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L’interpretazione dell’articolo 101 TFUE alle luce del nuovo Regolamento 1/

2. La restrizione della concorrenza nel diritto europeo

2.1. L’interpretazione dell’articolo 101 TFUE alle luce del nuovo Regolamento 1/

1/2003

L’esperienza del diritto europeo, sui temi trattati, è a prima vista molto

diversa da quella americana.

Come è noto, l’articolo 101 TFUE struttura il divieto delle intese in due

diverse disposizioni. Il paragrafo 1 definisce l’oggetto (od effetto)

anticoncorrenziale, come “impedire, restringere o falsare la concorrenza”.

Tuttavia, la portata sostanziale del divieto è precisata nel paragrafo 3, ove è sancita l’inapplicabilità del divieto delle intese che rispondano ad una serie di

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A livello interpretativo, nel paragrafo 1 si era ravvisato un divieto dal

contenuto molto ampio e vincolante ope legis, sicché la violazione (o non

violazione) dello stesso poteva essere rilevata direttamente da qualsiasi autorità,

giudiziaria o amministrativa, di ogni Stato membro; il paragrafo 3, invece, è

stato letto come una norma che consente una autorizzazione in deroga

(“esenzione”, nel testo normativo)133, ma solo a seguito di un provvedimento

amministrativo, di natura costitutiva, della Commissione.

In sostanza, l’interpretazione dell’art. 101 (ex art. 85), in ragione dell’impostazione di fondo seguita dal Reg. 17/62, era condizionata da questo

dato strutturale, conseguente alla scelta interpretativa generale: si doveva

distinguere un primo livello di divieto delle intese anticoncorrenziali,

applicabile ope legis, ed un secondo livello, operante solo a seguito di una decisione caso per caso e al rifiuto dell’autorizzazione in deroga (con effetto

giuridico costitutivo) della Commissione134.

133 Non a caso, questa espressione (“autorizzazione in deroga”), che esprime, più chiaramente di quanto non faccia il testo della norma comunitaria, la necessità di un provvedimento amministrativo, è stata utilizzata nella parallela disposizione dell’art. 4, l. 287/90.

134 Questo schema divieto generale/deroga per volontà discrezionale del decisore politico- amministrativo ha radici antiche nel diritto europeo, e trova la sua espressione storica più completa nello Statute of Monopolies inglese del 1623. Il legislatore europeo ha recepito questo modello normativo, anche se in un contesto di principi molto diverso da quello dell’età preindustriale. Cfr., anche per indicazioni bibliografiche, M. Libertini, Concorrenza, in Enc. Dir. - Annali III, Milano, Giuffrè, 2010.

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Questo è stato lo schema interpretativo unanimamente condiviso.

Maggiori problemi interpretativi sorsero, invece, riguardo la ricostruzione dei rapporti tra i due paragrafi. Secondo l’interpretazione ufficiale, il paragrafo 1

poteva intendersi come una norma volta a fissare un divieto pur sempre fondato sulla valutazione della funzione economica dell’accordo (quindi, non sul

semplice dato tipologico formale), e destinato così ad escludere dall’ambito del

divieto quelle intese che, già a un esame prima facie, risultassero non

pericolose, o addirittura proficue, per il buon funzionamento dei mercati. In

questa prospettiva, la differenza tra paragrafo 1 e 3 sarebbe stata solo una

differenza di grado: il par. 1 consentiva già di escludere dal divieto le intese

prima facie innocue per il buon funzionamento del mercato; il par. 3 si sarebbe

applicato, invece, ai casi dubbi, cioè a quelle intese che richiedessero una

valutazione approfondita degli effetti economici, positivi e negativi, dell’accordo.

Infatti, le autorità europee hanno sempre evitato di leggere il par. 1 come

espressione di un divieto per se, fondato sul semplice accertamento dell’oggetto

negoziale.

