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Evoluzione e disciplina di intese e concentrazioni nel diritto americano ed europeo

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

EVOLUZIONE E DISCIPLINA DI INTESE E

CONCENTRAZIONI NEL DIRITTO AMERICANO

ED EUROPEO

Relatore

Ch.ma prof.ssa Michela Passalacqua

Candidato

Matteo Randazzo

(2)

I

INDICE

INTRODUZIONE ... III

CAPITOLO I

ORIGINI E TEORIE DELLA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

1. Giustificazione economica per l’esistenza di un diritto antitrust ... 1

1.1. Obiettivi micro e macro economici ... 6

2. Le teorie economiche della concorrenza ... 17

3. Cenni storici: le origini dell’intervento antitrust in USA ... 36

3.1. I principi elaborati in seno alla common law, il principio di ragionevolezza nel giudizio e gli orientamenti interpretativi seguiti dalle Corti di Giustizia statunitensi .. 42

4. L’evoluzione storica in Europa ... 58

4.1. Le norme antitrust nella Comunità Europea: dai trattati istitutivi alla successiva evoluzione giurisprudenziale. ... 65

4.2. I motivi di un ritardo nella creazione di una disciplina antitrust in Italia ... 76

5. Il potere di mercato ... 81

5.1. Il problema dell’individuazione del mercato rilevante ... 88

5.2. Le barriere all’ingresso ... 93

CAPITOLO II LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA NEL DIRITTO AMERICANO ED EUROPEO 1. Lo Sherman Act ... 99

1.1. Tipi di sanzioni e modalità di applicazione previste dallo Sherman Act ... 105

1.2. Eccezioni ai principi sanciti nello Sherman Act ... 113

2. La restrizione della concorrenza nel diritto europeo ... 121

2.1. L’interpretazione dell’articolo 101 TFUE alle luce del nuovo Regolamento 1/2003 ... 140

(3)

II

3. L’art. 102 TFUE: l’abuso di posizione dominante ... 150

3.1. Le pratiche escludenti ... 162

3.2. “Raising rival’s costs” ... 164

3.3. La pratica dei “predatory price” ... 169

3.4. Contratti di eslcusiva ... 173

3.5. I contratti leganti (“tying contracts”) ... 175

3.6. Sconti fedeltà ... 181

CAPITOLO III LA DISCIPLINA DELLE CONCENTRAZIONI TRA DIRITTO STATUNITENSE ED EUROPEO 1. La legislazione statunitense in materia di concentrazioni: il Clayton Act del 1914 ... 183

1.1. Il Federal Trade Commission Act del 1914 ... 197

1.2. Lo Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act ... 206

2. Le Merger Guidelines ... 218

3. Le varie forme di concentrazione: la fusione, l’acquisizione del controllo, le joint venture, le ancillary restraints ... 236

3.1. Il test di valutazione delle concentrazioni a seguito del Regolamento 139/2004 242

CONCLUSIONI ... VII

BIBLIOGRAFIA ... XV

(4)

III

INTRODUZIONE

Alla base di questo studio vi è l’analisi del diritto della concorrenza, in

relazione ai due diversi approcci che gli USA e l’Europa hanno da sempre adottato in materia. In particolare, si pone l’attenzione sulla disciplina di intese

e concentrazioni, dalle origini ad oggi, mostrando così un quadro estremamente

variegato che offre numerosi spunti di analisi.

Le motivazioni che mi hanno spinto ad approfondire tale tema sono molteplici. L’interesse nei confronti del diritto antitrust è stato influenzato e

sicuramente incentivato da alcune esperienze vissute durante il miei periodi

trascorsi negli Stati Uniti, che mi hanno permesso di entrare in contatto con una

differente realtà economico-giuridica. Dopo essermi documentato

sull’evoluzione storica della materia, cercando all’origine del diritto antitrust,

le teorie economiche sulle quali questa si fonda, la disciplina delle intese e delle

concentrazioni ha rappresentato la base su cui ho condotto la mia ricerca. L’obiettivo di questa tesi di laurea è dunque quello di fornire un’analisi

economico-giuridica accurata del diritto antitrust, mettendone in evidenza le peculiarità e l’incidenza che ha oggi la materia nella vita di tutti noi. Infatti,

centrale al lavoro svolto, è il tema del consumatore e la sua tutela in relazione

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IV

questi interessi dipendenti e contrapposti. L’analisi verte sui differenti approcci

alla disciplina che hanno da sempre contraddistinto gli Stati Uniti e l’Unione

Europea. L’elaborato, in questo modo, mira a proporre delle nuove chiavi di

lettura del fenomeno antitrust alla luce dei recenti cambiamenti macro

economici che la globalizzazione ha apportato. Per meglio comprendere tali

concetti, ho volutamente riportato estratti di enunciati in lingua originale, così

da non disperdere ogni singola sfaccettatura di significato che assumono le

parole in un determinato contesto giuridico. È ricorrente, inoltre, il richiamo a casi giurisprudenziali che hanno segnato l’evoluzione e i cambiamenti della

materia, i quali sono serviti da “collante” tra la teoria (a volte troppo astratta) e

la pratica dei case (più sensibile al caso concreto).

La tesi è articolata in tre capitoli.

Nel primo capitolo sarà fornita un’introduzione generale del diritto della

concorrenza, con un’analisi dettagliata degli obiettivi che il diritto antitrust

vuole perseguire, attraverso un excursus storico ed economico: infatti, alla base dell’attuale approccio e dei continui cambi di rotta dell’antitrust vi sono teorie

tipiche della macro economia che hanno pervaso l’intero secolo scorso.

Partendo da questa analisi, si cercherà poi di spiegare i motivi che hanno spinto

dottrina e legislatore nella scelta dei vari interessi meritevoli di tutela nei diversi

(6)

V

questione dell’ingerenza politica nel diritto della concorrenza. Il primo capitolo proseguirà, poi, ripercorrendo l’evoluzione storica della materia in USA e in

Europa, cercando di mostrare così i principi posti a fondamento e i contesti

storici che hanno influenzato le varie leggi che regolano la disciplina. Infine, l’analisi entrerà nel vivo della disciplina analizzando la delimitazione giuridica

ed economica del mercato, con particolare riguardo al mercato rilevante e alla barriere all’ingresso.

Nel secondo capitolo ci si occupa della disciplina delle intese restrittive della concorrenza. La prima parte dell’analisi si sofferma sulla legge americana

che ha dato i natali all’antitrust, lo Sherman Act. La seconda parte, invece, è

incentrata sul diritto europeo: in particolare si pone l’attenzione sugli articoli

101 TFUE e 102 TFUE. La terza parte, infine, elenca una serie di pratiche

vietate e attuali, riscontrabili nella vita di tutti i giorni, analizzate con un

approccio prettamente economico per meglio comprenderne le finalità.

Il terzo capitolo si concentra interamente sulle concentrazioni. La materia,

da sempre oggetto di particolare interesse negli Stati Uniti, ha dapprima

suscitato poca attenzione in Europa arrivando, però, poco a poco, ad esserne,

anche qui, argomento centrale della materia. L’indagine economico-giuridica

prende avvio dalle leggi americane con una dettagliata enunciazione delle

(7)

VI

dei vari Regolamenti europei in materia. Si cerca, così, di individuare gli

elementi di differenza e le eventuali correlazioni tra i due approcci, soprattutto

alla luce dei recenti sviluppi che hanno seguito al rilascio delle ultime Merger

Guidelines. Al fine di operare una miglior ricerca possibile, ho utilizzato

documenti in lingua originale che mi hanno consentito di approfondire la

materia in ogni sua prospettiva, anche e soprattutto in relazione ai mutamenti

che la società moderna (dal punto di vista economico e non) sta attraversando.

Nelle conclusioni, infine, si procederà a commentare l’analisi della

disciplina, con uno sguardo proiettato al futuro della materia prospettando a

quali nuove sfide e a quali nuovi rischi sarà proiettato il diritto antitrust del

nuovo millennio.

