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INTELLIGENZA EMOTIVA E CLIMA DI CREATIVITÀ

Nel documento Intelligenza emotiva e creatività a scuola (pagine 99-108)

IL CLIMA DI CREATIVITA’ COME MEDIATORE 3.1 Il clima di Creatività

CAPITOLO 4. INTELLIGENZA EMOTIVA E CLIMA DI CREATIVITÀ

Empatia e neuroni specchio

Un importante aspetto da tenere in considerazione è la modalità tramite cui le emozioni vengono espresse. Una delle caratteristiche dell’intelligenza emotiva ha a che fare, secondo Salovey, proprio con la capacità di riconoscere le emozioni che l’altro prova anche attraverso le espressioni facciali, la voce, la prossemica e la postura del corpo.

Riuscire ad identificare in modo chiaro le emozioni proprie ed altrui conferisce anche la possibilità di modificare il proprio comportamento, rispondendo in modo adeguato al contesto (Salovey, 1990).

Negli anni Settanta lo psicologo americano Paul Ekman classificò le emozioni in base ai loro effetti proprio sui muscoli del viso. Un importante esperimento di Ekman (1973) mostrò che ad esempio i soggetti giapponesi più di quelli americani cercavano di controllare la loro espressione facciale dinnanzi ad emozioni negative se in compagnia di un patriota.

Successivamente, Ekman e Friesen (1978) svilupparono un metodo, il FACS (Facial Action Coding System) per studiare scientificamente le espressioni facciali delle emozioni.

I suoi studi hanno portato Ekman ad individuare sei emozioni di base. Secondo lo psicologo, queste emozioni sono presenti in tutte le culture. Sarebbero inoltre universalmente identificabili attraverso delle espressioni facciali le quali costituirebbero una sorta di linguaggio emotivo. Queste emozioni primarie funzionerebbero come un meccanismo che si aziona automaticamente per aiutarci a rispondere ai cambiamenti che si verificano nel nostro ambiente.

Ciò che scatena le emozioni, invece, non è universale e varia a seconda delle culture, dei contesti e degli individui. Le sei emozioni di base individuate da Ekman sono la rabbia, la paura, il digusto, la felicità, la tristezza e la sorpresa.

Goffman aveva dedicato molto tempo allo studio della lingua parlata dal corpo ed aveva sviluppato con occhio di riguardo lo studio della “comunicazione allargata” che prevedeva, appunto, la presa in considerazione del corpo e del suo linguaggio in quanto partecipe nelle

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interazioni. La questione della gestione dell’emotività e del controllo del comportamento rimane al centro dell’osservazione di Goffman (1952), il quale definisce l’interazione faccia a faccia partendo dall’inevitabile presenza del corpo. Per il sociologo il corpo partecipa ad ogni relazione sociale e comunica al di là di ogni parola. Tuttavia, è necessario guardare ai “frames” non ai corpi per poter avere una qualche comprensione delle interazioni.

Conseguentemente, anche le caratteristiche corporee sono incorniciate all’interno di un modello di interpretazione che tiene conto di queste, consapevole della loro rilevanza, ma che le contiene e non è da esse contenuto.

Per cui, ad esempio, un difetto fisico può diventare uno stigma non tanto in quanto esiste, né in quanto difetto fisico riconosciuto dall’interno, quanto per un significato sociale che è stato ad esso collegato.

Nonostante la sua importanza, la dimensione del corpo risulta ad esempio spesso assente e separata in ambito didattico.

Secondo Gamelli (2006) la preparazione delle figure professionali in campo scolastico ed educativo, avviene dentro ad un contesto culturale e strutturale ancora poco sensibile alla molteplicità dei linguaggi, ad una didattica capace di accogliere, già solo nella predisposizione degli spazi e dei tempi prima ancora che nei programmi, una domanda di formazione veramente interdisciplinare, capace di mettere in gioco concretamente i corpi, le emozioni, i sensi tutti. A scuola, infatti, il corpo è ovunque, non solo all’interno dell’educazione motoria, relegato in spazi, tempi e luoghi definiti e limitati dalla vita scolastica.

Nell’interazione tra la classe e l’insegnante, in modo diverso in relazione ai diversi ordini di scuola, si stabiliscono esplicitamente o implicitamente delle regole proprio in relazione al tempo e allo spazio. Il carattere “estatico” dello spazio e del tempo e cioè la loro costituzione come orizzonte degli strumenti con cui l’uomo si rapporta al mondo, dipende infatti dal presupposto che l’uomo è al mondo in quanto corpo.

