.,, Aggiornamento V, Torino, 2010, p. 117. 23 Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, cit.

24 C.M.BIANCA, Trattamenti sanitari tra principio di autodeterminazione e dovere di solidarietà (a

ciascuno il suo), in Decisioni di fine vita, a cura di M.BIANCA, cit. Secondo l'A., " il rifiuto del

trattamento prestato per il futuro è un atto espresso senza la necessaria informazione ", difettando " quegli elementi che grazie al continuo progresso della scienza medica possono rendere diversamente valutabile l'intervento medico sotto gli aspetti della sua invasività, pericolosità, dolorosità, ecc. Col tempo cambiano anche gli animi e ciò che con riferimento ad una eventualità futura può essere accettato come un preferibile sacrificio può non esserlo più quando il momento del sacrificio sia divenuto attuale ".

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L’informazione è completa laddove il medico abbia informato il paziente “dei possibili effetti negativi della terapia o dell’intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità degli effetti del trattamento”25.

L’inosservanza dell’obbligo di informazione in materia medico-sanitaria si configura in termini di responsabilità per il medico26, illecito apprezzabile anche sotto il versante non patrimoniale27.

In ogni caso, il paziente può modificare il proprio convincimento circa l’opportunità del trattamento sanitario (eventualmente anche già intrapreso) revocando il consenso prestato28. Tuttavia, la revoca non può ritenersi efficace e quindi vincolante, se prestata in tempi e condizioni che non consentono l’interruzione del trattamento già avviato, senza pregiudizio per la salute29.

Dinnanzi alla volontà del paziente di interrompere la cura, possono sorgere in capo al medico obblighi informativi supplementari. Al riguardo si è detto che il medico - il quale, comunque, è sempre tenuto ad informare il paziente dei rischi connessi alla mancanza di terapia – “deve insistere nel ricordare al paziente le conseguenze della sua decisione perché medio tempore il malato potrebbe diventare meno lucido rispetto al momento in cui aveva manifestato il consenso”30.

25 Così Cass. pen 16 gennaio 2008 n. 11335, in Guida dir., 2008, 15, 93; Cass. 31 luglio 2013 n. 18.334, in Dejure, ove si legge l'affermazione secondo cui l'informazione sanitaria al paziente deve essere “completa ed esaustiva”.

26 Precisa la giurisprudenza che: “nell'ipotesi di inosservanza dell'obbligo di informazione in ordine

alle conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto viene a configurarsi a carico del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) una responsabilità per violazione dell'obbligo del consenso informato, in sé e per sé, non assumendo alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica” (Cass. 11 dicembre 2013 n. 27.751, in Dejure; Cass. 14 luglio 2015 n. 14.642, in

Ridare.it., 2016, con nota di Munafò).

27 Cass. 19 settembre 2014 n. 19.731, in DeG. S. Rossi, op. cit., 214, precisa che la lesione del diritto all'autodeterminazione in materia medico-sanitaria può determinare, in concreto, un danno morale, oltre che una lesione di tipo “esistenziale”, legata ad una scelta esistenziale (pretermessa) connessa ad identità e dignità di ciascuno.

28 In punto revocabilità del consenso, cfr., per tutti, F. MANTOVANI,Persona (delitti contro la)», in

Enc. dir., Annali, II, 2, Milano, 2008, P. 861.

29 G. IADECOLA-BONA, La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Milano, 2009, p. 13.

30 G. MONTANARI VERGALLO, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e

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2. La “giustificazione” del trattamento

Il problema della liceità del trattamento medico chirurgico si ricollega alla circostanza che la gran parte delle attività sanitarie incidenti sul corpo umano sembrerebbe integrare il reato di lesioni personali. Come recentemente affermato dalla Corte di Cassazione, infatti, “qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito ‘fausto’, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano l’elemento oggettivo di detto reato, ledendo l’integrità corporea del soggetto ”31.

A bene vedere, una simile affermazione, sebbene variamente sostenuta in dottrina32, sembra eccessiva nel caso di intervento medico chirurgico realizzato con il pieno consenso del paziente e con esito pienamente fausto e senza particolari sofferenze per il malato. In questa particolare ipotesi sembra una forzatura, non in linea con una corretta interpretazione teleologica della fattispecie di lesioni personali, affermare che il medico avrebbe cagionato “malattia del corpo o della mente”33: la condotta del medico va considerata, in questi casi, radicalmente priva di tipicità34. Più complessa si presenta la problematica nei casi di trattamenti medico chirurgici (ma un discorso analogo può farsi per accertamenti diagnostici particolarmente dolorosi ed invasivi o per la somministrazione di farmaci che comportano dolorosi effetti collaterali) che, pur rispettosi delle regole dell’arte medica, si risolvano in una notevole sofferenza per il malato o abbiano condotto ad un esito fausto solo in senso relativo (ad esempio, la vita del malato è stata salvata ma a costo della amputazione di un arto) o addirittura ad un esito infausto. In tali ipotesi la responsabilità del medico che abbia operato nel pieno rispetto delle regole dell’arte medica e previa acquisizione del consenso del paziente, viene generalmente esclusa ritenendo la sua condotta coperta da una causa di giustificazione (con la conseguenza che la condotta resta obiettivamente lecita anche in presenza di un esito non fausto).