Grazie a questo lavoro è stato possibile analizzare la disciplina antitrust in

tutta la sua evoluzione storica ed economico-giuridica, riservando un particolare

riguardo ad importanti fattori legati al mercato e al consumatore, mettendo in

luce la sempreverde diversità di approccio tra la politica, l’economia e la

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1

CAPITOLO I

ORIGINI E TEORIE DELLA DISCIPLINA DELLA

CONCORRENZA

1. Giustificazione economica per l’esistenza di un diritto antitrust

La disciplina antitrust, in ottica moderna, può essere pensata come una forma di intervento dei pubblici poteri nell’economia che, sebbene non sempre

in modo univoco, è chiamata a realizzare specifici obiettivi di natura micro e

macro economica.

Innanzitutto va segnalato un dato che mentre la scelta di quali obiettivi

economici assegnare alla disciplina antitrust è questione di politica del diritto

(o di politica industriale, visto che il diritto antitrust finisce per influenzare le dinamiche di mercato), l’individuazione del contenuto di questi obiettivi, ossia

la definizione di cosa si debba intendere quando, ad esempio, si parla di efficienza e benessere e, dunque, con un’espressione unica, di performance di

mercato, è questione di teoria economica. L’operazione intellettuale sottesa

all’esperienza antitrust può infatti essere così schematizzata: da una parte la

teoria economica descrive e spiega cosa accade nella realtà quando una o più

imprese adottano alcune condotte, ovvero individua quali effetti sono prodotti

(9)

2

concorrenza decide, invece, sulla scorta del contemperamento di interessi tra

loro confliggenti, quali forme di efficienza e benessere sono meritevoli di tutela;

il diritto antitrust, infine, individua i presupposti giuridici in presenza dei quali

devono vietarsi quelle condotte che, in virtù di particolari modelli economici,

applicati nel caso concreto, sono capaci di pregiudicare1 quelle forme di

efficienza e benessere che, secondo la politica industriale seguita, rappresentano

dei beni giuridici degni di tutela. In altri termini, compito del diritto antitrust è

stabilire a quali condizioni possa dirsi illecito un comportamento

imprenditoriale che la commistione tra teoria economica e politica della

concorrenza stabiliscono essere anti concorrenziale.

Si è detto “i particolari modelli economici applicati nel caso concreto”

perché la teoria economica può essere pensata come un insieme di modelli che,

descrivendo e spiegando la realtà economica in modo differente, qualificano e

valutano in modo altrettanto diverso i comportamenti delle imprese. E ciò al punto che i “cambiamenti di rotta” fatti segnare dalle esperienze antitrust

statunitense e europea possono dirsi il risultato non solo delle diverse scelte di

1 È infatti importante evidenziare che scopo del diritto antitrust non è condurre i mercati a mimare le condizioni e i risultati di concorrenza perfetta (obiettivo, semmai, della regolamentazione), ma impedire che le imprese, con le loro condotte, peggiorino le performance di mercato effettivamente esistenti. Ciò, a maggior ragione, se si considera che spesso l’asimmetria informativa che caratterizza sia il legislatore, sia i poteri pubblici, non consente di replicare con l’intervento diretto quella maggiore efficienza che la concorrenzialità dei mercati consente di ottenere. V. F. Ghezzi - M. Maggiolino, I presupposti economici della disciplina antitrust, in F. Ghezzi - G. Olivieri (a cura di),

(10)

3

politica industriale compiute dalle due giurisdizioni circa gli obiettivi da

assegnare alla disciplina antitrust, ma anche dei differenti modelli che tali

giurisdizioni hanno concretamente applicato per comprendere e descrivere la

realtà di mercato e le pratiche imprenditoriali.

Una buona e affidabile spiegazione della realtà economica (rappresentante il nocciolo dell’attuale teoria economica), e, quindi, una primaria e fondante

giustificazione per l’esistenza della disciplina antitrust, è data dalla pressione

competitiva, ossia all’obbligo per le imprese di “duellare tra loro” per cercare

di mantenere e, se possibile, incrementare la clientela con prodotti e servizi di

sempre minor costo e maggiore qualità; questa è la forza capace di accrescere l’efficienza e la capacità inventiva delle imprese e, per tale via, di aumentare il

benessere dell’intero corpo sociale. Di conseguenza, qualora si assistesse ad un

allentamento di tale pressione competitiva a vantaggio di una o di alcune

imprese, queste ultime avrebbero l’agio di disinteressarsi delle performance

delle loro rivali, ossia il vantaggio di continuare a trattenere a sé clienti a

dispetto di un minore impegno a migliorare i propri prodotti e servizi e di una

maggiore insoddisfazione dei loro clienti.

Avvalendosi del modello di concorrenza perfetta è possibile esemplificare come l’allentamento della pressione competitiva tipica di questo scenario

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4

congiuntamente come se fossero un unico monopolista) di godere di ciò che si

suole chiamare potere di mercato, ossia della possibilità di continuare a

sopravvivere nel mercato (realizzando, per giunta, extra-profitti) pur offrendo il

bene domandato dai consumatori a un prezzo significativamente maggiore del prezzo di concorrenza perfetta. Tale modello dimostra anche come l’aumento

così determinato del prezzo di mercato causi al contempo sia una perdita netta

di efficienza, corrispondente alla totale insoddisfazione della parte di

consumatori che non riusciranno più ad accedere al bene commercializzato al nuovo prezzo, sia l’assegnazione ai produttori di parte di quel surplus che in

concorrenza perfetta sarebbe stato totale appannaggio dei consumatori.

Inoltre la concentrazione del potere di mercato che si registra in contesti monopolistici (o assimilabili al monopolio) determina l’ulteriore effetto

negativo di condurre ad una produzione che risulta inferiore rispetto a quella

realizzabile in concorrenza anche per qualità, varietà, e grado di innovazione. Infatti, un’impresa (o un insieme di imprese), forte del significativo potere di

mercato detenuto, non impiegherebbe più gli extra-profitti conseguiti per effetto

del proprio potere per ricercare innovazioni tecnologiche e di prodotto capaci

di farle sostenere la sfida concorrenziale rappresentata dalle altre imprese, ma

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5

strategies) capaci di tutelare la sua posizione di rendita, ossia capaci di limitare

ulteriormente la suddetta pressione anticoncorrenziale.

Complessivamente quindi, ciò che in termini economici spiega e giustifica l’esistenza della disciplina antitrust è la tesi per la quale il passaggio da un

equilibrio di concorrenza, dove le imprese non dispongono di potere di mercato,

a un equilibrio di monopolio, dove invece le imprese sono (singolarmente o

congiuntamente) libere di agire in modo indipendente dalle performance che le

loro rivali offrono in termini di prezzi e qualità, determinerebbe tre situazioni complementari. Avremo infatti sia un deterioramento dell’efficienza statica,

nonché una riduzione del benessere totale quantificabile con la perdita netta di

efficienza; sia una riduzione del benessere del consumatore, in ragione del

trasferimento di ricchezza che avviene in favore delle imprese; infine si assisterebbe a un peggioramento dell’efficienza dinamica a causa del minor

tasso d’innovazione.

A prima vista, dunque, il diritto antitrust può anche essere descritto come

una disciplina diffidente nei confronti dei comportamenti imprenditoriali che,

come nel caso delle intese e delle concentrazioni sono capaci di condurre a varie

forme di aggregazione del potere di mercato, oppure che, come nel caso degli

abusi di posizione dominante, presuppongono la detenzione di forme

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6

Pertanto, pur nella variabilità degli obiettivi specifici associabili alla disciplina antitrust, quest’ultima è chiamata ad impedire alle imprese di

comportarsi in modo da allentare la pressione concorrenziale presente nel

mercato. E un modo per apprezzare in che direzione varia il livello di tale

pressione è guardare agli effetti che le condotte delle imprese possono produrre su variabili quali l’efficienza (statica, produttiva e/o dinamica) e il benessere

(del consumatore o totale).