Massa (1986) si riferisce allo spazio come ad uno “spazio educante” sostenendo che tutto il processo educativo si gioca a livello delle transazioni percettive ed intellettive attraverso cui l’organismo entra in rapporto con l’ambiente, attivandosi. Lo scopo dell’educazione diventa quindi in questo senso promuovere motivazioni ed espedienti finalizzati a dare vita ad attività di tipo esperienziale.

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In questa cornice si può collocare una didattica di tipo “enattivo” (Rossi, 2011), che supera i dualismi tra sé e mondo, tra corpo e mente, tra oggetto e soggetto ed in cui l’azione e la conoscenza rappresentano un processo unico in cui, nell’azione, sia il corpo, sia la mente, assumono un ruolo significativo.

L’enattivismo propone, infatti, una stretta relazione tra azione e conoscenza e mette inoltre al centro del processo di conoscenza il binomio soggetto-ambiente.

Per l’enattivismo l’ambiente non produce in modo meccanico un cambiamento nel sistema in quanto il sistema evolve anche in base alle sue strutture interne. La visione enattiva, benché richiami nel significato il concetto di rappresentazione come modalità del conoscere, tenta di superarlo in favore della corporeità, cioè di una mente incorporata (embodied mind).

Mente e corpo vengono visti in questa prospettiva come entità inscindibili ed integrate in una nuova identità. Mediante la circolarità di percezione ed azione si realizza una produzione continua di mondi da parte del soggetto conoscente. Tra mondo (o realtà che si va conoscendo) e soggetto conoscente, si va costruendo una storia di connessione reciproca in cui viene evidenziato il valore conoscitivo dell’agire, dello stare nel mondo, celebrando la perfetta identità nonché simultaneità di “conoscenza” e “azione”, in cui “agire è conoscere”. Per questa ragione il corpo e l’ambiente in cui opera il soggetto sono considerati, in questo tipo di approccio, elementi decisivi.

Date queste premesse ogni atto educativo dovrebbe basarsi sull’attivazione di canali di comunicazione chiari, sicuri e coerenti, evitando ambivalenze e discontinuità.

A questo proposito è interessante il contributo di John Bowlby sulle dinamiche psicologiche di

attaccamento (1969). Bowlby produsse, infatti, una notevole quantità di studi, arrivando a comprendere i possibili itinerari di crescita dei bambini in base alla qualità delle relazioni che si venivano a configurare tra le richieste dei bambini (attaccamento), le risposte delle figure genitoriali (accudimento) e la percezione di queste risposte da parte dei bambini (sintonizzazione). In base alle sue ricerche Bowlby poté identificare quattro modalità di relazionarsi con l’Adulto che si strutturano soprattutto a seconda della qualità della risposta (accudimento) dei genitori: sicuro, evitante, ambivalente, disorganizzato.

I bambini con attaccamento sicuro presentano livelli di curiosità, motivazione ed attenzione più strutturata, maggiore tolleranza alle frustrazioni, spiccato senso della cooperazione, capacità più intensa di preoccuparsi per gli stati d’animo altrui.

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Affinché possa stabilirsi una modalità di attaccamento sicuro, occorrono genitori sensibili, affidabili, coerenti e soprattutto prevedibili. Perché tutto questo si verifichi, il bambino ha bisogno di sentire nell’adulto la calma, la coerenza, l’autorevolezza che gli consentiranno l’identificazione con la figura di riferimento, sentendosi sicuro.

I bambini con attaccamento evitante, invece, hanno prevalentemente figure genitoriali che non rispondono alle esigenze del figlio, stimolando in lui l’inibizione dei propri bisogni.

I bambini con attaccamento ambivalente hanno invece figure genitoriali che spesso non rispondono adeguatamente alle loro richieste, non sintonizzandosi con le loro emozioni ignorandone imprevedibilmente bisogni ed emozioni.

Lo stabilizzarsi di un attaccamento ambivalente provoca conseguenze importanti nel bambino: dubitando continuamente della realtà delle proprie percezioni, emozioni e sensazioni, questi bambini diventeranno gradualmente dipendenti dal mondo esterno, protesi alla ricerca della validità del proprio “sentire” e del proprio mondo emozionale (1969).

Anche la scuola può produrre un certo tipo di attaccamento negli alunni: tale attaccamento sarà foriero di benessere o di ulteriore malessere e sfiducia in base a quanto i docenti siano disposti a dare in termini di “sintonia emotiva” e di atteggiamenti finalizzati a rispecchiare con buona approssimazione emozioni, bisogni, paure e stati d’animo dei propri alunni (Mariani & Schiralli, 2012).