31 Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822, in Corriere del Merito, 2009, 3, pp. 304 ss.- 32 Infra 4.

33 T. PADOVANI, Diritto penale, parte gen., Milano, 2008, p. 155.

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Il problema dell’individuazione della causa di giustificazione in grado di costituire il fondamento di liceità del trattamento medico è una classica vexata quaestio per la dottrina penalistica, sulla quale sono stati scritti fiumi di inchiostro senza che sia stato possibile giungere ad una soluzione condivisa.

Si fronteggiano tutt’oggi diverse concezioni interpretative, tutte volte a spostare il piano dell’analisi fuori dal fatto tipico. Accanto a chi sostiene tout court l’irrilevanza della questione, muovendo dalla prospettiva della radicale irrilevanza penale del trattamento medico e/o della supposta “autolegittimazione”, si invoca di volta in volta il consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p.; l’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., sub specie di esercizio di un’attività autorizzata, finanziata e incoraggiata dall’ordinamento quale l’attività medico-chirurgica; l’adempimento di un dovere; ovvero, una speciale causa di giustificazione non codificata ad hoc per il trattamento medico35. A quest’ultima opinione sembrano essersi accostate le Sezioni Unite che invocano una “scriminante costituzionale fondata sull’art 32 Cost., che, tutelando la salute umana, assicurerebbe in linea di principio la liceità dei mezzi necessari ad assicurarne la salvaguardia”36.

Tutte le impostazioni, in effetti, concordano in linea di principio sulla necessità del consenso del paziente al trattamento quale requisito essenziale della sua liceità. Al riconoscimento di una diretta efficacia all’art. 50 c.p. sembra, invero, ostare il carattere in buona parte indisponibile degli interessi su cui incide l’atto medico: il mero consenso, si afferma, non potrebbe di per sé giustificare trattamenti comportanti menomazioni fisiche permanenti (es. amputazione di un arto o asportazione di un organo malato), né trattamenti comunque rischiosi per la vita del paziente.

In dottrina, pertanto, mentre viene generalmente condiviso il ruolo della sola scriminante del consenso nei ristretti limiti fissati dall’art. 5 c.c., per quanto riguarda i trattamenti estetici puri o sperimentali puri,37 si ritiene che proprio il limite di disponibilità fissato dall’art. 5 c.c. operante in relazione al consenso scriminante

35 S. DE FLAMMINEIS, Il consenso all’atto medico attraverso il profilo del diritto al rifiuto di cure ( e

dell’eutanasia), in Corr. Giur., 2009, 2, p. 184.

36 Cass. pen. Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 2437.

37 F. MANTOVANI, Parte Generale, Milano, 2008, p. 271; per approfondimenti v. pure V. MAGNINI, I

requisiti e i limiti di liceità della sperimentazione umana. Profili penalistici, in Ind. Pen., 2006, p.

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farebbe sì che l’art. 50 si rivelerebbe poco funzionale a giustificare interventi (come sono quelli chirurgici) che si risolvono talvolta in una diminuzione permanente dell’integrità fisica se non addirittura nella morte del paziente38.

Sia condivisibile o meno questo rilievo - ritenuto infondato da alcuni interpreti39-, prevalente è, invece, l’opinione dottrinale che ritiene che l’attività medico chirurgica terapeuticamente orientata può trovare il suo fondamento nell’art. 51 c.p. perché riconducibile all’esercizio di un diritto, trattandosi di attività che lo Stato autorizza e disciplina e che trova un fondamento costituzionale nell’art. 32 Cost. che riconosce come obiettivo fondamentale la tutela della salute40. Il compimento di un atto medico da parte di un sanitario rappresenta, dunque, l’esercizio di un autentico diritto e quindi tale condotta ancorché lesiva e suscettibile di per sé di incriminazione, risulterebbe scriminata ex art. 51 c.p..

In questa prospettiva, il consenso non opererebbe direttamente come scriminante ex art. 50 c.p., ma funzionerebbe comunque da indispensabile presupposto della legittimità dell’atto terapeutico.