1.1. Obiettivi micro e macro economici

Come dimostrano i molteplici cambiamenti di rotta che nel tempo le

giurisdizioni statunitense ed europea hanno fatto registrare, la scelta di quali

obiettivi economici associare alla disciplina antitrust implica il

contemperamento di interessi tra loro confliggenti, soprattutto allorquando si

tratti di individuare quale forma specifica di efficienza tutelare, a scelta tra

quella statica, quella produttiva e quella dinamica; quando si opti inoltre per la

protezione del benessere dei consumatori in luogo del benessere totale o

viceversa; e infine quando si decida per la tutela di specifiche performance di mercato qualunque sia l’impresa (anche dominante) che le abbia conseguite,

anziché per la protezione del numero dei concorrenti e/o di una particolare

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7

Con riguardo alle forme di efficienza, va innanzitutto osservato che in linea

generale, ogni policy maker2 vorrebbe che la propria politica della concorrenza

fosse in grado di garantire ai consumatori prezzi di mercato più bassi, prodotti

di migliore qualità, e una maggiore possibilità di scelta data dalla varietà e dalla natura innovativa dell’offerta. Tecnicamente questo significa provare a tutelare

al contempo le tre forme di efficienza con cui la teoria economica è solita confrontarsi: ossia l’efficienza statica, che fotografa l’andamento di breve

periodo di prezzi e quantità di mercato; l’efficienza produttiva, che dà conto

della capacità delle imprese di produrre limitando gli sprechi di risorse; e l’efficienza dinamica, la quale coglie la capacità delle imprese di innovare.

Nondimeno, si possono dare delle situazioni – comunque rare – nelle quali la

tutela di una forma di efficienza va a parziale discapito della protezione di un’altra forma di efficienza. Ad esempio, in specifiche condizioni di mercato la

tutela dell’efficienza produttiva può imporre alle imprese di controllare almeno

una certa quota di mercato (ossia, più propriamente, di soddisfare almeno una

certa scala di domanda) e, con essa di disporre almeno di un certo potere di

2 Il Policy making è un principio di precauzione che si basa sul non dar via libera alle innovazioni fino a che non si è sicuri dell'assenza di pericolosità. Si tratta di una precauzione politica: si sceglie di dare via libera ad una innovazione solo dopo aver stabilito forme decisionali trasparenti e con il coinvolgimento dei cittadini. Merito dei policy makers è la capacità di ottenere risultati senza ricorrere a innovazioni legislative, ma semplicemente attraverso un migliore coordinamento delle risorse disponibili. Cfr. M. Bucchi, Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 138.

(15)

8

mercato che, come tale, potrebbe comportare la fissazione di un prezzo di

mercato non concorrenziale e, dunque, non massimamente coerente con la tutela dell’efficienza statica. Ancora, un comportamento che incrementa il tasso

di innovazione e, quindi, l’efficienza dinamica può presupporre l’esistenza di

un certo potere di mercato in capo all’impresa innovatrice e, dunque, indurre il

policy maker a tollerare una forma di inefficienza statica di breve periodo

nell’attesa di un incremento dell’efficienza dinamica di lungo periodo. Va detto,

però, che da tempo le maggiori giurisdizioni antitrust risolvono il descritto

conflitto tra obiettivi riconoscendo come le menzionate forme di “lesione” dell’efficienza statica possano essere “tollerate” nel nome della protezione delle

efficienze dinamica e produttiva ossia, e rispettivamente, nel nome della cura per l’innovazione e delle economie di scala.

Guardando invece alle differenti forme di benessere che un policy maker può scegliere di tutelare, sul piano retorico vero è che mentre l’attenzione per il

benessere del consumatore si focalizza su un tema facilmente spendibile nell’arena politica, ossia sulla distribuzione del reddito tra consumatori e

imprenditori, la cura per il benessere totale (che poi coincide con la protezione dell’efficienza statica) si traduce in un ben più “arido” interesse (che non a caso

si dice “tecnico”) per la “sola” quantità offerta, nonché per il prezzo al quale la

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9

tutelare il benessere dei consumatori significa prestare attenzione a come la torta

viene divisa tra i diversi agenti che operano sul mercato, proteggere il benessere

totale significa avere a cuore la grandezza complessiva della torta.”3

Nondimeno, il valore di questa distinzione non può essere enfatizzato, poiché all’atto pratico la tutela di ciascuno di questi beni giuridici conduce ai

medesimi risultati, fatta eccezione per due specie di comportamenti: stiamo

parlando delle c.d. discriminazioni di prezzo del terzo tipo e delle operazioni

che, pur determinando un aumento del potere di mercato esercitabile dalle

imprese in esse coinvolte, generano significativi guadagni di efficienza in

termini di riduzione dei costi.

Più esattamente, nel caso della discriminazione di prezzo del terzo tipo,

qualora fosse perfetta, il benessere totale sarebbe massimo, perché la quantità

prodotta è pari alla quantità che si sarebbe ottenuta in concorrenza, ma il surplus

del consumatore sarebbe totalmente azzerato o, rectius, totalmente trasferito

alle imprese che, idealmente, sarebbero riuscite a estrarre da ogni consumatore

il suo prezzo di riserva (ossia il massimo prezzo che ogni consumatore è

disposto a pagare per il prodotto commercializzato su quel mercato). Di

conseguenza, scegliere se tutelare il benessere totale o il benessere del

3 Cfr. F. Ghezzi - M. Maggiolino, I presupposti economici della disciplina antitrust, in F. Ghezzi - G. Olivieri (a cura di), Diritto antitrust, Torino, Giappichelli, 2013, p. 51.

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10

consumatore induce a valutare, rispettivamente, lecita o illecita una medesima

pratica che si traduca in una discriminazione perfetta del terzo tipo.

Analogamente, nel caso delle operazioni che generano significativi

guadagni di efficienza, gli effetti negativi determinati dalla concentrazione del

potere di mercato (ossia, la perdita netta di ricchezza e la riduzione del benessere del consumatore) possono essere controbilanciati dall’aumento del benessere

delle imprese, dovuto non solo al trasferimento di reddito dai consumatori alle

imprese, ma anche ai profitti generati dalla riduzione dei costi dovuti alle efficienze. In questa situazione, dunque (ossia qualora l’aumento del benessere

delle imprese più che compensasse la perdita di benessere totale e dei

consumatori dovuta alla concentrazione di potere di mercato) l’adozione, quale

parametro di valutazione, della consumer welfare (tutela del benessere dei

consumatori) giustificherebbe il divieto dell’operazione; mentre, al contrario, l’adozione del parametro del total welfare (benessere totale) motiverebbe la sua

liceità.

Se allora alla luce di quanto appena detto, si volesse rappresentare la posizione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea con riferimento alla dicotomia

“total welfare” vs “consumer welfare”, si potrebbe avanzare l’idea che, dagli

anni settanta in poi, il vecchio continente si sia mostrato tendenzialmente più

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11

chiamato a valutare casi di intese e concentrazioni4. E ciò per una serie di

ragioni dai contorni non sempre troppo nitidi. Ad esempio, molti ritengono che il disinteresse statunitense per l’effetto distributivo sia dovuto alla particolare

struttura proprietaria delle imprese americane, i cui azionisti sono milioni di

piccoli risparmiatori che, rivestendo al contempo il ruolo di consumatori e imprenditori, si troverebbero comunque a guadagnare dall’aumento del

benessere totale5. Altri, invece, considerano che l’approccio statunitense non si

debba spiegare a partire da una generica sotto-valutazione degli effetti della

redistribuzione del reddito, ma dalla intenzione di delegare la gestione di questo

tema ad altre forme di esercizio dei pubblici poteri, come le politiche fiscali. D’altro canto, alcuni valutano che l’attenzione europea per il benessere dei

consumatori rappresenti una moneta con la quale le istituzioni cercano,

retoricamente, di ottenere consenso politico nella convinzione (invero, non così

scontata) che i consumatori di cui al modello di concorrenza perfetta

4 Al riguardo, basti pensare che il terzo paragrafo dell’art. 101 TFUE subordina espressamente la liceità di un’intesa non solo alla capacità della stessa di produrre efficienze, ma anche alla possibilità che queste efficienze vengano trasferite, almeno in parte, ai consumatori.

5 A ben vedere, questa rappresentazione è parziale, giacché non tiene conto di come alcune fasce di consumatori non siano comunque in grado di acquistare azioni o fondi di investimento in azioni delle imprese produttrici. Né tiene in considerazione i possibili effetti di re-distribuzione intergenerazionale della ricchezza, dovuti al fatto che solitamente sono i giovani ad avere la maggiore propensione a consumare (e così ad essere colpiti dalle condotte dei monopolisti), mentre sono le classi più anziane e i pensionati a possedere la ricchezza da investire nelle imprese (e così a guadagnare a motivo delle loro condotte).

