4. L’evoluzione storica in Europa
4.2. I motivi di un ritardo nella creazione di una disciplina antitrust in Italia
Sul finire degli anni ottanta del secolo scorso, i (pochi) fautori dell’introduzione anche in Italia di una disciplina di tutela della concorrenza
non mancavano di stigmatizzare la circostanza che, nell’ambito delle nazioni
aderenti all’OCSE, l’Italia era l’unico membro, insieme alla Turchia, che non
disponesse di alcuna normativa nazionale antitrust. Per pochi anni quindi, l’Italia è riuscita ad evitare di trovarsi da sola in questa ben poco “prestigiosa”
classifica64.
64 La legge turca a tutela della concorrenza è stata emanata nel dicembre 1994. Ad onor del vero, tuttavia, sin dal 1970, l’art. 167 della Carta Costituzionale turca prevedeva, tra l’altro, di affidare al
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Questo ritardo non è certo casuale. Negli anni settanta, mentre la maggior
parte dei Paesi europei emanava o riformava le norme antitrust nazionali, una commissione d’indagine del nostro Parlamento giungeva alla (particolare)
conclusione che l’Italia non abbisognasse di legislazioni antitrust, poiché non
aveva problemi di concorrenza. Invece, come da più parti sottolineato, era vero esattamente il contrario: l’Italia ne aveva bisogno come e più degli altri, ma non
credeva alla concorrenza quale meccanismo di disciplina dei mercati e di
stimolo al benessere economico e al progresso tecnologico.
Il perché di questa singolare scelta non è di facile spiegazione. Certamente,
molteplici erano gli interessi e le ideologie contrarie ad introdurre una legislazione antitrust nell’ambito di un ordinamento economico fondato sui
principi della libertà di mercato. Per ragioni diverse, le due principali forze
politiche del Paese non vedevano con favore l’introduzione di una normativa a tutela della concorrenza poiché un’eccessiva dose di mercato era per un verso
ritenuta in contrasto con la tradizione e la cultura fondata sulla cooperazione e sulla mediazione degli interessi, dall’altro verso, veniva reputata come una
“minaccia” nei confronti delle classi lavoratrici e della loro tutela.
Governo la competenza e il dovere di emanare le misure necessarie a prevenire “la monopolizzazione
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Accanto a tali avversioni ideologiche vi furono quelle dettate dagli interessi dell’impresa, privata e pubblica. L’impresa privata medio-grande
sosteneva l’inutilità di una normativa nazionale a tutela della concorrenza,
poiché alle imprese italiane operanti su scala internazionale era già applicabile
la normativa comunitaria (in quanto le loro condotte e i loro atti erano reputati tali da integrare il requisito della “influenza al commercio comunitario” stabilito
dagli artt. 101 e 102 del Trattato). Prevedere altresì una normativa antitrust
nazionale significava allora la volontà di porre ulteriori lacci e manette alle
imprese private italiane, che già dovevano scontrarsi con la sleale concorrenza
posta in essere dalle imprese pubbliche.
Questa posizione, formalmente non del tutto scorretta, non teneva tuttavia conto però, che, per definizione, l’ambito d’applicazione di una normativa
nazionale è diverso da quello di una normativa sopranazionale, e, soprattutto,
che un conto è dire che le imprese italiane erano già sottoposte ad una normativa
antitrust europea, un altro è affermare che tale normativa fosse effettivamente
in grado di influenzare e governare le condotte e i comportamenti sul mercato,
posto che il grado di effettiva applicazione della legge europea a tutela della
concorrenza non poteva certo dirsi, almeno fino a pochi anni fa, soddisfacente.
A ciò si aggiungeva la constatazione della debolezza economica del nostro
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imprese e alla loro possibilità di crescita, al fine di meglio affrontare la
concorrenza internazionale65. L’impresa pubblica, dal canto suo, si faceva
portavoce di una linea di pensiero secondo la quale nel nostro Paese la
prospettiva antitrust doveva considerarsi sostanzialmente inutile e superata. Il
motore del progresso economico non era la mano invisibile del mercato, ma la ben più visibile mano dell’intervento pubblico nell’economia, volto a regolare
e stimolare l’iniziativa privata e ad intervenire direttamente laddove si fossero
manifestati fallimenti o distorsioni del mercato. Se è vero che la concorrenza è
uno strumento per raggiungere il massimo benessere generale, nel caso dell’impresa pubblica non vi era bisogno di una normativa a tutela della
concorrenza, anche perché in presenza di monopoli pubblici l’efficienza e l’innovazione sarebbero state stimolate attraverso gli investimenti di Stato,
mentre il benessere del consumatore sarebbe stato garantito attraverso la
fissazione di prezzi tali da coprire esclusivamente i costi (e spesso nemmeno
questi).
Questa tesi, nel corso degli anni settanta fino ai primi anni del decennio
successivi, era predominante; fu poi scalfita, se non affossata, dalla crisi della
65 È peraltro quantomeno lecito chiedersi, a posteriori, se le strategie di crescita fortemente auspicate ed in parte perseguite negli anni ottanta da alcune delle nostre grandi imprese, abbiano rafforzato o meno la loro competitività sul piano internazionale, così come se l’effettiva forza della nostra economia non si debba piuttosto attribuire alle forme di (talvolta) acerrima concorrenza che caratterizzano i distretti di piccola e medie imprese. Cfr. F. Ghezzi - G. Olivieri, Diritto antitrust, Torino, Giappichelli, 2013, p. 22, cit.
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finanza pubblica e dal tracollo del sistema dell’intervento pubblico
nell’economia, con l’irreversibile decadenza e poi privatizzazione (o
liquidazione) di molte tra le principali imprese statali. Ma questa crisi, unita all’opera di alcuni “eretici” che propugnavano sulle riviste giuridiche (e in
alcuni casi in Parlamento) l’introduzione, anche in Italia, di una normativa a
tutela della concorrenza, non bastano a spiegare il repentino cambiamento che
portò, sul finire degli anni ottanta, ad una (inconsueta) rapida approvazione dei
progetti di legge di tutela della concorrenza e del mercato.
La l. n. 287/1990 nasce quindi perché il processo di liberalizzazione
promosso dagli organi europei e la progressiva e globale apertura delle frontiere
rafforzò la competizione e pose in concorrenza gli stessi sistemi nazionali nella
loro globalità, costringendo gli Stati e le relative imprese ad organizzarsi di
conseguenza. In altri termini, si può affermare che la competizione tra sistemi
ha prodotto processi di liberalizzazione e viceversa. Di conseguenza, per restare all’interno del processo l’Italia doveva necessariamente dotarsi degli strumenti
indispensabili per affrontare la competizione e rispettare, al pari degli altri
partner, le regole del gioco.
Inoltre è innegabile come fortissime furono pure le pressioni degli organi
comunitari a dotarsi di un corpo di normative di regolazione dell’economia
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membri (la mancanza di normative di regolazione e disciplina dei mercati era
ormai divenuta incompatibile con la nostra appartenenza alla Comunità
europea). Occorreva pertanto un adeguamento generale, adeguamento che avvenne con l’emanazione di un pacchetto di provvedimenti di regolazione e
apertura dei mercati, di privatizzazione e di liberalizzazione, che coinvolsero tra l’altro le banche, le assicurazioni, le imprese finanziarie, nonché gli enti
radiotelevisivi, e condusse soprattutto all’approvazione della legge del 10
ottobre 1990, n. 287, recante “ norme per la tutela della concorrenza e del
mercato”, proprio in prossimità e in funzione del completamento del mercato
unico europeo, allora previsto per il 199266.