Infatti, l’interpretazione maggioritaria, avvallata anche dalla giurisprudenza ritiene che, perché possa operare l’esercizio di questo diritto, sia comunque necessario il riscontro del requisito del consenso del paziente, tanto più per i casi di sperimentazione clinico-farmaceutica afferenti a medicinali off-label. In altri termini, piuttosto che operare come causa di giustificazione a sé stante ex art. 50 c.p., il consenso del paziente, in presenza di particolari condizioni che lo rendano informato, libero, attuale e consapevole e, dunque, valido funge da condizione di operatività per l’esercizio del diritto di eseguire un intervento sanitario41.

38 G. VASSALLI, Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento

medico-chirurgico, in Arch. Pen., 1973, p. 81.

39 F.VIGANÒ, in Commentario Dolcini, Marinucci, Ipsoa, 2015, p. 707, secondo l’A. “tali perplessità

sono a ben guardare infondate: la considerazione della ratio dell’art. 5 c.c. consente infatti di escludere che i limiti alla disponibilità dell’integrità fisica ivi segnati siano operanti nel caso in cui l’atto dispositivo sia obiettivamente funzionale al complessivo miglioramento della salute del paziente o addirittura alla salvaguardia della stessa vita. Nulla si oppone, pertanto, ad avviso di chi scrive all’individuazione del normale fondamento della liceità del trattamento nello stesso consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p.”.

40 Per la dottrina tra gli altri, F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 287; ID. I trapianti

d'organo e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 48; ID. voce

Esercizio del diritto, in Enc. dir. XV, Milano, 1966, p. 627 ss.; A. MANNA, voce Trattamento

medico-chirurgico, cit., p. 280 ss..

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Il particolare ruolo che assume il consenso del paziente in riferimento al trattamento medico chirurgico è stato sottolineato anche dalla Cassazione a Sezioni Unite, che ha superato la riduttiva prospettiva di fare riferimento alla causa di giustificazione prevista dall’art. 50 c.p.. Il consenso del paziente, a parere dei Supremi Giudici, non si identifica con quello ex art. 50 c.p., ma si erge a indefettibile presupposto di legittimità del trattamento medico chirurgico, essendo il paziente libero di effettuare scelte autonome e consapevoli42. Per le Sezioni Unite l’attività sanitaria, proprio perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare - in tal modo - la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall’art. 32 della Carta fondamentale, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo43.

Più precisamente, le Sezioni Unite accolgono la tesi secondo cui il trattamento medico troverebbe la propria fonte di legittimazione in una causa di giustificazione non codificata, fondata su una sorta di “scriminante costituzionale”, la quale parrebbe destinata ad operare in relazione alle ipotesi di trattamento con esito infausto – posto che di tale scriminante non vi sarebbe alcuna necessità rispetto ai trattamenti con esito fausto che la stessa Cassazione considera in radice penalmente irrilevanti. Sempre nell’ottica delle Sezioni Unite, l’operatività di tale scriminante risulta, però, condizionata alla presenza dei presupposti di liceità – anch’essi desumibili dalla Costituzione – richiesti in funzione della tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica, sicché in assenza di tali presupposti, la scriminante non opererebbe, spalancandosi la strada per l’affermazione della responsabilità penale del medico44. In quest’ottica, l’attività medico chirurgica purché esercitata nel rispetto delle regole

C.PEDRAZZI, voce Consenso dell'avente diritto, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 144 ss.; G. BARBUTO, Alcune considerazioni in tema di consenso dell'avente diritto e trattamento medico

chirurgico, in Cass. pen., 2003, p. 328 ss..

Per la giurisprudenza del tutto maggioritaria tra le altre Cass., sent. n. 364, cit.; Cass., pen. sez. IV, sent. del 11 luglio 2001 , Firenzani, in Cass. pen., 2002, 2041; Cass. pen., sez. VI, sent. del 14 febbraio 2006, Caneschi; e da ultimo Cass. pen., sez. IV, sent. n. 11335 del 16 gennaio 2008, Huscher. 42 Cass. pen., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437.

43 E.GALLI, Il consenso informato nell'attività medico-chirurgica: le controverse posizioni della

giurisprudenza penale, in Resp. civ., 2011, p. 8.

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dell’arte medica e fatta eccezione delle diverse ipotesi in cui sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (come è il caso degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica) perderebbe ogni carattere antigiuridico45.

Del tutto minoritaria, invece, è rimasta la tesi secondo cui un intervento medico che, sul piano soggettivo, sia finalizzato alla salvaguardia e al complessivo miglioramento del paziente e, dal punto di vista oggettivo, sia eseguito lege artis, non sarebbe mai penalmente rilevante, indipendentemente dall’esito fausto o infausto dell’intervento medesimo. La tesi è variamente motivata, talvolta affermandosi – da parte della dottrina meno recente – che il trattamento eseguito leges artis costituisca attività socialmente adeguata46, ma più spesso ricorrendosi all’argomento – particolarmente diffuso in giurisprudenza – della c.d. autolegittimazione dell’attività medico chirurgica esercitata conformemente alle leges artis, che sarebbe in via generale autorizzata (ed anzi incoraggiata) dall’ordinamento, in quanto obiettivamente funzionale alla tutela dell’integrità fisica del paziente, indipendentemente dal suo esito concreto, che può non essere quello desiderato per ragioni non imputabili al sanitario47.