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12

rappresentino non dei meri acquirenti di un prodotto, ma una ben precisa classe

sociale che, in quanto debole, meriterebbe una tutela specifica.

Del resto, a suggerire la contiguità, anche politica, tra il tema della difesa

del mercato e il tema della protezione dei contraenti più deboli – e di quelle

forme di pluralismo e di democrazia economica che, secondo alcuni, la loro

tutela garantirebbe – si può considerare, a titolo di esempio, la scelta del legislatore nazionale di attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del

mercato la competenza ad applicare non solo il diritto antitrust, ma anche le

norme in materia di pubblicità ingannevole e comparativa di abuso di

dipendenza economica e, più recentemente, in materia di tutela delle imprese agroalimentari nell’ambito delle controparti commerciali (ed in particolare delle

– supposte deboli – imprese produttrici nei confronti della grande distribuzione

organizzata6).

Adesso occorre esaminare il profilo della scelta tra la tutela delle

performance di mercato e la difesa di un particolare gruppo di soggetti

economici. I termini della questione possono essere così sintetizzati: soprattutto

quando ci si confronti con i comportamenti delle imprese in posizione

dominante compito dei policy makers è decidere se prestare attenzione ai soli

6 Cfr. art. 62 l. n. 27/2012, recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle

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13

risultati (apprezzabili in termini di prezzi e quantità di mercato, nonché di qualità, varietà e innovazione dell’offerta) che le condotte di tali imprese

possono produrre, ammettendo cioè che anche una condotta che penalizza i

concorrenti (attuali e/o potenziali) possa considerarsi pro-competitiva se

determina, ad esempio, una riduzione del prezzo di mercato o un aumento della

qualità dei prodotti, oppure soffermarsi sulla struttura del mercato, considerata

quale indice della concorrenzialità dello stesso, opzione che condurrebbe a

punire quei comportamenti che, al di là dei risultati che producono in rapporto

alle variabili menzionate, riducono il numero dei concorrenti o, ancora,

aumentano la concentrazione del potere di mercato in capo alle imprese già

dominanti.

La scelta tra i due profili non è affatto semplice. Storicamente, ad esempio,

la posizione europea è parsa più vicina alla tutela della struttura dei mercati e

quindi delle imprese più piccole, non solo per la già vista propensione a tutelare i c.d. “contraenti deboli” che giustifica pure il riguardo per il benessere dei

consumatori, ma anche perché il dominio di molte delle grandi imprese europee,

ex-monopolisti pubblici, è stato spesso percepito non come il risultato del loro

(21)

14

imprenditore7. Analoghe considerazioni potrebbero farsi con riferimento

all’introduzione delle norme antitrust negli Stati Uniti, viste anche come un

freno contro la potenza espansiva della grande impresa operante nell’industria pesante e dell’energia a tutela dei piccoli commercianti, degli allevatori e degli

agricoltori.

Peraltro, quantomeno a partire dagli ultimi decenni, le due giurisdizioni sembrano convergere progressivamente verso l’idea che a dover essere tutelate

siano le buone performance di mercato, anche nel caso in cui ad offrirle siano

le imprese in posizione dominante e anche nel caso in cui, offrendo queste

prestazioni, tali imprese vedano rafforzarsi il loro potere di mercato.

Inoltre, ma solo a livello europeo, tra le finalità della normativa antitrust

assume un rilievo critico anche l’obiettivo macro economico, nonché scopo

7 Da alcuni decenni, nei paesi cosiddetti capitalisti, lo Stato ha ormai abbandonato definitivamente la posizione di spettatore in economia, come vagheggiavano i liberisti, ma è intervenuto in vari modi sul piano economico per sostituirsi ai privati in alcuni settori e per disciplinarne l’attività. In Italia, nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale costituisce, per entità degli investimenti e diversificazione degli ambiti operativi, l’espressione più visibile dell’azione imprenditoriale di matrice statale. La presenza delle imprese del gruppo in settori strategici dell’economia nazionale assegna alla principale holding pubblica un ruolo cruciale nella definizione di modalità e limiti della modernizzazione del sistema produttivo italiano. La strategia di sviluppo di nuclei interni di competenze qualificate, scandita negli anni sessanta dall’istituzionalizzazione della funzione di ricerca e sviluppo nelle procedure di pianificazione aziendale e dall’intensificazione dell’impegno finanziario nelle attività di sperimentazione, rivela presto evidenti caratteri involutivi legati alla peculiare natura pubblica delle aziende del gruppo, che impone l’accoglimento di istanze politiche e sociali spesso estranee alle esigenze di razionalizzazione tecnologica delle unità produttive. Cfr. S. Pastorelli, Lo Stato imprenditore e la qualificazione

tecnologica dello sviluppo economico italiano: l’esperienza dell’IRI nei primi decenni del secondo dopoguerra, in Quaderni dell’Ufficio Ricerche Storiche della Banca d’Italia, n. 12, dicembre 2006,

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principe del Trattato di Roma, di facilitare l’integrazione economica degli Stati

membri. L’unione dei diversi mercati componenti la Comunità (oggi, Unione)

Europea è esplicitamente indicata dalle norme comunitarie e fermamente

perseguita dalla Commissione attraverso la rimozione di qualunque

impedimento al commercio tra gli Stati membri. Il rigore tradizionalmente

mostrato dalla Commissione e dalle corti europee nei confronti delle intese

verticali e delle clausole di esclusiva territoriale non sarebbe infatti giustificabile in un’ottica concorrenziale e di tutela del consumatore. Anzi, non

mancano studi che mostrano come l’assegnazione di territori in esclusiva, e la

conseguente possibilità di praticare prezzi diversi in ciascun territorio, senza il

timore di arbitraggi, sia atta a stimolare la concorrenza e garantire vantaggi ai consumatori più deboli. L’esclusiva territoriale può infatti consentire ad un

produttore di vendere un bene a 3 euro in Portogallo e a 10 euro in Germania,

tenendo conto della diversa disponibilità a spendere dei cittadini portoghesi e

tedeschi. In caso contrario, e quindi se il produttore fosse costretto a praticare

prezzi simili, il risultato sarebbe quello di avere un bene che costa 5 euro in tutta l’Europa, favorendo i consumatori più ricchi a danno di quelli con minor

reddito. L’atteggiamento di rigore a cui si faceva riferimento può dunque

comprendersi solo alla luce dell’obiettivo del mercato unico, posto che le

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16

nazionali che le autorità europee hanno eliminato attraverso i vari trattati che si

sono susseguiti nel corso del tempo.

Ciò detto, due osservazioni di carattere generale valgono a rendere più

gestibile la convivenza tra le molteplicità di obiettivi considerati. In primo

luogo, alla luce di una più chiara definizione di questi obiettivi e di come essi

non divergano sempre e di molto, ben si può affermare che il diritto antitrust deve salvaguardare il funzionamento dei mercati, posto che lo “stato di salute”

degli stessi può essere apprezzato guardando a variabili diverse. In secondo

luogo, va precisato che nel loro intervento nell’economia, le autorità antitrust si

affidano solo parzialmente ad un benchmark8, vale a dire seguono solo

parzialmente un modello prestabilito di intervento, preferendo modulare la

propria attività in rapporto allo specifico comportamento sottoposto al loro

giudizio e alle caratteristiche del caso concreto. Ecco che allora, fermi restando

gli orientamenti di massima qui descritti, occorre individuare con riferimento a

ogni singola condotta quali siano gli obiettivi che le autorità antitrust

effettivamente intendono perseguire.

8 In economia il benchmarking è una metodologia basata sul confronto sistematico che permette alle aziende che lo applicano di compararsi con le migliori e soprattutto di apprendere da queste per migliorare. In finanza invece è un parametro oggettivo di riferimento, costituito facendo riferimento ad indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo, come possono essere gli indici azionari.

