3. Cenni storici: le origini dell’intervento antitrust in USA
3.1. I principi elaborati in seno alla common law, il principio di ragionevolezza nel
statunitensi
Come anticipato, la legislazione antitrust statunitense – che certo
precorreva i tempi se paragonata allo stato della disciplina in materia di
concorrenza esistente all’epoca in altri Paesi – non costituiva, tuttavia, una
novità assoluta poiché si innestava sul filone rappresentato da una serie di teorie,
elaborate in seno alla common law inglese prima, e americana poi, dirette a
reprimere quelle pratiche o attività aventi il comune effetto di produrre una
restrizione del commercio (restraint of trade). È pertanto indispensabile lo
studio di questi precedenti per avere una corretta interpretazione della
legislazione statunitense e per comprendere il significato dei termini usati nei
primi statutes in materia antimonopolistica (restraint of trade, combination,
conspiracy, monopolizing, ecc.) La stessa lettera della legge, e i principi in essa
accolti, assumono infatti pieno significato alla luce delle teorie sviluppate dalle
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principale delle quali fa perno sulla distinzione tra reasonable (ragionevolezza)
e unreasonable restraint of trade.
Qual era infatti il rilievo della teoria della restraint of trade, elaborata dalla
common law inglese, e chi poteva, rispettivamente, lamentarsene o farle valere
in giudizio?
La teoria della restraint of trade distingueva gli accordi in base al tipo di
restrizione cui davano luogo. Le ancillary restraint of trade erano tutte quelle
pattuizioni in virtù delle quali una parte si obbligava a non esercitare, per il
futuro, una determinata professione, industria o commercio. Tali accordi,
definiti secondari perché stipulati in vista ed in occasione di un valido contratto
principale (larger lawful transaction) – come, ad esempio, la cessione di
azienda o di attività professionale – potevano essere giudicati validi o meno
(legal o illegal) a seconda della loro ragionevolezza (reasonable)38. In altri
termini, se davano origine a una limitata e ragionevole restrizione della libera
38 Si noti che all’epoca della elaborazione giurisprudenziale di queste regole, la preoccupazione delle Corti inglesi era non soltanto (e forse, non tanto) quella di garantire il libero gioco della concorrenza. Infatti, in un’epoca dove il commercio era strettamente controllato dalle varie corporazioni, si voleva evitare di dare tutela alla richiesta per la esecuzione specifica di promesse in cui, ad esempio, un commerciante si impegnava a non fare concorrenza ad un altro commerciante, nella stessa città. Una promessa in tal senso avrebbe quasi certamente avuto il risultato di impedire all’obbligato di poter commerciare in qualsiasi altra città, diventando perciò un peso per l’intera società. V., per es., Mitchel
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concorrenza non si poteva negare loro validità39. Al contrario, qualora lo scopo
primario fosse di limitare la concorrenza, questi venivano vietati.
Nell’originaria common law inglese, dunque, gli accordi restrittivi della
concorrenza avevano, per lo più, rilevanza secondaria; è ovvio che la realtà
economica emersa col prosieguo del tempo non poteva recepire in toto questa
disciplina poiché i fenomeni delle intese, concentrazioni e monopoli assunsero rilevanza primaria, costituendo l’oggetto di contratti principali. Essi
divenivano, quindi, non ancillary restraint of trade, comprendendosi con questa
espressione tutti quegli accordi o pattuizioni che, senza essere subordinati ad alcun contratto principale, avevano l’esclusivo fine di eliminare o restringere la
concorrenza. Contro questi accordi si prospettavano valutazioni più severe,
intese a considerare le fattispecie in questione come irragionevoli in sé e per sé
e quindi, sempre e comunque invalide. Il punto cardine di tutta la questione è
che, in common law, il bene protetto non era la concorrenza così come noi la intendiamo (dopo che l’economia classica ha spiegato gli effetti della non
concorrenza nel rapporto tra domanda e offerta), ma era la libertà di contratto, in caso di “contratti in restrizione del commercio” e la libertà dei terzi (protetta
contro le pratiche di esclusione) in caso di “cospirazioni in restrizione del
39 V., per es., Nordenfelt v. Maxim, Nordenfelt Guns & Ammunation Co. 1894, A.C. 535, 565, dove la Corte sosteneva che “...restraints of trade… may be justified… if the restriction in reasonable…”.