La finalità terapeutica che anima il medico nell’esecuzione del trattamento - è stato osservato - “si riverbera dunque sul fatto materiale a livello di tipicità, implicando così la riconduzione di qualsivoglia forma di alterazione degli equilibri fisiopsichici del paziente, da parte del medico, nel novero delle attività costituenti immediata estrinsecazione dell’esercizio dell’azione terapeutica in senso lato, quale concreta attuazione del diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost. , e come tali autorizzate e disciplinate dall’ordinamento”48.

Si tratta, tuttavia, di affermazioni tralatizie, non più al passo con una mutata sensibilità giuridica che riconosce pacificamente all’individuo un diritto fondamentale di rifiutare le cure, il cui corollario non può che essere l’illiceità di un

45 F.VIGANÒ, in Commentario Dolcini, Marinucci, cit., p. 703.

46 C.FIORE, L’azione socialmente adeguata del diritto penale, Morano, 1966, p. 126.

47 G. IADECOLA, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del consenso nell’attività

chirugica, Cass. pen., 2002, p. 2041; ID., Ancora in tema di rilevanza penale del consenso (del

dissenso) nel trattamento medico chirurgico, in Cass. pen., 2003, p. 2659.

48 A. LORETO, Trattamento sanitario arbitrario, in A.CADOPPI-S.CANESTRARI (a cura di), Casi e

materiali di diritto penale. Parte speciale, vol. II, Milano, 2006, 116. In giurisprudenza, considerazioni

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trattamento praticato contro la volontà dell’interessato, anche nel caso in cui risulti conforme alle leges artis e si sia in concreto rivelato benefico per la salute del paziente. Si obietta, pertanto, “che il trattamento non si autolegittima affatto, bensì richiede una specifica ragione di legittimazione, di regola rappresentata dalla conforme volontà del paziente”49.

3. Le regole di legittimazione del trattamento medico tra strumenti normativi e prassi giurisprudenziali: il ruolo della Convenzione di Oviedo

Nella perdurante assenza di un’organica legislazione in materia, i presupposti di legittimità dell’atto medico sono stati ricostruiti dall’interprete sulla scorta delle indicazioni provenienti dall’intero ordinamento, a partire ovviamente dalle norme costituzionali, nonché delle fonti internazionali vincolanti per l’ordinamento italiano ex art. 117 co. 1 Cost..

Tra quest’ultime ha rivestito un particolare rilievo la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1966, elaborata nel quadro costituzionale del Consiglio d’Europa, ma aperta anche a terzi, la quale costituisce ormai uno strumento universale che fissa le coordinate essenziali della tutela dei diritti fondamentali nella materia dei trattamenti medici.

Discussa è, invero, l’effettiva vincolatività della Convenzione per l’ordinamento italiano: il nostro Parlamento ha autorizzato il governo alla ratifica della Convenzione con la l. n. 145/2001, contenente la clausola di “piena e intera esecuzione” dello strumento nel diritto interno; ma il governo non ha sinora provveduto al deposito dello strumento di ratifica presso la sede indicata dalla Convenzione, né ha provveduto all’emanazione dei decreti attuativi.

Tali circostanze non hanno tuttavia impedito alla giurisprudenza italiana più recente di guardare alla Convenzione come a punto di riferimento essenziale cui orientare l’interpretazione delle norme interne, ivi comprese quelle costituzionali, suscettibili di trovare applicazione nella materia del trattamento medico; valorizzando, con ciò, il generale consenso sui principi espressi dalla convenzione

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consolidatosi sul piano internazionale e, assieme, l’adesione espressa dallo stesso parlamento italiano a quei principi attraverso la citata legge di autorizzazione alla ratifica50.

Il richiamo alla Convenzione di Oviedo è particolarmente importante, nel contesto che ci occupa, dal momento che tale strumento contiene agli artt. 5-9 una rassegna pressoché esaustiva dei possibili presupposti di liceità del trattamento medico in rapporto al diritto all’autodeterminazione terapeutica (e alla stessa integrità fisica) del paziente, disciplinando, in particolare: il consenso informato del paziente capace (art. 5), il consenso informato del legale rappresentante del paziente incapace (art. 6), il trattamento coattivo delle infermità psichiche (art. 7) e le situazioni di urgenza terapeutiche).

È pertanto opportuno procedere all’esame di tale disposizioni con l’esposizione che segue.