(24)

17

2. Le teorie economiche della concorrenza

La concezione originaria di concorrenza – intesa come rivalità naturale fra

individui conseguente al riconoscimento della generale libertà di commercio,

propria degli economisti c.d. classici – è stata sostituita, con un processo avviato

a metà Ottocento e perfezionatosi nei primi decenni del Novecento, dall’elaborazione teorica del concetto di concorrenza “perfetta”, che è un

concetto formale, definito rigorosamente sulla base di requisiti convenzionali

(perfetta libertà di entrata e di uscita di chiunque dal mercato, perfetta

sostituibilità dei beni offerti, impossibilità degli attori economici di determinare

i prezzi di propria volontà, piena condivisione delle informazioni necessarie per

lo svolgimento degli scambi). Per gli economisti neoclassici tale concetto

costituiva un perfezionamento analitico di quello, approssimativo, usato dagli

economisti della generazione precedente (i c.d. classici)9. Oggi, prevale un’idea

diversa, cioè che la teoria della concorrenza perfetta abbia comportato, invece,

un vero e proprio mutamento di paradigma, spostando il concetto di concorrenza da un’idea di ordine spontaneo, ma dinamico, ad un’idea di

equilibrio statico10. Questo concetto neoclassico della concorrenza ha avuto

9 Cfr. G. J. Stigler, Perfect Competition, Historically Contemplated (1957), in Essay of Economic

History, Univ. Of Chicago Press, 1965.

10 V. F. M. Machovec, Perfect Competition and Transformation of Economics, London, Routledge, 1995.

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18

un’importanza centrale nel successivo sviluppo dell’analisi economica11, ma in

realtà non è stato mai effettivamente utilizzato come criterio guida per le

politiche antitrust, né in America né in Europa12.

Sul piano della storia delle idee, la successiva evoluzione è segnata, negli

anni trenta del XX secolo, dalla costruzione dei modelli di concorrenza “imperfetta” o “monopolistica” (Chamberlin, Robinson), caratterizzati da

offerte non perfettamente sostituibili e da meccanismi di competizione fondati

esclusivamente sul prezzo, e dalla teorizzazione della concorrenza “dinamica”,

11 Cfr. C. Bentivogli - S. Trento, Economia e politica della concorrenza. Antitrust e regolazione, Roma, Carocci, 1995, p. 45 (“il mercato di concorrenza perfetta costituisce la situazione di ottimo

paretiano – first best – non può costituire il modello di riferimento per l’intervento normativo antitrust per l’impossibilità tecnica o economica di eliminare tutte le imperfezioni”).

12 Per quanto riguarda la storia dell’istituto, è tuttavia frequente l’affermazione contraria. In termini generici v., per esempio, P. Salin, La concorrenza (1995), trad. It., Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2007, 9; S. Cazzaniga, L’antitrust come fenomeno di colonizzazione culturale, in L’Uomo

Libero (rivista telematica), 1 sett. 1995. Più meditata la tesi secondo cui la teoria della concorrenza

perfetta avrebbe ispirato la politica dell’antitrust americano nei periodi storici in cui essa ha maggiormente operato a tutela delle piccole imprese e ha osteggiato la concentrazione del mercato. V. in proposito A. Pera, Changing Views of Competition and EC Antitrust Law, Univ. Macerata, Dip. di studi economici, Working Papers n. 13, March 2008, 11. Ma in realtà quell’orientamento aveva radici ideologiche più antiche della formazione della teoria perfetta ed aveva in mente un mercato formato da “small dealers and worthy men”, che, in termini di teoria delle forme di mercato, si avvicina molto all’idea della concorrenza imperfetta (com’era quella della vecchia rete distributiva commerciale fatta di piccoli negozi). Il filone di pensiero che maggiormente si è avvicinato al concetto di concorrenza perfetta, nel disegnarne un concetto normativo, è stato invece proprio quello della scuola di Friburgo, che ha ispirato la disciplina antitrust europea. L’orientamento ordoliberale originario adottava, infatti, un concetto di concorrenza, piuttosto astratto, definito come “concorrenza piena” (vollstandiger Wettbewerb), caratterizzato dall’assenza di poteri di condizionamento di qualsiasi soggetto operante nel mercato, nei confronti degli altri soggetti. Tale concetto, peraltro, era pur sempre di tipo storico-tipologico, quindi diverso da quello formale-analitico di “concorrenza perfetta”. V. paragrafo 4 del presente capitolo.

(26)

19

vista cioè come processo innovativo permanente ed “aperto” e non come

condizione ottimale dei mercati (Schumpeter e la scuola Austriaca13).

13 La scuola Austriaca nega ogni possibilità di calcolare il benessere sociale e di suggerire al legislatore (o al giudice) come formulare e applicare le leggi per raggiungere l’efficienza. Gli effetti di un dato insieme di norme non sono prevedibili. Il diritto dell’economia deve limitarsi a dare delle regole di riferimento con le quali garantire che il processo economico si sviluppi liberamente secondo il suo ordine “naturale”. Si riprende, in tal modo, l’idea di un diritto naturale contrapposto al diritto positivo. L’economia di mercato e la concorrenza non sono rerum natura. La stessa scuola Austriaca ha della concorrenza una visione (dinamica) ben più complessa e ricca di quella della tradizione neoclassica. Secondo Shumpeter è del tutto naturale che l’imprenditore, il quale scopra e utilizzi nuovi metodi di produzione, goda di un sovra profitto, ancorché temporaneo e destinato a ridursi, fino a scomparire, con la diffusione di quelle innovazioni. Le norme giuridiche devono proteggere, da un lato, contro il dirigismo, e dall’altro contro i monopoli. Devono però essere norme generali, capaci di sciogliere gli attriti che talvolta impediscono il funzionamento del mercato. L’economia chiede al diritto di offrire il quadro di norme più adatto al raggiungimento di obiettivi di efficienza economica. I concetti di scarsità e scelta sono al cuore dell’economia Austriaca. L’uomo ha, costantemente, davanti a sé un’ampia gamma di scelte. Ogni azione implica dover rinunciare a scelte alternative o pagare dei costi. E ogni azione, per definizione, è finalizzata a migliorare la sorte dell’attore dal suo punto di vista. In più, ogni attore nell’economia ha un differente set di valori e preferenze, bisogni eterogenei e desideri e tempo diverso per gli scopi che intende raggiungere. I bisogni, i gusti, i desideri e i programmi di persone diverse non possono essere aggiunti o sottratti alle scelte altrui. Non è possibile comprimere i gusti e i programmi su una curva e chiamarla “preferenza del consumatore” anche perché i valori economici sono soggettivi. Analogamente, non è possibile comprimere la complessità del mercato in aggregati enormi. Non possiamo, ad esempio, dire che lo stock di capitale è un grande ammasso rappresentato dalla lettera K e metterlo in un’equazione, sperando di ricavarne informazioni utili. Lo stock di capitale è eterogeneo; una parte di esso è destinato a creare beni da vendere in un futuro prossimo e altri da vendere tra dieci anni. I programmi per l’impiego del capitale sono diversi così come diverso è lo stesso stock di capitale. La teoria Austriaca vede la concorrenza come un processo di scoperta di nuovi e migliori modalità di organizzazione delle risorse, processo pieno di errori ma costantemente migliorato. Questo modo di guardare al mercato è diverso da quello delle altre scuole economiche. Da Keynes in poi gli economisti hanno sviluppato l’abitudine di costruire universi paralleli che non hanno nulla a che fare con il mondo reale. In questi universi, il capitale è omogeneo e la concorrenza è uno stato finale immobile. Ci sono il giusto numero di venditori, i prezzi che riflettono i costi di produzione e non vi sono profitti in eccesso. Il benessere economico è determinato sommando tutte le utilità individuali. Lo scorrere del tempo è raramente preso in considerazione, eccetto che nel passaggio da una condizione statica a un’altra. Le diverse preferenze temporali dei produttori e dei consumatori, semplicemente, non esistono. Abbiamo invece aggregati che ci danno piccole e preziose informazioni su tutto. Un economista convenzionale sarebbe velocemente d’accordo nel considerare irrealistici questi modelli, essendo gli idealtipi utili solo come strumento di analisi. Ma ciò è falso, poiché questi stessi economisti usano questi modelli per fare raccomandazioni politiche. Gli economisti Austriaci sostengono che gli unici veri monopoli sono quelli creati dal governo. I mercati sono troppo competitivi perché permettano ai monopoli la stessa esistenza. Se il marchio di fabbrica degli economisti convenzionali è rappresentato dall’uso di modelli irrealistici, il segno distintivo dell’economia Austriaca è un profondo apprezzamento per il sistema dei prezzi. I prezzi forniscono agli attori economici informazioni critiche sulla scarsità relativa dei beni e dei servizi. Non è necessario per i consumatori conoscere, per esempio, che una malattia ha

(27)

20

A seguito di queste acquisizioni teoriche, dagli anni quaranta del secolo

scorso sono state elaborate in America teorie della concorrenza aventi una specifica valenza “normativa”, cioè destinate a fornire strumenti di analisi dei

mercati e di decisioni coerenti alle autorità preposte alla tutela della stessa. In

tale contesto, si colloca la teoria della workable competition, formulata da J. M.