In altri termini, nell’interpretazione dell’art. 101.1, l’”oggetto”

anticoncorrenziale è stato inteso come alterazione della concorrenza effettiva, e

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con sé la necessità di valutare dunque, in ogni caso, la funzione economica, concreta dell’accordo, nel mercato in cui lo stesso era destinato ad operare. In

tal modo, si è determinato una sorta di doppio grado di valutazione dell’accordo,

ma sulla base di criteri non chiaramente differenziati. Pertanto, l’interpretazione

ufficiale dell’art. 101, nei rapporti tra paragrafo 1 e 3, ha visto affermarsi, per

lungo tempo, una sorta di doppio grado di rule of reason, con una prima serie

di fattispecie in cui il giudizio di non restrizione della concorrenza appariva più

facile, sì da consentire immediatamente una dichiarazione di non applicazione

del divieto, ed una seconda serie di fattispecie, più complesse, in cui appariva

necessario un atto amministrativo della Commissione, per giustificare la non

applicazione del divieto.

In conclusione, riassumendo il quadro normativo nel suo insieme (cioè

avendo presente il combinato disposto dei paragrafi 1 e 3 dell’art. 101), si è

potuto affermare che il diritto europeo della concorrenza non conosce divieti

assoluti per se di determinati tipi di intese135.

In realtà, c’è un divieto assoluto (e implicito) ricavabile dalla ratio della

norma, ed è quello avente ad oggetti la costituzione di “cartelli”, cioè di

135 Trib. I gr. CE, 15 luglio 1994, T-17/93, Matra Hachette. Nella dottrina antitrust europea, la terminologia americana è invece talora usata (v. per esempio I. Kokkoris, Purchase Price Fixing: a

per se Infringement?, in Eur. Comp. L. R., 2007, 473 ss.), ma in un’accezione in cui il termine per se

ha una valenza presuntiva e non esclude l’astratta possibilità di un secondo livello di valutazione, ex art. 101.3.

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organizzazioni private permanenti (o almeno costituite per una certa durata),

aventi come proprio oggetto quello della programmazione della produzione e dell’attività delle imprese partecipanti, al fine di coordinarne i comportamenti

di mercato (prezzi ecc.) nell’interesse dell’intera categoria. L’unico divieto

automatico è quindi quello di dar vita ad un’organizzazione comune “per il

coordinamento della produzione e degli scambi” (come recitava il testo

originario dell’art. 2602 c.c., poi modificato nel 1976).

Per quanto riguarda, invece, gli accordi (bi-) o plurilaterali tra imprese,

aventi ad oggetto determinati comportamenti di mercato (senza la costituzione di un’organizzazione comune di cartello), occorre applicare sempre la rule of

reason ed analizzare gli effetti economici concreti a cui l’intesa può dare luogo.

Anche se l’esperienza applicativa ha portato ad individuare una serie di c.d.

hard core restrictions, rimane una certa differenza con i divieti americani per se, rispetto ai quali la presunzione è stata intesa per lungo tempo, e lo è tuttora,

come assoluta (tuttavia, come si è sopra notato, anche l’evoluzione recente del

diritto americano sembra piuttosto nel senso di relativizzare la presunzione, così

avvicinando la regola operativa americana a quella europea). Rispetto al diritto

americano permanevano, comunque, nel diritto antitrust europeo precedente la “modernizzazione”, alcune differenze sostanziali.

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La scelta politica di fondo del Reg. 1/2003 è stata quella di consentire alla

Commissione di evitare gran parte del lavoro di routine, per potersi dedicare ad

interventi repressivi mirati sui grandi cartelli e sui monopoli di dimensione

sovranazionale.

A tal fine, il sistema di “divieto/esenzione in deroga” fin lì utilizzato è stato

sostituito con un sistema di “eccezione ope legis” al divieto. La valutazione

circa la portata degli effetti anticoncorrenziali è quindi oggi possibile anche in

via decentrata ed anche attraverso la decisione di un singolo giudice o di una

autorità amministrativa nazionale.