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commercio”. Nel primo caso, perciò, un’intesa era restrittiva non in quanto
limitasse la concorrenza, ma in quanto limitasse la libertà di contratto di una
delle parti (ad esempio con una clausola di non concorrenza non accessoria a
una vendita o a un rapporto di lavoro). Nel secondo caso, una “combinazione”
era restrittiva quando fosse così coercitiva su terzi da privarli della libertà di
stare sul mercato (un boicottaggio) o di comprare beni o servizi al prezzo migliore (un’intesa di cartello per escludere i dettaglianti che non accettassero
di vendere a un dato prezzo). Le conseguenze di una tale impostazione erano
due: la prima era che, per arrivare a violare la libertà di contratto, un’intesa
doveva avere effetti tali da imporre agli stessi contraenti vincoli incidenti sulla loro futura libertà contrattuale. In assenza di effetti tanto ultimativi, l’intesa era
giudizialmente inattaccabile, perché era essa stessa espressione della libertà
protetta, la libertà di contratto appunto. Analogamente, una combinazione era
una cospirazione illegittima quando fosse tale da non lasciare ai terzi alcuna alternativa. Ma un’intesa di fissazione del prezzo che pure intervenisse tra
potenziali concorrenti, non era illecita tutte le volte che il consumatore poteva “uscire dal negozio” e comprare la stessa cosa da altri, estranei all’intesa (solo
nel settore dei beni di prima necessità la regola era più rigida). Ed ecco la
seconda conseguenza: le intese restrittive della libertà contrattuale e le
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poteva al contrario ottenere protezione contro di loro; mentre le intese non
restrittive né coercitive che contenevano comunque limitazioni (ad esempio, l’obbligo di attenersi a un prezzo fissato in comune), da una parte, non avevano
tutela giudiziaria fra le parti ma, dall’altra, non erano neppure invalidabili a
beneficio dei terzi che se ne sentissero lesi. La chiave concettuale utilizzata per
definire e distinguere i due ordini di intese e di combinazione era appunto, come
detto, quella della reasonable (ragionevolezza). Erano quindi unreasonable
(irragionevoli) le intese restrittive e le combinazioni con effetti coercitivi,
ragionevoli le altre. Su questa base, quindi, dottrina e giurisprudenza davano
per scontato che fossero condannabili in giudizio le sole intese o combinazioni “irragionevoli”, mentre le intese e le combinazioni “ragionevoli”, fossero pure
parzialmente restrittive, erano giudizialmente e quindi legalmente irrilevanti.
Ed è proprio sull’alternanza tra un approccio più liberale (identificato con l’espressione rule of reason) ed un approccio più severo (caratterizzato dalla
per se condemnation theory) che si è venuta articolando l’interpretazione della
legislazione antitrust statunitense.
In riferimento alla legislazione antitrust federale, la rule of reason fu
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celebri casi Standard Oil e American Tobacco40. Sulla base di questa teoria,
come già accennato, l’illegittimità di comportamenti promananti da società e/o
gruppi in posizione dominante, non dipende dall'esercizio del potere
monopolistico in quanto tale, bensì della circostanza che gli stessi abbiano, o
meno, ottenuto o posto in essere tale potere irragionevolmente, e cioè mediante
l'impiego di tattiche concorrenziali predatoria. In tal maniera, dal
comportamento delle imprese sarebbe possibile evincere, da parte delle Corti,
un diretto intento di monopolizzare.
Diversi anni più tardi si è verificato un mutamento di impostazione. La
Corte Suprema, infatti, nella decisione conosciuta come l'Alcoa Case41, ha
condannato la rule of reason. Si è così fatta strada una seconda teoria, che ha
provocato una revisione critica dei criteri precedentemente impiegati
nell'interpretazione delle leggi antitrust. Sulla base di questo autorevole
precedente le corti hanno manifestato la tendenza a ridurre la portata della rule
of reason, addirittura sforzandosi di creare un nuovo Sherman Act e un nuovo
40 V. Standard Oil Co. of New Jesrsey v. U.S., 1, 31, Sup. Ct., 502 e U.S. v. American Tobacco Co., 221, U.S., 106, 181, 31, Sup. Ct., 632, 649 (1911).
