4. L’evoluzione storica in Europa
4.1. Le norme antitrust nella Comunità Europea: dai trattati istitutivi alla successiva
Una particolare importanza, nella storia dell’idea comunitaria europea,
assume il periodo di tempo decorso dalla fine della Prima Guerra Mondiale all’entrata in vigore del Trattato CEE, nel gennaio 1957. In tale periodo, infatti,
il concetto dell’idea unitaria europea, da patrimonio quasi esclusivamente
culturale, diventa l’obiettivo degli uomini di Stato. Tale sentimento
europeistico, e la conseguente coscienza della necessità di un’Europa unita, si
fanno sentire in rapporto a presupposti di utilità politica ed economica. Ciò
perché gli Stati europei, che nel periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale
godevano di una posizione di preminenza nel mondo, vedono indebolito il proprio rango nel gioco degli interessi politici ed economici, dall’intervento
degli Stati Uniti d’America, che hanno ormai abbandonato la classica posizione
di isolazionismo che li aveva caratterizzati fino a quel momento.
Pertanto, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quella tendenza
genericamente definita europeista, prende maggior forza e sostanza, sia per l’allontanarsi dello spettro di una nuova conflagrazione, sia per l’adozione di
principi intesi alla promozione di un maggior progresso socio-economico. Gli uomini di Stato europei hanno ormai compreso che l’Europa non poteva essere
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delimitata in senso unicamente geografico, ma anche in senso politico, e che
essa sarebbe stata tanto meno estesa quanto più integrata, e viceversa.
Il 18 aprile 1951, fu quindi stipulato a Parigi il Trattato CECA (Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio), con l’adesione “dei sei Stati europei”57:
Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Italia, Germania Occidentale e Francia. In tal modo, nasceva l’Europa “sovranazionale”, termine che indica la novità
strutturale che caratterizza le Comunità Economiche Europee rispetto alle
precedenti unioni internazionali. Il Trattato CECA prevedeva la creazione di un’area di libera circolazione all’interno della quale dovevano ritenersi vietate
le pratiche restrittive e discriminatorie che potessero influenzare le concorrenza
comunitaria nei settori del carbone e dell’acciaio, settori portanti dell’economia
tedesca durante il nazismo. Il tentativo era quello di raggiungere il duplice
obiettivo di evitare una eccessiva concentrazione delle risorse in un unico Paese
(peraltro in un Paese che, anche grazie alla disponibilità di tali risorse, veniva
accusato di avere scatenato le due guerre mondiali del secolo scorso) e, al
contempo, di favorire un accesso equo e non discriminatorio a tali risorse in tutti
57 “L’Europa dei sei” deve la sua costituzione all’influenza del progetto avanzato il 9 maggio 1950, da Robert Schuman, ministro degli affari esteri francesi. Il progetto consisteva nel prevedere la realizzazione di un’interdipendenza di interessi tra Stati membri, tali da rendere l’unificazione irreversibile e le dissociazioni praticamente impossibili. Sulla base di questi presupposti, gli Stati, sottoscrivendo i relativi impegni, consentono ad una rinuncia parziale della loro sovranità e, per altro verso, riconoscono un ordinamento giuridico ad essi sovraordinato. Cfr. G. Bernini, Un secolo di
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i paesi firmatari al fine di stimolarne le economie, depresse dopo lunghi anni di
guerra. In questo contesto dovevano inquadrarsi gli artt. 65 e 66 del Trattato
CECA, che vietano le intese che eliminano, restringono o falsano la concorrenza
nel mercato comune, gli abusi di posizione dominante, nonché le concentrazioni
tali da creare una posizione di privilegio nel mercato comune o da falsare la
concorrenza tra gli Stati membri.
Lo stesso nucleo di paesi raggiunse, pochi anni più tardi, un accordo di più
ampio respiro che diede avvio al processo di integrazione europea: il Trattato
CEE (Comunità Economica Europea), firmato a Roma nel 1957, avente per
scopo l'integrazione tramite gli scambi in vista dell'espansione economica. Al riguardo, l’art. 2 del Trattato istitutivo della Comunità Europea prevedeva, in
particolare, che: “la Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della
Comunità, mediante l’introduzione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni
comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, (...) un alto grado di competitività e convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione ambientale (...) e la solidarietà tra stati membri (...)”. In questo quadro, l’obiettivo di tutela della
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“ai fini enunciati dall’articolo 2, l’azione della Comunità comporta, alle
condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato (...) un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno”.