In sostanza, è stata adottata una soluzione simile al modello americano di

applicazione diretta della norma antitrust di divieto delle intese nella sua

interezza da parte di qualsiasi autorità competente, sulla scorta di una rule of

reason, ferma restando la differenza costituita dal fatto che la clausola generale

di ragionevolezza è sostituita, nell’ordinamento europea, da criteri molto più

definiti, quali sono quelli dettati dall’art. 101.3. Può ben dirsi pertanto che l’applicazione del divieto è costantemente subordinata ad un esame della “causa

in concreto” dell’intesa (cioè della concreta funzione economica della stessa).

Per giungere a tale risultato, la Commissione ha applicato una interpretazione dell’art. 101.3 basata su un testo (Libro Bianco del 1998)

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essere dichiarate inapplicabili” alle intese che abbiano determinati requisiti.

Con la nuova interpretazione, la dichiarazione di inapplicabilità assume quindi valore ricognitivo, sicché l’intesa in possesso dei requisiti previsti dalla legge è

lecita, e negozialmente valida, ab initio, senza necessità di alcun esame preventivo da parte dell’autorità antitrust. In questo nuovo quadro generale

interpretativo, viene dunque meno un dato strutturale fondamentale della

vecchia interpretazione: mentre prima si aveva un doppio livello di

applicazione/disapplicazione del divieto delle intese – uno ope legis ed uno per

via amministrativa – oggi la conclusione sul punto si deve sempre raggiungere

ope legis.

Per questo ha ormai perduto senso la prospettiva di un doppio giudizio di

applicabilità, la quale fondava sul par. 1, una valutazione prima facie dell’intesa

e sul par. 3 una analisi più approfondita del divieto alle intese.

Nella nuova prospettiva, è dunque assente (salvo che per intese minori) l’esigenza pratica di individuare spazi di non applicazione ope legis del divieto

già in sede di interpretazione del par. 1. Il rapporto fra il par. 1 e 3 dell’art. 101

può invece essere ricostruito su basi diverse: il giudizio sulla liceità o meno dell’intesa è il risultato finale di una valutazione complessiva della fattispecie,

che comprende tanto i requisiti di base perché si possa parlare di intesa “restrittiva” della concorrenza, quanto la mancanza di quei requisiti che

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consentono, ai sensi dell’art. 101.3 del Trattato, di escludere l’operatività del

divieto.

Una importante rilevanza giuridica della differenza tra par. 1 e par. 3 dell’art. 101, riguarda la ripartizione dell’onere della prova. Infatti, secondo

l’art. 2 del Reg. 1/2003/CE, incombe sull’impresa che invoca l’applicazione

dell’art.101.3 “l’onere di provare che le condizioni in esso enunciate sono

soddisfatte”. Ciò significa che alla parte attrice basta provare che l’intesa

comporta una concertazione del modus operandi sul mercato, o almeno una

cooperazione, fra imprese dotate, nel loro insieme, di qualche potere di mercato. A questo punto sorge una presunzione legale semplice che l’intesa sia contraria

a divieto, e quindi nulla. Sul paino del diritto positivo, la reale differenza fra

regola del par. 1 e regola del par. 3 si riferisce dunque, oggi, al solo profilo

probatorio: spetta all’autorità antitrust provare la sussistenza dei requisiti perché possa parlarsi di “restrizione della concorrenza”; spetta, invece, alle imprese

interessate provare che l’intesa porta con sé i guadagno di efficienza e gli altri

requisiti idonei a giustificarne l’esenzione (le c.d. redeeming virtues dell’atto). Pertanto, per provare un’infrazione al divieto dell’art. 101.1 si dovrà dimostrare

anche che i comportamenti di cui si tratta hanno un’incidenza (attuale o

potenziale) sulla concorrenza effettiva nel mercato rilevante. In sostanza, una tale incidenza deve ammettersi tutte le volte in cui l’accordo sia idoneo a