Attualmente, grazie anche ai recenti contributi neurofisiologici favoriti dall’utilizzo di indagini diagnostiche per immagini non invasive (neuroimaging), è possibile affermare che la capacità di un adulto di sintonizzarsi con i bambini in maniera empatica costituisce una condizione necessaria per educare all’autonomia e all’autostima.

Tra il mondo degli adulti e quello dei bambini si dovrebbe pertanto, sostengono Mariani & Schiralli, realizzare il più precocemente possibile una relazione attenta e profonda in modo tale da permettere al soggetto di percepire in che modo lui venga a sua volta percepito.

Da quando la PET (Tomografia assiale ad emissioni di positroni) e la REM (Risonanza funzionale magnetica) vengono utilizzate nel campo della ricerca neurofisiologica, negli ultimi anni molti studiosi stanno verificando ipotesi sullo sviluppo del cervello e del comportamento dei bambini quando sono in relazione con gli adulti di riferimento (Newberg et al., 2001).

Tramite queste ricerche è possibile vedere cosa accade nella testa di un bambino durante le normali interazioni ad esempio con i propri genitori. Alcuni ricercatori, a tal proposito, stanno già

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approfondendo la ricaduta degli stili educativi dei genitori sull’organizzazione e sul successivo sviluppo dei centri nervosi del cervello dei bambini.

Dalle prime ricerche (Cozolino 2002), sembra che le condotte educative di genitori prevedibili, autorevoli, empatici e sicuri ottimizzino l’integrazione delle reti dei neuroni nel cervello dei loro figli ed aumentino la vascolarizzazione (più ossigeno), favorendo lo sviluppo di autostima ed autonomia, nonché una più efficace reazione allo stress e alle frustrazioni.

Al contrario, nel caso in cui i genitori mettessero in atto condotte educative superficiali, imprevedibili e troppo permissive, i figli saranno più portati ad attivare il sistema nervoso autonomo parasimpatico. Questa modalità di risposta è caratterizzata da bassi livelli di espressione emozionale, evitamento del contatto, chiusura e ritiro.

Quando, invece, si è in presenza di genitori ansiosi, distanti e disorganizzati, non in grado di offrire regolari dosi di affetto, i bambini tendono ad attivare il sistema nervoso simpatico, mostrandosi di solito iperattivi, con alti livelli di espressione emotiva non modulata, irritabili, dipendenti e con una scarsa capacità di riprendersi da uno stress.

Questo tipo di modalità di risposta agli stili educativi dei genitori tendono a persistere nella preadolescenza, nell’adolescenza, e anche più tardi se non intervengono fattori correttivi come, ad esempio, una scuola efficace nell’educare alla gestione delle emozioni.

Il modo in cui si sta in relazione con soggetti in età evolutiva modella il loro cervello (Mariani & Schiralli, 2012). Di conseguenza, il fatto che la neuro biochimica di un giovane cervello dipenda in gran parte da come si pongono genitori, educatori ed insegnanti rappresenta un evento di grande responsabilità e speranza per il futuro del genere umano.

Secondo Pons, Harris e de Rosnay (2000), i bambini acquisiscono gradualmente una comprensione della propria vita emotiva diventando sempre più abili nel fronteggiare situazioni di disagio e di ansia; inoltre, la competenza nell’affrontare più efficacemente le proprie emozioni trova la sua origine nella comprensione delle loro cause.

Negli ultimi trent’anni i ricercatori hanno utilizzato diversi strumenti per poter valutare l’abilità dei bambini di assumere le prospettive emotive degli altri (perspective taking) e per indagare le conoscenze rispetto all’atteggiamento emotivo (Harris, 1989; Saarni, 1999).

Risulta interessante a questo proposito il contributo di Schaffer (2004) il quale focalizza l’attenzione sull’interdipendenza esistente tra il comportamento emotivo dei bambini e le relazioni

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che questi sono in grado di instaurare durante lo sviluppo definendo i termini “socio” ed “emotivo” come facenti parte di un unico costrutto, definito competenze socio-affettiva.

Sulla scia di questo tipo di indagini, tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma ha realizzato una ulteriore scoperta, conferendo centralità alla componente biologica dell’empatia (Ferrari, Gallese, Rizzolatti, Fogassi, 2003).

Questi ricercatori collocarono degli elettrodi nella corteccia frontale inferiore di una scimmia per studiare i neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, come il raccogliere o il maneggiare oggetti.

Durante ogni esperimento veniva registrato il comportamento dei singoli neuroni nel cervello della scimmia mentre lei accedeva a frammenti di cibo, in modo tale da misurare la risposta neuronale a dei specifici movimenti.