Clark14 e, ancora più importante per l’influsso pratico che ha avuto in una certa

fase della storia dell’antitrust americano, l’orientamento strutturalista della c.d.

scuola di Harvard. Questa teoria si fonda sulla convinzione che i mercati

oligopolistici (id est caratterizzati, a seguito del processo di concentrazione

industriale, dalla presenza di pochi operatori capaci di controllarsi a vicenda

prevedendo le rispettive azioni) inclinano sempre verso la collusione. Obiettivo

della politica di tutela della concorrenza diviene allora quella di mantenere in

vita i mercati il più possibile pluralistici.

decimato il pollame per sapere che essi dovrebbero risparmiare sulle uova. Il sistema dei prezzi, rendendo le uova più costose, suggerisce al pubblico il comportamento adeguato. Il sistema dei prezzi dice ai produttori quando entrare e quando abbandonare i mercati, trasmettendo informazioni sulle preferenze dei consumatori; segnala i produttori più efficienti, cioè il modo più economico di utilizzare le risorse per creare beni. Al di fuori di questo sistema, non c’è modo di sapere queste cose. Ma i prezzi devono essere generati dal mercato. Non possono essere stabiliti nella maniera in cui l’Ufficio Stampa del Governo impone i prezzi per le sue pubblicazioni. Non possono essere basati sui costi di produzione alla maniera dell’Ufficio Postale. Queste pratiche creano distorsioni e inefficienze. Piuttosto, i prezzi devono essere il risultato di azioni individuali libere, in un contesto giuridico di rispetto della proprietà privata. Gli Austriaci fanno notare che è impossibile conoscere se il mercato stia fallendo senza un test indipendente, costituito, e non potrebbe essere altrimenti, dalle azioni degli individui. Il mercato stesso è il solo criterio disponibile per determinare come le risorse debbano essere usate. Non è economicamente corretto stendere una lista di lavori e istituzioni desiderabili messe in piedi indipendentemente dal mercato stesso.

(28)

21

Questa teoria ha costruito un modello standard di analisi dei mercati, atto a fungere da schema di riferimento per l’applicazione delle norme antitrust. Con

riferimento alle sue componenti essenziali, il metodo è solitamente definito con

l’acronimo SCP (Structure, Conduct, Performance)15. Alla base del modello sta

15 Il paradigma S-C-P (Struttura-Condotta-Performance) è un teorema economico che lega i risultati (performance) delle imprese al loro comportamento (condotta) e, indirettamente, alla struttura del settore industriale di appartenenza. In base a questo primo approccio le caratteristiche della struttura di un settore economico determinano in modo esogeno e univoco il comportamento delle imprese che vi fanno parte. Secondo la scuola di Harvard le imprese devono rispettare le regole del gioco scritte all'esterno di esse. L’impresa in grado di adattarsi prima e meglio (condotta) alle regole del gioco (struttura) si afferma e vince (performance). Secondo il paradigma S-C-P il comportamento delle imprese è determinato dalle caratteristiche della struttura (S) del settore industriale (dimensioni impianti, numero imprese, differenziazione di prodotto, barriere di ingresso, concentrazione, ecc.). La struttura industriale è determinata dalle condizioni di base del mercato. Le condizioni di base del settore industriale sono prevalentemente delle caratteristiche di lungo periodo e nel breve periodo sono considerate variabili esogene del modello economico, non modificabili né dalle imprese, né dai

policy maker. Le principali condizioni di base di un settore industriale sono le seguenti: la tecnologia,

che determina l'andamento del costo medio di produzione delle imprese e le economie di scala della produzione; l'elasticità della domanda di un bene, la quale è determinata dalla sostituibilità del bene economico con altri beni sostituti; il tasso di crescita della domanda, che, se in forte crescita, lascia ampio spazio alle imprese new comers, le quali possono attuare un piano di investimento per entrare nel mercato con maggiori possibilità di crescita rispetto a un mercato statico e maturo; infine la struttura industriale è influenzata anche da fattori storici e ambientali del sistema economico, quali ad esempio l'instabilità politica del Paese, il livello di corruzione, la sindacalizzazione del lavoro, ecc. Il comportamento o condotta (C) delle imprese indica l'insieme della politica e delle scelte aziendali relative al prezzo e alla produzione. Il comportamento (C) delle imprese determina, a sua volta, le

performance (P) delle stesse ossia i loro risultati economici (profitto, fatturato, potere di mercato,

efficienza, potere di mercato, benessere collettivo, ecc.). È opportuno distinguere due diversi obiettivi delle politiche industriali: il primo è la performance aziendale, che è il risultato economico della singola impresa (generalmente è misurato in termini di fatturato, di profitto, di vendite e di quota di mercato); il secondo è il surplus totale, identificabile col benessere collettivo (o benessere sociale) che tutti gli operatori economici (imprese, consumatori, lavoratori, Stato, ecc.) traggono dal settore industriale. Ad esempio, il grado di concentrazione dell'offerta è correlato direttamente al margine di profitto conseguibile dalle imprese. Nel monopolio l'offerta è concentrata in una sola impresa che ottiene un profitto elevato. Nell'oligopolio l'offerta è distribuita tra poche imprese e il profitto è positivo ma inferiore rispetto a quello di un'impresa monopolista. Nella concorrenza perfetta l'offerta è suddivisa tra una moltitudine di imprese e il profitto è tendenzialmente nullo. Il paradigma S-C-P analizza soltanto un aspetto della realtà. La struttura industriale influenza e determina il comportamento delle imprese ma è anche vero che alcune imprese leader, di grandi dimensioni e con un forte potere di mercato, possono essere in grado di modificare a proprio vantaggio sia le regole del gioco che le caratteristiche stesse del settore industriale in cui operano a scapito delle altre imprese industriali. In quest'ultimo caso la relazione tra settore e impresa cessa di essere univoca (paradigma S-C-P) per diventare biunivoca. Tale ipotesi è portata avanti dalla nuova economia industriale (NEI).

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22

l’idea secondo cui, nell’analizzare un qualunque mercato, si devono distinguere

quattro momenti: le condizioni di base, la struttura, i comportamenti (conduct)

e i risultati economici (performance). Si ritiene che una modifica in ciascuno di

questi momenti condizioni, positivamente o negativamente, i momenti

successivi.