3.1 Il consenso del paziente capace

La regola fondamentale enunciata dall’art. 5 della Convenzione è quella secondo cui, in linea generale, l’esecuzione di un trattamento medico presuppone il consenso informato del paziente: il quale si presenta, dunque, nel sistema convenzionale, come la fonte “normale” di legittimazione del trattamento stesso.

Come si è anticipato, su tale principio vi è ormai oggi assoluto consenso in giurisprudenza e in dottrina, trattandosi del resto di una piana conseguenza anche della regola espressa – nel nostro ordinamento – dall’art. 32 co. 2 Cost. che, stabilendo il divieto di trattamenti sanitari obbligatori in assenza di una disposizione espressa di legge, sancisce a contrario il principio che in mancanza di una tale disposizione di legge il trattamento potrà lecitamente attuarsi solo in presenza del libero consenso del paziente.

Il consenso del paziente deve essere libero ed informato in relazione alla “natura dell’intervento e alla sue conseguenze e i suoi rischi”. Al paziente, pertanto devono essere forniti – in forma per lui comprensibile- tutti gli elementi idonei a consentirgli di assumere una responsabile decisione sull’an e sul quomodo della cura.

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Il nucleo informativo essenziale già individuato dalla Convenzione di Oviedo è arricchito dalla giurisprudenza interna, secondo cui sono senz’altro, oggetto di comunicazione, tenuto conto delle migliori conoscenze scientifiche del momento: lo status clinico del malato, la probabilità di successo della terapia, il livello di rischio della medesima in rapporto ai benefici sperati (anche con riferimento agli effetti collaterali e alle possibili complicanze, stanti le condizioni di salute complessive), la possibilità di terapie alternative, l’invasività dell’intervento (anche con riferimento alle attività abitualmente svolte dal paziente), nonché il livello di sofferenza prevedibile51. L’informazione deve, altresì, rendere edotto il paziente delle conseguenze che derivano dal rifiuto della terapia, dinnanzi al quale il medico è comunque legittimato ad attivare “una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza”52. Il quantum di informazione cresce proporzionalmente alla gravità dell’anamnesi ed ai beni coinvolti dal trattamento53.

Ovvio corollario del principio della necessità del consenso informato del paziente capace è l’illegittimità dell’intervento medico in presenza di un rifiuto di prestare il consenso da parte del paziente. Tale corollario è esplicato all’art. 35 comma 4 del Codice di Deontologia medica, a tenore del quale “in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e curativi, non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà della persona”, e non soffre tutt’oggi alcuna eccezioni nell’ordinamento italiano. Non vi è, infatti, alcuna legge che preveda trattamenti sanitari coattivi (ossia eseguibili anche con la forza nonostante il dissenso e l’opposizione del paziente, e non già

51 Cass. pen., sez. IV, 24-6-2008, n. 37077, cit., 182. In termini Cass. pen., sez. IV, 16-1-2008, n. 11335, DPP, 2009, 66-70, cit. 69 con nota (senza titolo) di PIETRA, PP.70-78. Per Cass. pen., S.U., 18-12-2008, n. 2437, cit., che riprende C. Cost., 15-18-12-2008, n. 438, cit., l'informazione riguarda la natura, gli sviluppi del percorso terapeutico e le terapie alternative, in vista di una libera e consapevole scelta da parte del paziente.

52 Così, espressamente, Cass. civ., sez. I, 4-10-2007, n. 21748, cit.. In dottrina, F. MANTOVANI,

Biodiritto e problematiche di fine vita, Criminalia, 2006, p. 60.

53 Così, tra gli altri, F. GIUNTA, Il consenso informato all'atto medico tra principi costituzionali e

implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p, 388.

Il contenuto dell’obbligo informativo non è fisso e immutabile, dovendo essere modulato in rapporto alla situazione concreta in cui ci si trova a operare (v. Cass. pen., Sez. IV, n. 17801 del 2014, in

www.italgiure.giustizia.it; Cass. pen., Sez. IV, n. 38852 del 2005, in Dir. giust., 2005, 41 ss.; art. 33,

comma 2 del Cod. deont. med.), e altresì in relazione al «grado di reale volontà del malato di conoscere, poiché il malato ha anche il diritto di rifiutare le informazioni altrimenti dovutegli» (v. F. MANTOVANI, Biodiritto, cit., 60; art.33, comma 3 del Cod. deont. med.).

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meramente obbligatori come talune vaccinazioni) nei confronti di pazienti capaci. L’unica ipotesi di trattamento sanitario realmente coattivo prevista dalla legge è rappresentata dal t.s.o. e dalle vaccinazioni obbligatorie.