Un giorno, mentre un ricercatore prendeva una banana in un cesto preparato per gli esperimenti, alcuni neuroni della scimmia che osservava la scena reagirono.

Come poteva essere possibile se la scimmia non si era mossa? Fino a quel momento si pensava infatti che quei neuroni si attivassero solamente per funzioni motorie. Inizialmente i ricercatori pensarono si trattasse di un difetto nella strumentazione, ma le reazioni si ripeterono appena fu ripetuta la medesima azione.

Questi ricercatori hanno pertanto osservato che nella corteccia pre-motoria del cervello esiste una classe di neuroni che si attivano non solo quando il soggetto compie un’azione, ma anche quando il soggetto osserva quelle stesse azioni eseguite da altri.

Esistono cioè dei neuroni motori che scaricano l’impulso anche quando il soggetto assiste all’azione di un altro pur rimanendo immobile: come se si trovasse al posto dell’altro.

Queste cellule nervose, denominate “neuroni specchio” si attivano anche quando si osserva un’altra persona accingersi a compiere un’azione o a provare una sensazione: una capacità quindi di percepire, anticipandola, l’intenzione di chi le sta vicino.

Differentemente rispetto alle scimmie su cui sono stati condotti i primi esperimenti si è infatti osservato che il sistema umano dei neuroni specchio codifica atti motori transitivi e intransitivi. Nell’uomo, infatti, non è necessaria una effettiva interazione con gli oggetti: i suoi neuroni- specchio si attivano anche quando l’azione è semplicemente mimata.

Anche se il loro ruolo primario rimane quello di comprendere le azioni altrui, il contesto umano è più complesso. Questa specie di stimolatore interno permette di sentire quello che l’Altro sente ed

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è attivo anche nei bambini molto piccoli e si sviluppa a seconda del tipo di accadimento offerto dagli adulti di riferimento tramite l’azione educativa.

La capacità di parti del cervello umano di attivarsi alla percezione delle emozioni altrui, espresse tramite i movimenti del volto, gesti e suoni; la capacità di codificare istantaneamente questa percezione in termini motori rende ogni individuo in grado di agire in base ad un meccanismo neurale per poter ottenere quella che i ricercatori definiscono “partecipazione empatica”.

Questo comportamento, che sembra precedere la comunicazione linguistica, caratterizza e può orientare quindi le relazioni inter-individuali, alla base dell’intero comportamento sociale.

L’intensità della scarica dei neuroni specchio, inoltre, è significativamente diversa durante l’esecuzione dell’atto rispetto all’osservazione dell’atto, di conseguenza i neuroni specchio sono in grado di distinguere fra agente ed osservatore (Ferrari, Gallese, Rizzolatti, Fogassi, 2003). I neuroni specchio, assieme ad altre strutture neurofisiologiche del cervello, costituiscono probabilmente quindi la base biologica dell’empatia, competenza che possiedono anche i bambini, probabilmente fin da piccolissimi. I bambini, sostengono Mariani e Schiralli (2012), riescono a percepire l’intenzione degli adulti di riferimento, poiché sono in grado di sintonizzarsi con gli stati d’animo, con le emozioni e con le sensazioni di chi li accudisce e si prende cura di loro.

Se il livello di sintonia e di regolazione reciproca (chiarezza, prevedibilità, intesa, condivisione) viene a mancare o è in difetto si genera malessere. Durante la crescita tali predisposizioni possono svilupparsi o meno in base alla qualità dell’interazione con gli adulti di riferimento.

Genitori che soffrono per un trauma non risolto e che non riescono a trovare aiuti significativi possono trasmettere ai propri figli gli effetti negativi del trauma (ansia, paura, angoscia) tramite il proprio modo di comportarsi, di sentire e reagire (Mariani & Schiralli, 2012).

Un esempio di questo è rappresentato dai figli dei sopravvissuti ai campi di concentramento, i quali hanno spesso condiviso la biochimica del trauma dei genitori pur senza averlo subito personalmente. I genitori che non sanno trovare le parole per riflettere sui propri stati d’animo e che per questo si mostrano inaccessibili a qualsiasi “lettura del pensiero”, non forniscono ai propri figli lo sviluppo della capacità di comprendere il proprio mondo interno.