Tale metodo, descrivendo un tipo ideale “aperto” (id est non definito in

maniera formale e rigorosa) di mercato ben funzionante, richiede, nel profilo

valutativo finale delle singole fattispecie, un giudizio di sintesi la cui

conclusione non può essere matematicamente o empiricamente verificata nel

momento stesso in cui la decisione viene assunta. Questo modo di procedere

non appare scandaloso al giurista, per il quale è anzi un limite inevitabile, nell’applicazione di molte norme (escluse solo quelle che privilegiano la

certezza applicativa assoluta rispetto alla funzionalità per il raggiungimento di

Secondo la nuova economia industriale sussiste una relazione biunivoca tra settore industriale e ogni impresa che vi appartiene. Il comportamento strategico di ogni singola impresa è, pertanto, in grado di modificare le regole del gioco del settore industriale per trarne vantaggio nella competizione. Come nel caso del paradigma S-C-P anche nel modello della nuova economia industriale le imprese sono soggette a rispettare le regole del gioco del settore industriale ma, ognuna di esse, può anche influenzarle e modificarle. Vince e si afferma (performance) l'impresa in grado di modificare (condotta) a proprio vantaggio le regole del gioco del settore industriale (struttura), mentre le altre sono costrette ad adattarsi, sono relegate ai margini oppure sono letteralmente espulse dalla competizione industriale. Ad esempio, l'impresa con performance (profitto) migliore può acquistare le altre imprese concorrenti modificando la struttura del settore industriale in cui opera. L'impresa con costi medi di produzione più bassi può decidere di adottare una politica dei prezzi aggressiva (condotta), riducendo il prezzo di vendita del bene, obbligando le imprese concorrenti meno efficienti a uscire dal mercato, modificando in tal modo il grado di concentrazione e la struttura del settore industriale in cui opera (struttura). Cfr., per la descrizione del paradigma, A. Del Monte, Manuale di

organizzazione e politica industriale, Torino, UTET, 1994, 6 ss. Per una descrizione in qualche punto

(30)

23

determinati risultati, come ad esempio le norme che fissano il raggiungimento

della maggiore età o la decorrenza dei termini perentori)16; così pure, per il

giurista, non può dirsi un vizio della teoria il fatto che la giustezza delle

soluzioni applicative sia valutabile solo, come avviene costantemente per tutte

le soluzioni giuridiche, attraverso meccanismi di persuasione collettiva.

Questa concezione non poteva essere, però, ben accetta dall’orientamento ortodosso della scienza economica contemporanea, fortemente legato all’ideale

della scientificità e verificabilità delle elaborazioni della dottrina economica e, conseguentemente, alla metodologia fondata sull’impiego di modelli

semplificati dalla realtà, suscettibili di elaborazione matematica.

Questa è stata una delle ragioni del successo (che ha avuto il suo apogeo,

grosso modo, dal 1970 al 2000) della scuola neoliberista di Chicago17, basata

16 Per la discussione metodologica più generale sui punti richiamati nel testo v. D. Leenen, Typus und

Rechtsfindung, Berlin, Duncker & Humblot, 1971; G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, Cedam,

1974; M. Libertini, Rassegna di dottrina italiana e straniera, in Riv. soc., 1971, 1019 ss. Il metodo tipologico, passato di moda dopo gli anni settanta, è ancora sporadicamente richiamato, in Italia, da parte di giuristi positivi, soprattutto in diritto del lavoro (v. L. Mengoni, Il contratto individuale di

lavoro, in Giornale dir. lav., 2000, 181 ss.), o nel diritto societario (v. F. Magliulo - F. Tassinari, Evoluzione storica e tipo normativo, in La riforma della società a responsabilità limitata, a cura di

C. Caccavalle e AA., Milano, IPSOA, 2004, 8 ss.).

17 La genesi della scuola di Chicago è ottimamente raccontata da uno dei suoi più illustri ed equilibrati esponenti, Richard Posner, The Chicago School of Antitrust, in University of Pennsylvania Law

Review, 925 (1979), n. 127. Sempre di R. A. Posner, v., sull’argomento, Antitrust Law, University of

Chicago Press, 1976 (2° ed. 2001). L’autore che più ha finito per simboleggiarla è R. Bork, The

Antitrust Paradox: A Policy at War with Itself, New York, Basic Books, 1978. Di grande rilievo il

contributo teorico di G. Stigler, The Organization of Industry, Chicago, University of Chicago Press, 1968, che ha ricondotto alla teoria dei prezzi comportamenti (come quelli collusivi) altrimenti spiegati dagli economisti industriali.

(31)

24

sui rilievi di un professore dell’Università di Chicago, Aaron Director18, che ha

soppiantato la scuola di Harvard negli orientamenti della dottrina antitrust

americana. La critica della Chicago School è stata forte e persuasiva nella sua

pars destruens, avendo individuato incertezze e ambiguità reali della politica

antitrust tradizionale. Più complesso è il giudizio che si può esprimere sulla pars

costruens della dottrina. Per questo filone di pensiero, infatti, unico scopo

ammissibile della disciplina antitrust è quello di realizzare l’efficienza

allocativa, cioè di far sì che le risorse economiche siano utilizzate in modo tale

18 Agli inizi degli anni cinquanta, un professore dell'Università di Chicago, Aaron Director, cominciava per parte sua a riflettere su singole questioni antitrust: i rilievi di Director erano già essi stessi fondati sui principi che la scuola di Chicago sarebbe venuta articolando più tardi. Si allude, in primo luogo, a quello secondo cui "restrittiva" in termini economici, è solo la pratica, concertata o unilaterale, che restringe, ad libitum di qualcuno, la produzione di un bene o di un servizio, con conseguente possibilità di incremento del prezzo e con l'unica alternativa, non di contare su nuovi, potenziali concorrenti, ma di doversi spostare su beni o servizi seconda scelta (ed è questo che attenta al "benessere del consumatore"); quello dell'imprenditore come massimizzato relazionale di profitto, che tiene quindi comportamenti da valutare esclusivamente in chiave economica al di fuori, quindi, di presunzioni di miopi finalità anticoncorrenziali; quello, riassuntivo delle conclusioni a cui porta la scuola, dell'efficienza come fine esclusivo dell'antitrust, dovendosi intendere come efficiente, e quindi coerente con il benessere del consumatore, qualunque condotta o situazione che trasferisca a beneficio di esso miglioramenti qualitativi della produzione o riduzione di costi, senza fornire a nessuno lo spazio per "restringere" il mercato nel senso indicato dal primo principio. Le implicazioni di questo nuovo impianto sul link interpretazione ormai consolidato di tante delle regole antitrust erano potenzialmente enormi. Le intese verticali divenivano quasi tutte spiegabili in chiave di efficienza, ivi comprese quelle considerate sempre illegali per sé (sino allo stesso divieto di sconti imposto dal produttore al dettagliante): per tutte era infatti sostenibile che servono a migliorare la qualità del servizio reso ai clienti dai venditori, a garantire gli investimenti necessari a tal fine, a prevenire le scorrerie dei Free Riders. Situazioni di mercato ritenute contrarie alla legge per l'elevato grado di concentrazione divenivano suscettibili di una valutazione opposta, tutte le volte che il mercato, avesse pure un solo operatore, risultasse comunque contestabile perché le presunte barriere non erano effettivamente tali. Solo le intese orizzontali mantenevano una sorta di presunzione di illegalità, essendo molto limitati presupposti per dimostrarne l'efficienza. Ma anche rispetto ad interventi antitrust nei loro confronti la scuola di Chicago avrebbe sempre manifestato un certo scetticismo, contando sul costo che l'osservanza dei cartelli impone sempre ai suoi membri, sulla tentazione perciò del free diving interno al cartello e quindi sul fatto che attendere che prima o poi i cartelli cadono da soli costa sempre meno di una lunga vertenza giudiziaria.

(32)

25

da ottenere il massimo di produzione di beni e servizi, rispetto ad una domanda che si suppone data. Questo assunto viene fondato sull’esigenza di formulare

criteri applicativi più certi e controllabili: per gli esponenti della scuola l’unico

dato misurabile è la c.d. “allocative efficiency” (efficienza allocativa). Il metodo

suggerito richiede che le ipotesi, formulate attraverso l’elaborazione di

appropriati modelli, siano, appena possibile, sottoposte a verifica empirica. Da

questa impostazione consegue che, in linea di principio, quando una

determinata scelta imprenditoriale porta a incrementare l’offerta complessiva a

disposizione dei consumatori, essa è da valutare positivamente, dovendosi considerare che l’offerta tenderà automaticamente a saldarsi con l’articolazione

della domanda, che è frutto di una somma di scelte individuali non controllabili dall’alto. Le risorse produttive saranno così allocate nel modo più efficiente:

l’efficienza allocativa, nella teoria economica neoclassica che queste posizioni

richiamano idealmente, coincide allora con il benessere collettivo (o, per meglio

dire, ne è l’unica definizione misurabile, e quindi razionalmente controllabile,

che possa darsi).