L’art. 5 comma 3 della Convenzione di Oviedo, infine, precisa che il consenso già prestato dal paziente può essere sempre liberamente revocato dal paziente medesimo, con conseguente obbligo a carico del medico di sospendere il trattamento eventualmente già avviato, dopo aver debitamente informato il paziente delle conseguenze della sua decisione. La revoca del consenso da parte del paziente fa infatti venire meno l’originario presupposto di legittimità del trattamento, che risulterebbe così sprovvisto di ogni giustificazione, violandosi il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente.

La revoca del consenso - e la conseguente richiesta di interruzione del trattamento eventualmente già iniziato – non è di per sé subordinata ad alcun requisito di validità e/o capacità del paziente, determinando semplicemente il venir meno della condizione di legittimità del trattamento, o della sua prosecuzione. Laddove, peraltro, il paziente risulti incapace nel momento della revoca del consenso, dovrà vagliarsi se il trattamento possa o debba comunque essere eseguito (o proseguito) in forza di una diversa causa di legittimazione54.

3.2. Il consenso del paziente incapace

Nel caso di paziente incapace, la regola generale espressa dall’’art. 6 della Convenzione di Oviedo è che il trattamento potrà essere lecitamente praticato soltanto a beneficio del paziente, e previo consenso informato del suo legale rappresentante (e non già di qualsiasi prossimo congiunto). Con riferimento ai minorenni, la norma si astiene dal fissare una soglia generale oltre la quale la capacità sia presunta, o viceversa al di sotto della quale sia presunta l’assenza di capacità, limitandosi piuttosto a rinviare alla discrezionalità di ciascuno Stato contraente; ma precisa al comma 3 che l’opinione del minorenne dovrà comunque essere presa in considerazione come un fattore sempre più importante della decisione in relazione al crescere dell’età e della maturità del minorenne stesso. Parallelamente, in relazione al paziente maggiorenne ma infermo di mente, il comma 3 stabilisce che questi dovrà per

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quanto possibile essere coinvolto nella procedura di autorizzazione. Infine, la norma precisa ancora una volta che l’autorizzazione concessa dal legale rappresentante può in ogni momento essere revocata.

Si deve rilevare come questa disciplina si inserisca senza alcuna frizione nel quadro delle regole già presenti nel nostro ordinamento, così come interpretate dalla giurisprudenza. Il potere di chi esercita la responsabilità genitoriale e del tutore di assumere decisioni in relazione ai trattamenti medici cui l’incapace debba essere sottoposto si evince, infatti, dagli artt. 357 e 424 c.c. , nella parte in cui attribuiscono a tali soggetti funzioni di “cura della persona” dell’incapace, il cui esercizio dovrà essere orientato al criterio dei “migliori interessi”- e dunque del beneficio, soggettivamente inteso - dell’incapace55. Laddove invece il paziente sia assistito da un amministratore di sostegno al quale sia stato specificamente conferito, in base all’art. 405 c.c., il compito di assumere decisioni in materia di cura della salute dell’assistito, sarà costui a dover concedere l’autorizzazione al trattamento medico56.

Al legale rappresentante il medico dovrà fornire le medesime informazioni che dovrebbero essere normalmente comunicate al paziente capace (art. 6, comma 4). Il soggetto incapace dovrà comunque, nei limiti del possibile, essere coinvolto nella decisione medica, a sua volontà dovendo essere considerata in proporzione della sua età o grado di capacità e maturità (art. 6, comma 2). Anche il consenso del legale rappresentante potrà naturalmente essere revocato, allorché la revoca appaia sempre funzionale alla tutela dei migliori interessi del rappresentato (art. 6, comma 5).

Il criterio decisionale cui dovrà attenersi il legale rappresentante nel prestare o rifiutare il consenso ad un determinato trattamento (ovvero alla sua eventuale revoca) è sempre quello dei suoi “migliori interessi”, o meglio, del suo best interest, secondo l’espressione inglese corrente, adottata anche dalla Cassazione nella sua sentenza del 2007 sul caso Englaro. Il punto è pacifico tanto a livello internazionale (l’ Explanatory Report alla Convenzione chiarisce in proposito che contro l’eventuale rifiuto del legale rappresentante, contrario agli interessi dell’incapace, ad autorizzare il trattamento gli Stati contraenti dovranno apprestare appositi rimedi giurisdizionali), tanto a livello

55 Per tutte, Cass. Civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., sul noto Caso Englaro.

56 M. BARNI, L’amministrazione di sostegno tra opzioni mediche e autonomia del paziente, Riv. it.

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interno, dove è sempre previsto il controllo del giudice tutelare sul retto esercizio dei poteri del legale rappresentante dell’incapace, nonché la possibilità per il giudice di assumere gli opportuni provvedimenti in caso di condotta del rappresentante pregiudizievole all’incapace (artt. 333, 424 e, con riferimento all’amministratore di sostegno, 410 comma 2, c.c.). Il che implica in particolare la possibilità per il giudice di concedere egli stesso l’autorizzazione al trattamento, allorché il rifiuto da parte del legale rappresentante rischi di pregiudicare gli interessi del paziente57.