Il Trattato CEE conteneva in particolare due disposizioni a tutela della concorrenza: l’art. 85 (poi rinumerato in 81 e oggi in 101 TFUE), che vietava
gli accordi, le decisioni di associazioni e le pratiche concertate aventi quale
oggetto o effetto una restrizione della concorrenza, salva la possibilità di
esenzione dal divieto in presenza di alcune condizioni, e l’art. 86 (poi
rinumerato in 82 e oggi in 102 TFUE), che disponeva il divieto di abuso di
posizione dominante da parte di una o più imprese. Il Trattato non conteneva
invece alcuna norma sulle concentrazioni, per una serie di conflitti e profonde
divergenze tra gli Stati membri circa l’ambito di applicazione, gli obiettivi e le modalità di valutazione delle fattispecie. All’introduzione di un corpo di
disposizioni di controllo delle operazioni di concentrazioni tra imprese si giunse
infatti solo nel 1989, con l’emanazione del Regolamento n. 4064/89 che
disciplinava appunto la materia.
Il quadro appena descritto, è mutato il 1° dicembre 2009 con l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona. Su iniziativa soprattutto della Francia il “fine”
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l’Europa deve perseguire. In particolare, l’art. 3 TUE58 (nella formulazione post
Lisbona) stabilisce ora che l’Unione “instaura un mercato interno. Si adopera
per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.
Peraltro il Protocollo n. 27 allegato al TUE e al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che, ai sensi dell’art. 51 TUE deve considerarsi
parte integrante dei trattati stessi, puntualizza che il mercato interno “comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”.
Nessuna modifica – se non la rinumerazione in articoli 101 e 102 TFUE – hanno
inoltre subito le norme contenenti i divieti di intesa e abuso di posizione
dominante.
Per alcuni il cambiamento appena illustrato è del tutto irrilevante; altri
invece lo considerano il portato di quel filone di pensiero che enfatizza la
dimensione meramente funzionale della concorrenza, solamente se ed in quanto
58 Il Trattato dell’Unione Europea (o Trattato di Maastricht) è un trattato che è stato firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai dodici Paesi membri dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea, che fissa le regole politiche e i parametri economici necessari per l'ingresso dei vari Stati aderenti nella suddetta Unione. È entrato in vigore il 1º novembre 1993.
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idonea a consentire il raggiungimento di una serie di obiettivi “superiori” (quali
ad esempio la crescita economica, la coesione sociale e territoriale, l’ambiente,
il progresso sociale).
È innegabile comunque che l’applicazione della disciplina antitrust deve
tenere conto in qualche misura di tali obiettivi finali, e quindi gerarchicamente
sovraordinati, enunciati nel trattato. Le politiche di concorrenza comunitarie
sono state (e sono ancor oggi, pur se in misura ridotta) influenzate soprattutto dall’obiettivo dell’integrazione delle varie realtà nazionali in un unico mercato
“comune” (oggi, mercato interno 59 ). Le autorità sono di conseguenza
intervenute con particolare vigore nei confronti delle intese e degli accordi volti
ad erigere barriere, o, comunque, ad ostacolare le transazioni commerciali tra
gli Stati membri. A tal proposito è illuminante una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di intese, dove si legge che “un
accordo tra produttore e distributore allo scopo di ristabilire le barriere nazionali nel commercio tra gli Stati membri può essere tale da impedire il perseguimento dell’obiettivo del Trattato diretto a realizzare l’integrazione dei
mercati nazionali tramite la creazione di un mercato unico. In tal senso, la
59 Il mercato interno dell’Unione europea è un mercato unico nel quale le merci, i servizi, i capitali e le persone circolano liberamente, e all’interno del quale i cittadini europei possono liberamente vivere, lavorare, studiare o fare affari. Dalla sua istituzione nel 1993, il mercato unico si è aperto sempre più alla concorrenza, ha creato nuovi posti di lavoro, ha reso i prezzi più accessibili per i consumatori e ha consentito alle imprese e ai cittadini di beneficiare di un’ampia scelta di prodotti e servizi.