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limitare la dinamica del processo concorrenziale o la libertà di scelta del

consumatore. La concreta idoneità a restringere la concorrenza effettiva in un mercato non ricorre quando le imprese partecipanti all’intesa (viste nel loro

insieme) non hanno “potere di mercato”, sicché le loro scelte, unilaterali o

concertate, non sono in grado di condizionare i futuri comportamenti dei

concorrenti, dei fornitori o dei consumatori136. Bisogna precisare che la nozione

di “potere di mercato”, ai fini dell’applicazione del divieto, deve intendersi nel

senso più lato possibile, come riferita a qualsiasi vantaggio differenziale (o “fattore di concorrenza imperfetta”) di cui una o più imprese godano (fattore

consistente anche, semplicemente, nell’ubicazione dell’esercizio di vendita o in

abitudini di consumo, ecc.).

In definitiva, può concludersi nel senso che un’intesa nel diritto europeo è

restrittiva della concorrenza, ai sensi dell’art. 101.1, se comporta una limitazione alla libertà d’azione imprenditoriale di una o più delle imprese

partecipanti all’intesa stessa; se è idonea a produrre una restrizione della

concorrenza effettiva; se è legata all’esercizio di un certo potere di mercato (da

intendersi in senso lato, come vantaggio competitivo differenziale nei confronti

dei concorrenti), da parte delle imprese partecipanti.

136 V. Commissione U.E., Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 101 del Trattato sul

funzionamento dell’Unione Europea agli accordi di cooperazione orizzontale, Bruxelles, 14 gennaio

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Così intesa, la restrizione della concorrenza rilevante ai fini dell’art. 101.1,

ha una portata assai ampia. Nell’esperienza applicativa tradizionale, però, il

requisito qualitativo della restrizione concorrenziale, è stato inteso in modo più

incisivo. Infatti, si è ritenuto che il divieto non sia violato tutte le volte in cui

una valutazione prima facie porti a riconoscere con sicurezza un miglioramento dell’offerta, con beneficio dei consumatori, e quindi un incremento della

concorrenza effettiva (come per esempio negli accordi di distribuzione

esclusiva per la diffusione dei prodotti di piccole imprese emergenti). Questo

criterio appare ora confermato dagli Orientamenti sulle restrizioni verticali del

2010 137 . Alla stregua delle indicazioni fornite dalla Commissione,

l’accertamento della eventuale violazione dell’art. 101.1, da parte dell’autorità

antitrust, deve prendere in esame i seguenti elementi: la natura dell’accordo; la

posizione di mercato delle parti; la posizione di mercato dei concorrenti; la

posizione di mercato degli acquirenti dei prodotti oggetto del contratto; le

barriere all’ingresso nel mercato; la maturità del mercato; il livello di catena

commerciale; infine, la natura del prodotto e altri fattori.

In ogni caso, il giudizio di illiceità del diritto antitrust europeo, è sempre il

risultato di una valutazione negativa della funzione economica (scopo, effetti economici) dell’intesa posta in essere dalle parti; pertanto, nei termini della

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teoria negoziale, può dirsi che la nullità dell’intesa deriva sempre dall’illiceità

della “causa in concreto” dell’accordo.

L’art. 101.3 dispone espressamente che il divieto delle intese può essere

dichiarato inapplicabile a singoli accordi o a “categorie di accordi”. Questo

nuovo regolamento di esenzione per categoria ha ormai un carattere ricognitivo

(non più costitutivo): esso determina una presunzione di compatibilità di una

certa intesa rispetto alla norma di divieto ed esclude la possibilità di formulare un giudizio di colpevolezza a carico dell’impresa che si sia conformata alla

norma.

I presupporti necessari cumulativamente affinché operi l’esenzione sono i

seguenti: il miglioramento delle condizioni di offerta del bene o servizio di cui si tratta; un sostanziale beneficio per i consumatori; l’indispensabilità della

clausola restrittiva ai fini del raggiungimento dei risultati dei due punti

precedenti; la non eliminazione assoluta della concorrenza in una parte

sostanziale del mercato.