Il nodo maggiormente problematico in questi casi concerne però la determinazione del concetto di “interesse”, o di “miglior interesse” dell’incapace: profilo, questo, sul quale la sentenza 16 ottobre 2007 sul caso Englaro della Cassazione segna davvero un passaggio epocale. Un trattamento indicato come appropriato dalla miglior scienza medica in relazione ad una determinata situazione clinica non corrisponde sempre e necessariamente al miglior interesse dell’incapace; né addirittura - secondo la Corte - è necessariamente nell’interesse dell’incapace il trattamento che ne garantisca la sopravvivenza. Il concetto di “interesse” dell’incapace è, piuttosto, da interpretarsi in chiave soggettiva, con riferimento ai bisogni reali, ai desideri attuali o precedentemente espressi, nonché al mondo ideale del singolo paziente; e compito del legale rappresentante è quello di calarsi nei panni dell’incapace, per formare una decisione in merito al trattamento medico che sia il più possibile espressione della sua personalità, non già della voce della scienza medica58.

Nell’eventualità poi in cui il paziente incapace sia addirittura privo di coscienza - come nel caso dello stato vegetativo permanente59 - l’interesse del paziente andrà determinato, secondo la Cassazione, con riferimento alle sue manifestazioni di volontà anticipate (delle quali occorre sempre “tener conto”, ai sensi dell’art. 9 della Convenzione di Oviedo, anche in assenza di una disciplina legislativa ad hoc), ovvero alla sua volontà presunta, ricostruita in base alla sua personalità pregressa: ossia in relazione a ciò che il paziente medesimo avrebbe verosimilmente desiderato, secondo un apprezzamento condotto al metro delle sue passate

57 F. VIGANÒ, I presupposti, cit., p. 358.

58 G.ANZANI, Consenso ai trattamenti medici e "scelte di fine vita", in Danno e resp., 2008, p. 980. 59 R. PACIA, Sull’interruzione di cure al malato in stato vegetativo permanente, in Fam. dir., 2008, p. 203 ss.

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manifestazioni di volontà, ma anche del suo mondo di valori, del suo modo di concepire l’esistenza, della sua personale concezione della dignità umana60.

Un simile approccio spiega come la Corte di Cassazione sia potuta pervenire alla conclusione di ammettere in linea di principio che il legale rappresentante possa disporre l’interruzione delle misure di sostegno vitale praticate alla figlia. Per quanto l’effetto di una simile decisione sia la morte del paziente, essa non dovrà per ciò solo essere considerata contraria all’interesse dell’incapace; ma potrà risultare, all’opposto, conforme al suo interesse, laddove emerga una volontà presunta del paziente di non essere mantenuto in vita a oltranza senza alcuna speranza di recuperare in futuro la coscienza.

Sulla base di tali principi di diritto - come è noto - la Corte d’appello di Milano ha successivamente autorizzato il padre di Eluana a disporre l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione che tenevano in vita la figlia, avendo per l’appunto riconosciuto la fondatezza della valutazione del tutore, secondo cui la prosecuzione del sostegno vitale sarebbe stata contraria al “miglior interesse” - soggettivamente inteso - della paziente. In queste condizioni, la prosecuzione del trattamento sarebbe dunque risultata priva di legittimazione. Ergo, il trattamento è stato nel caso di specie lecitamente (e anzi, doverosamente) interrotto: con conseguente irrilevanza penale della condotta dei sanitari che hanno dato seguito alla decisione del padre di Eluana, avallata in via preventiva dalla Corte d’appello milanese61.

3.3 Il trattamento delle infermità mentali

L’art. 7 della Convenzione di Oviedo consente di sottoporre, con le garanzie prescritte dalla legge, i pazienti sofferenti di seri disturbi psichici ad un trattamento sanitario finalizzato alla cura del loro disordine mentale senza il loro consenso, allorché sussista un serio rischio per la loro salute in assenza di tale trattamento. Nell’ordinamento italiano, gli articoli 33 e seguenti della l. 23 dicembre 1978, n. 833 prevedono la possibilità di sottoporre le persone affette da malattia mentale a

60 M. AZZALINI, Tutela del paziente incapace e rifiuto di cure: appunti sul Caso Englaro, in La nuov.

Giur. civ. comm., 2008, p. 20345.

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trattamenti sanitari obbligatori (t.s.o.), eventualmente anche in regime di degenza ospedaliera, allorché non sia possibile acquisire il consenso del paziente.