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Corte ha ripetutamente qualificato accordi diretti a compartimentare i mercati secondo le frontiere nazionali (...), segnatamente quelli diretti a vietare o limitare le esportazioni parallele, come accordi aventi ad oggetto la limitazione della concorrenza ai sensi del detto articolo del Trattato”60.
Né mancano decisioni e sentenze che hanno tenuto conto, o che sono state
condizionate, anche degli altri obiettivi menzionati dai trattati europei.
Emblematica, in proposito, è la decisione Ford/Wolkswagen, con la quale la Commissione esentò dal divieto un’intesa che l’autorità antitrust tedesca
intendeva, al contrario, vietare. Si trattava di una joint venture61 creata in vista
della produzione di monovolume di nuova generazione. L’autorità tedesca
considerava l’accordo del tutto negativamente sotto il profilo concorrenziale,
poiché avrebbe eliminato la concorrenza nella produzione di monovolume tra
due delle principali imprese sul mercato europeo. La Commissione decise
tuttavia di autorizzare in via eccezionale l’accordo, per un insieme di ragioni concorrenziali (più o meno condivisibili), ma anche, e soprattutto, poiché: “il
60 V. CG, C-501/06, 513/06, 515/06 P, GlaxoSmithkline, in Racc., 2009, I-9291, par. 61
61 La joint venture (o società mista) è un accordo di collaborazione tra due o più imprese, la quale unione definisce un nuovo soggetto giuridicamente indipendente dalle imprese che lo costituiscono. Le imprese che decidono di collaborare si pongono come obiettivo la realizzazione di un progetto comune di natura industriale o commerciale e che vede l'utilizzo sinergico di risorse apportate da ciascuna singola impresa partecipante, ma anche un'equa suddivisione dei rischi legati all'investimento stesso ovvero un'equa ripartizione delle possibili perdite o utili. Il ricorso a tale forma di accordo è dettato dunque dalla necessità di mettere insieme diversi know how e capitali per la realizzazione del progetto comune di investimento, facilitandone così la messa in opera.
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progetto costituisce il maggiore investimento singolo estero mai effettuato in Portogallo. Si ritiene che esso porti, fra l’altro, alla creazione di circa 5.000
posti di lavoro e crei indirettamente 10.000 posti di lavoro, mediante altri investimenti nell’industria delle forniture. Il progetto contribuisce quindi alla
promozione di uno sviluppo armonioso della Comunità e alla riduzione delle disparità regionali, il che costituisce una delle finalità fondamentali del trattato. Esso promuove inoltre l’integrazione europea di mercato poiché
vincola più strettamente il Portogallo alla Comunità attraverso una delle sue principali industrie”62.
Gli esempi citati indicano insomma che la politica di concorrenza europea,
pur essendo in linea di principio posta a salvaguardia del benessere economico
generale, non ha mancato di perseguire anche ulteriori obiettivi o, comunque,
con essi si è dovuta confrontare, amalgamare e armonizzare.
È anche vero, inoltre, che nel corso del tempo è stato codificato il modo in
cui tenere conto di detti ulteriori obiettivi. Negli orientamenti più recenti, infatti,
gli obiettivi perseguiti da altre disposizioni del Trattato possono essere presi in considerazione esclusivamente “nella misura in cui possano essere fatti
rientrare nelle quattro condizioni di cui all’art. (101) par. 3”63 e dunque solo
62 V. Comm. 23/12/1992, Ford/Wolskswagen, in GUCE L20/1993.
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se siano tali da apportare miglioramenti per l’offerta e un beneficio per i
consumatori.
Indipendentemente dal complesso di obiettivi perseguiti, va detto che la
politica europea di concorrenza non aveva certamente avuto, sino a pochi anni or sono, la considerazione e l’impatto di quella statunitense. Infatti la politica
delle autorità antitrust comunitarie era particolarmente rigida, poco attenta all’analisi economica, ed eccessivamente subordinata agli obiettivi
integrazionalistici. Di fatto, le poche decisioni assunte tendevano soprattutto a
condannare le intese volte a ricreare quelle barriere al commercio che le
politiche di integrazione e di liberalizzazione promosse dalle autorità europee
erano riuscite ad abbattere. Ancor meno numerose erano le decisioni tese a
sanzionare in modo deciso ed efficace cartelli ed altre pratiche gravemente
lesive della concorrenza.