Gli esiti applicativi delle teorie di Chicago (che hanno largamente

influenzato la Corte Suprema americana) conducono ad una forte limitazione

della portata dei divieti antitrust e ad una sostanziale presunzione di efficienza

(33)

26

una presunzione di inefficienza degli interventi delle pubbliche autorità). In altri

termini, questa impostazione porta ad affermare che, nel dubbio, i

comportamenti delle imprese si devono presumere efficienti e non debbono

essere bloccati o modificati da interventi delle autorità antitrust. In ragione di

ciò, lo scopo delle norme antitrust dovrebbe essere esclusivamente quello di tutelare la “economic efficiency”. Lo Stato dovrebbe così intervenire il meno

possibile a tutela della concorrenza sul mercato, in quanto il mercato stesso si

presume dotato di agenti auto-correttivi.

Il successo della Chicago School, sostenuto nel’ultimo scorcio del XX secolo dalla generale affermazione dell’ideologia neoliberista, non è stato però

mai generale. Ciò vale per gli Stati Uniti, ove una minoranza “tradizionalista”

ha rifiutato di accettare la revisione in senso restrittivo dell’antitrust19; ma è

ancor più vero per l’Europa, ove le posizioni chicagoan, per quanto ben

conosciute e divulgate da molti studiosi, non sono riuscite a conquistare la

maggioranza dei consensi, e le autorità, in primo luogo quelle europee, hanno

continuato ad applicare, con normali evoluzioni ma senza rotture, i criteri

impostati negli anni sessanta. In generale può dirsi che, in Europa e in Italia ha

19 V. per esempio, E. M. Fox - L. A. Sullivan, Retrospective and Prospective: Where Are We Coming

From? Where Are We Going?, in Revitalizing Antitrust in Its Second Century (H. First, E. M. Fox,

R. Pitofsky, eds.), New York, Quorum Books, 1991, 2 ss. (preconizzando gli sviluppi dell’orientamento “post Chicago”: v. supra nt. 72); W. Adams - J. W. Bork, Antitrust and

Enforceability: An Empirical Prospective, ivi, 152 ss. (riaffermando decisamente l’idea per cui

(34)

27

prevalso in questa materia (così come forse in tutto il dibattito sulla crisi dello

Stato sociale) un atteggiamento prudente, proprio di chi non vuole azzerare tutte

le conquiste empiriche raggiunte20.

Le critiche alla scuola di Chicago si sono mosse sia sul piano sociopolitico

(ove coincidono con le critiche più generali contro il neoliberismo e la sua, vera

o pretesa, indifferenza per i problemi di giustizia distributiva)21, sia soprattutto

sul piano metodologico. In particolare, si è diffusa la convinzione che il

concreto funzionamento dei mercati non possa essere correttamente analizzato con modelli semplificati, lontani dalla realtà, come quelli dell’analisi

20 In tal senso era stato buon profeta B. Hawk, La révolution antitrust américaine: une lecon pour la

Communauté économique européenne?, in Rev. Trim Dr. Eur., 1989, 5 ss., auspicando però che

l’esperienza europea di politica della concorrenza sapesse trarre qualche giusta lezione dalle tesi della scuola di Chicago. Anche per questo aspetto può oggi dirsi che l’auspicio si è realizzato.

21 Una delle principali critiche di principio riguarda l'operatore economico: egli è un massimizzatore del proprio profitto ed è giusto perciò spiegarne i comportamenti in primo luogo in questa chiave. Ma non si può trasformare questa corretta scelta di metodo in una presunzione assoluta, giacché più volte anche l'operatore economico è mosso da ragioni extra-economiche (il potere, la rivalità, il prestigio suo e della sua famiglia) e può non badare ai costi pur di sbarazzarsi di un concorrente o di allargare la sua impresa. Inoltre: è vero che il consumatore di un prodotto o di un servizio sarà probabilmente contento di poterlo comprare a un miglior prezzo e a migliore qualità anche da un'impresa che ha eliminato dei concorrenti per raggiungere la dimensione necessaria per farlo. Ma si può far coincidere con tale ristretta nozione il benessere del consumatore, ignorando che questi potrebbe preferire una più ampia possibilità di scelta tra i suoi fornitori e ignorando che soprattutto nel campi più innovativi, l'innovazione, e quindi la qualità, possono essere il frutto più di un'ampia concorrenza che delle economie di scala di pochi già affermati produttori? Anche sulle soluzioni applicative sono state avanzate domande, che non sempre avuto risposta. Ad esempio: è vero che il costo della pubblicità può essere eguale tanto per l'impresa già insediata quanto per il nuovo entrante, ma altro è finanziarla con il cash flow di un'attività in corso, altro è farlo ricorrendo al mercato finanziario (benché Chicago abbia giustamente risposto che, se barriera c'è, questa si riduce all'accesso a tale mercato e al costo del danaro). O ancora: è vero che chi pratica prezzi predatori sarà poi costretto a rialzarli e siccome l'antitrust protegge non i concorrenti esistenti, ma la concorrenza, si può lasciare tranquillamente nuovi entranti futuri di profittare domani di quell'inevitabile rialzo. Ma siamo sicuri che dopo una, due, tre espulsioni di concorrenti esistenti attraverso ripetuti "raid" con prezzi predatori, qualcuno oserà farsi avanti? Restano dubbi.

(35)

28

economica tradizionale, che suppongono come unico movente dell’azione

umana il vantaggio economico diretto; ma debbano giovarsi di più sofisticati

modelli, basati sulla teoria dei giochi22. Questo affinamento dei criteri di analisi

porta con sé anche la possibilità di superare il limite costituito dalla staticità del modello di equilibrio di mercato, utilizzato nell’analisi tradizionale, e di

sostituirlo con modelli che tengano conto anche del processo dinamico dei

mercati23.

Questo riconoscimento è stato idoneo a far respingere la pretesa che le

conclusioni normative liberistiche, che la scuola di Chicago ha dedotto dai

22 La teoria dei giochi è quella parte della matematica dedicata allo studio e all’analisi delle decisioni che ogni soggetto fa quando interagisce con altri per ottenere il massimo guadagno possibile, adottando diversi tipi di strategie e soluzioni, e non necessariamente per vincere. È pertanto una teoria matematica che serve per descrivere le scelte razionali che i giocatori fanno quando si trovano in una situazione in cui devono interagire strategicamente, e cioè quando un giocatore può influenzare il comportamento/risultato dell’altro giocatore. Può essere applicata a un sacco di ambiti, da quelli per analizzare il comportamento di soggetti in concorrenza sul mercato ai candidati che competono in una elezione. La teoria dei giochi è basata su modelli matematici, una rappresentazione semplificata della realtà per capire come si comportano i soggetti interessati sulla base delle informazioni di cui dispongono per elaborare una strategia. Queste analisi permettono di capire, e in certa misura prevedere e condizionare, l’evoluzione di un processo come una banale partita a scacchi o il funzionamento complesso del mercato azionario. Cfr. J. F. Nash Jr., Equilibrium Points in n-Person

Games, Proc. Nat. Acad. Sci. U. S. A., 1950, 36 48-49; sempre relativamente all’equilibrio di Nash,

cfr. J. F. Nash Jr., Non-Cooperative Games, Ann. Of Math., 1951, 54 286-295; sul punto e le critiche alla teoria di Chicago spostando l’attenzione su modelli diversi come la teoria dei giochi, cfr. M. S. Jacobs, An Essay on the Normative Foundations of Antitrust Economics, in 74 North Carolina L. J., 1995, 219 ss.; v. anche i saggi citt. alla nota seguente.

23 V., in particolare, L. Makovski - J. M. Ostroy, Perfect Competition and the Creativity of the Market, in Journal of Economics Literature, 2001, 479 ss.; nonché i saggi raccolti in J. Ellig (ed.), Dynamic

Competition and Public Policy, Cambridge University Press, 2001; v. anche G. Martini, Politica antitrust e informazione asimmetrica: un equilibrio sequenziale, in Econ. Pol., 1995, 423 ss., e J.

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- :l (A.T.R.) Alluvioni sciolte di rocce palcozoichc delle sponde occidcutu li della rossa tcuonica, sopra banchi sino a 40150 metri di spessore di argille plastiche bianche o grigie

T1b Tumor incidental histologic finding in more than 5% of tissue resected (Figure 34.3).. T1c Tumor identified by needle biopsy (e.g., because of elevated PSA) T2 Tumor confined

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