Il comma quinto dell’art. 33 impone che tali accertamenti e trattamenti siano sempre “accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato”, in questo modo “recuperando”, in un certo senso, la volontarietà della sottoposizione a dette cure, nonché riaffermando l’imprescindibile esigenza di salvaguardia della dignità umana62. Non vi è dubbio, però, che tali trattamenti possano essere (e normalmente siano) attuati senza il consenso del paziente, né dei suoi legali rappresentanti, anche attraverso l’utilizzazione della forza fisica per vincere la resistenza del paziente medesimo63. E’ la stessa legge ad imporre il trattamento sanitario quando un paziente, per malattia mentale, non sia in grado di sottoporsi volontariamente alle cure necessarie al proprio stato di salute, sicché la valutazione di tale stato è rimessa ai medici, al sindaco quale autorità sanitaria e alla successiva autorizzazione del giudice secondo le procedure previste ex artt. 33-34-35 della l. 833/1978.

L’espressa previsione legislativa dei t.s.o. per la cura delle malattie mentali soddisfa sia la riserva di legge posta dall’art. 32 co. 2 Cost., per la previsione di qualsiasi trattamento sanitario obbligatorio, nonché quella posta dall’art. 13 per qualsiasi intervento della pubblica autorità che privi l’individuo della propria libertà personale, o che comunque comporti l’uso di una coazione sul suo corpo. Inoltre, la disciplina in questione assicura il controllo ex post dell’autorità giurisdizionale del provvedimento del sindaco che dispone il t.s.o. in ossequio all’ulteriore riserva di giurisdizione posta dall’art. 13 Cost.. Nelle ipotesi in questione, pertanto, i fatti di sequestro di persona, violenza privata ed eventualmente di lesioni personali integrate dall’esecuzione coattiva delle terapie saranno dunque giustificati in quanto oggetto di facoltà e/o doveri disciplinati dalla legge in conformità agli artt. 13 e 32, comma 2 Cost.64.

62 S. CACACE, Il consenso informato del paziente al trattamento sanitario, in Danno e resp., 2006, p. 395.

63 G. GLIATTA, La dignità e la salute del paziente in assenza di consenso, in Resp. Civ., 2010, p. 16. 64 F. VIGANÒ, Commentario, cit., p. 657.

(27)

3. 4 Le situazioni di urgenza terapeutica

L’art. 8 della Convenzione di Oviedo prevede, infine, la possibilità che il medico intervenga a beneficio della salute del paziente in situazioni di emergenza senza il preventivo consenso del paziente medesimo o del suo legale rappresentante ai sensi degli artt. 5 e 6, allorché tale consenso non possa essere ottenuto. Il che si verifica tipicamente in due situazioni: quando il paziente si trovi, anche solo temporaneamente, in stato di incapacità (perché ad es. incosciente) e un legale rappresentante non sia ancora stato nominato; ovvero quando il legale rappresentante, pur se nominato, non sia reperibile con la tempestività necessaria ad evitare un danno alla salute del paziente. In casi siffatti, dunque, la necessità dell’intervento costituirà essa stessa la ragione giustificativa del trattamento.

L’ipotesi ricorre, nella maggioranza dei casi, in relazione a vicende in cui il paziente (perché in coma o sotto anestesia) non può essere interpellato e il medico, appunto di sua iniziativa, decide di effettuare - sia pure nel rispetto delle regole dell’arte medica - un intervento diverso da quello per cui è stato prestato il consenso.

La norma si riferisce, dunque, ai casi che tradizionalmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana sono ricondotti nell’alveo dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p..

In realtà, tale prospettiva non è del tutto convincente, non solo perché nelle ipotesi in esame a venire in discussione è non la facoltà, bensì il dovere medico di intervenire65, dovere la cui violazione rileva penalmente ai sensi dell’art. 40 comma 2 c.p., stante la posizione di garanzia rivestita dal medico nei confronti del paziente; ma anche e soprattutto perché il concetto di “urgenza terapeutica” deve essere inteso in senso più elastico rispetto ai rigidi requisiti di cui all’art. 54 c.p., che confinerebbero la liceità dell’intervento del sanitario alle sole ipotesi di imminente pericolo di vita o di grave danno all’integrità fisica in caso di omissione dell’intervento66.

In verità, dovrà ritenersi lecito, ed anzi doveroso per il medico, praticare il trattamento indicato secondo la lex artis, ogniqualvolta si possa ragionevolmente

65 D. PULITANÒ, Doveri del medico, dignità del morire, diritto penale, in Riv. it,. med. leg., 2007, p. 1197

66 G.VASSALLI, Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento

medico chirurgico, in Heinitz-Fs, 197, p. 791. Negano ogni rilievo allo stato di necessità in tema di

trattamento medico anche F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte Speciale, cit., p. 57; T.PADOVANI,

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