Nel caso in cui i bambini rimangano per molto tempo in questo tipo di situazioni possono disorganizzarsi emotivamente, con gravi ricadute sullo sviluppo e sul comportamento futuro. Per confermare questa ipotesi, alcuni ricercatori (Bickart et al., 2004) hanno osservato le dimensioni dell’amigdala e lo spessore di precise aree della corteccia cerebrale di alcuni soggetti

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sani grazie alla ricostruzione tridimensionale delle aree del cervello, ottenendo il volume di queste parti. Agli stessi soggetti è stata misurata la complessità e la dimensione della rete sociale di ciascun partecipante. I soggetti con un’ampia e complessa rete di conoscenze e relazioni si sono rivelati possedere anche un’amigdala più sviluppata per dimensioni e connessioni con le aree deputate alla socializzazione, confermando l’ipotesi di Kevin Backart e aprendo nuove strade all’approccio e alla terapia di patologie che portano all’isolamento e alla chiusura.

Durante uno dei loro studi Yvcevic, Brackett & Mayer (2007) hanno riscontrato inoltre che i soggetti maggiormente aperti nei confronti dell’esperienza e quindi meno portati all’isolamento, sono anche individui più creativi.

Una buona educazione emotiva sembra essere pertanto una chiave capace di rendere il bambino autonomo, efficace, sicuro ed in grado di affrontare le frustrazioni.

Nonostante questo per molto tempo la dimensione emotiva delle persone è stata trascurata dalle scienze psicologiche, preoccupate maggiormente dal definire e studiare altre variabili come l’apprendimento, la motivazione, la percezione e le molteplici funzioni del pensiero.

Attualmente, invece, il dibattito è vivo ed aperto soprattutto relativamente alla possibilità di adottare strategie di prevenzione, favorendo approcci educativi atti a stimolare l’utilizzo “intelligente” delle emozioni.

Usare le emozioni con intelligenza si può se, però, le consideriamo “educabili”, sostiene Morganti (2012). Sapere quindi che cosa si sta provando, cosa stanno provando gli altri, essere in grado di assegnare un nome alle nostre emozioni, gestirle.

Un luogo di prevenzione, dove poter sviluppare progetti di educazione emotiva possono essere certamente le scuole: avere quindi scuole “emotivamente intelligenti” con docenti in grado di promuovere negli studenti abilità di natura cognitiva, emotiva e sociale che li aiutino a riconoscere, esprimere e gestire le loro emozioni, a sviluppare abilità assertive e sociali, a prendere decisioni responsabili e a stabilire relazioni interpersonali positive.

La scuola è infatti il luogo dove i bambini passano gran parte del loro tempo, costruiscono conoscenze, creano i primi rapporti interpersonali. E’ il luogo dove la convivenza con gli altri rappresenta la condizione imprescindibile del vivere civile, e dove, sempre più spesso, il contatto con l’alterità e la diversità è presente.

La ricerca scientifica ormai da tempo ha evidenziato che non è possibile, infatti, disgiungere la dimensione emotiva da quella puramente “istruttiva” (Morganti, 2012).

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L’insegnamento non si esaurisce nella padronanza disciplinare o nelle sole capacità organizzative e didattiche, ma è costituito anche da abilità comunicative, relazionali ed emotive, per poter essere un “professionista riflessivo” (Schon, 1983).

Per poter promuovere questo tipo di insegnamento è necessario pertanto lavorare sulla figura degli insegnanti, affinché acquisiscano un diverso stile di insegnamento che consenta loro non solo di trasferire conoscenze agli allievi, ma di diventare essi stessi modelli di comportamento emotivamente e socialmente intelligente.

La figura dell’Insegnante nel XXI secolo

A livello internazionale vi è un notevole interesse nel fatto di poter modificare il panorama educativo adottando e promuovendo idee collegate allo sviluppo delle cosiddette “21 st century skills”. Molti paesi, tra cui paesi membri dell’OCSE (Organizzazione Internazionale per lo sviluppo economico) hanno, infatti, riconosciuto la relazione esistente tra il miglioramento della sfera educativa con quella relativa al progresso del proprio paese (OECD, 2017).

Come il test PISA (Programme for International Student Assessment) elaborato dall’OCSE ha dimostrato più volte, insegnare agli studenti come applicare la propria conoscenza non è semplice. Inoltre, l’utilizzo pervasivo della nuova tecnologia digitale ha incrementato lo scambio di informazioni, con la conseguenza che gli individui devono essere in grado di processare molteplici forme di comunicazione per poter realizzare degli obiettivi concreti.

Si fa strada sempre più la necessità, quindi, di favorire ambienti di apprendimento che supportino lo sviluppo di competenze cognitive ed interpersonali adeguate al contesto socio culturale attuale, in particolare competenze che permettano agli studenti di applicare le proprie conoscenze nei confronti di situazioni nuove e di nuovi tipi di problematiche. Questo tipo di competenze fanno riferimento sia alla conoscenza specifica di una determinata disciplina sia alla comprensione in

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