Nel corso del tempo però, obiettivi, priorità, metodi valutativi e grado di
efficacia della politica europea di concorrenza sono mutati profondamente. In particolare, con la c.d. modernizzazione” delle regole di concorrenza europee,
sfociata con l’emanazione del Regolamento CE n. 1/2003, che disciplina le
procedure di applicazione relative ai divieti di intesa e abuso di posizione
dominante, si è assistito ad una rivoluzione copernicana del diritto europeo della
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formale in favore di uno sostanziale economico (“more economic approach”);
nell’ambito delle intese, invece, si è passati da un sistema di controllo ex ante,
sostanzialmente incentrato sulla Commissione Europea, ad uno ex post, in cui
le autorità e i giudici intervengono se e solo se vi sia il sospetto che la
concorrenza sia stata ristretta; abbiamo poi assistito ad una rifocalizzazione
sulla lotta alle condotte restrittive più dannose (abusi di posizione dominante,
cartelli, ecc.); infine, nel complesso, vi è stata una maggiore efficacia dell’applicazione della normativa europea, attraverso un coinvolgimento a
pieno titolo di giudici e autorità nazionali nell’applicazione delle disposizioni
in materia di intese e abusi stabilite dal Trattato.
Ricapitolando, ad oggi, le norme antitrust europee con contenuto sostanziale sono previste nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
(TFUE), che agli articoli 101 e 102 vieta rispettivamente le intese che
restringono la concorrenza e gli abusi di posizione dominante e nel
Regolamento CE n. 139/2004 (che ha sostituito il sopracitato Regolamento CEE
4064/89), per il controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese. Si
tratta, pertanto, di un corpus normativo assai simile a quello vigente negli Stati
Uniti. Le autorità europee però continuano a mostrarsi più scettiche sulle virtù
redimenti dei mercati e sulle condotte delle grandi imprese, ma in linea di
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Altro tratto meritevole di menzione è che, accanto ai tre tradizionali “pilastri” concorrenziali del divieto di intese restrittive, del divieto di abuso di
posizione dominante e del controllo delle concentrazioni, il sistema europeo
prevede ulteriori disposizioni antitrust di notevole rilievo politico (oltre che
pratico) poco orientati a favorire lo spontaneo sviluppo dei mercati.
Il riferimento è, innanzitutto, all’art. 106 TFUE, il quale prevede che gli
Stati membri non possano emanare né mantenere, nei confronti delle imprese
pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna
misura contraria alle norme del trattato. Derogare a ciò è possibile solo nel caso
in cui uno Stato richieda ad un’impresa, sia essa pubblica o privata, di
perseguire una determinata missione di interesse economico generale (ad
esempio, la produzione di energia, la creazione di una rete di telefonia, ecc.);
tuttavia questa impresa non è, grazie a questo, sottratta dal rispetto della normativa a tutela della concorrenza, a meno che l’applicazione delle
disposizioni antitrust contrasti in modo esplicito con il perseguimento di tale
specifica missione pubblica.
In secondo luogo, nella stessa logica antiprotezionistica, l’art. 107 TFUE
stabilisce che sono in linea di principio incompatibili con il mercato comune,
nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri, gli aiuti concessi
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nazionali, falsino o minaccino di falsare la concorrenza nel mercato comune.
Gli aiuti di Stato possono essere consentiti, a certe specifiche condizioni, solo
qualora possa dimostrarsi che essi perseguono fini obiettivi pienamente coerenti
con quelli stabiliti nei Trattati europei (come ad esempio la protezione ambientale o la tutela dell’occupazione). In generale detti aiuti devono essere
comunicati alla Commissione e risultare proporzionati e strettamente necessari
a correggere un fallimento del mercato. In tutti gli altri casi, arrecando
distorsioni al corretto funzionamento dei mercati sono considerati illeciti e
sempre più fortemente combattuti dalle autorità europee.