41 L’Alcoa era una società statunitense coinvolta in un'intesa internazionale con diversi produttori di alluminio canadesi ed europei al fine di monopolizzare il mercato dell'alluminio. Il Governo americano ha intentato causa all’Alcoa con l’accusa di violazione dello Sherman Act. Alcoa, in sua difesa, ha sostenuto che la maggior parte delle attività del “cartello” ha avuto luogo al di fuori degli Stati Uniti d’America, e, quindi, oltre la portata della giurisdizione degli Stati Uniti. La Corte ha rilevato la violazione dello Sherman Act da parte di Alcoa. V. United States v. Alcoa, 148 F.2d 416 (2d Cir. 1945).
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Clayton Act, più efficaci di quelli che venivano emergendo in base ai modelli
interpretativi inizialmente tracciati. Questo indebolimento della teoria della rule
of reason si è manifestata attraverso un orientamento volto a condannare in sé
e per sé (per se) certe forme di gigantismo aziendale, nonché la concentrazione
e l'acquisizione di potere monopolistico. Ecco dunque, la seconda teoria: la per
se condemnation. In ossequio a quest'ultima, le corti hanno mostrato una
propensione a condannare, in quanto tali, certe pratiche, quali il trattamento
differenziale dei prezzi, gli accordi di esclusiva e i contratti vessatori. Ciò sulla
base della considerazione che, mediante queste tattiche, le imprese più forti,
generalmente presenti sul mercato della posizione di venditori, mirano ad
escludere o danneggiare concorrenti più deboli.
Studi e orientamenti successivi42 mostrano un ritorno all'antico: e, cioè,
una rinascita della rule of reason. Comune ai sostenitori di questa rinnovata
corrente di orientamenti interpretativi, è l'intento di affrontare il problema della
interpretazione delle leggi antitrust mediante l'impiego di criteri che risultano
sostanzialmente permeati di quella filosofia della "ragionevolezza caso per
caso" che, a suo tempo, aveva ispirato le prime decisioni giudiziarie favorevoli
alla rule of reason theory.
42 V. Oppenheim, Federal Antitrust Legislation: Guideposts to a Revised National Antitrust Policy, 50 Mich. L. Rev., 1139 (1952).
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In questi studi sono contenuti alcuni suggerimenti generali relative
all'applicazione delle leggi antitrust. Si è soprattutto sottolineata la necessità di
uno standard o criterio unificatore da utilizzarsi per giudicare l'illegittimità
degli accordi e delle pratiche che caratterizzano questo variegato settore. Ciò,
a fronte di una crescente incertezza che veniva caratterizzando i criteri adottati
dallo Stato federale nella messa in opera del complesso delle leggi antitrust.
Questa situazione, a detta dei fautori della nuova corrente interpretativa, gettava
l'ombra di un grosso punto interrogativo sulle importanti decisioni da prendersi
nel mondo dell'economia e degli affari.
Il desiderato standard, o criterio unificatore, poteva così rinvenirsi nella
rivitalizzazione della rule of reason, anche nell'ottica di una nozione di
concorrenza effettiva (workable competition), distinta da quel parametro ideale
di concorrenza pura o perfetta, inesistente nella realtà dei fatti.
A questa istanza i sostenitori delle tesi interpretative più severe hanno
fornito una risposta uguale e contraria. Muovendo dalla stessa esigenza di
certezza che aveva ispirato la nuova rule of reason (o teoria della concorrenza
effettiva), proprio i fautori della per se condemnation theory hanno colto
l'occasione per contestare la possibilità di interpretazioni discrezionali
suscettibili di rendere ancora più incerto il disposto, inevitabilmente generale,
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mediante l'elaborazione di una serie di criteri e regole, il più possibile costante,
alla cui violazione deve necessariamente far seguito l'irrogazione delle sanzioni
previste dalla legge. L'obiettivo ultimo di questa posizione dottrinale e quello
di limitare al massimo grado ogni condizionamento della soluzione di
fattispecie concrete ai sempre contro avvertibili fatti caratteristici di ciascuna
ipotesi particolare. In questa direzione, ci si è spinti, muovendo dal presupposto
che anche nell'ambito di un sistema economico caratterizzato da un elevatissimo
grado di sviluppo e di progresso tecnologico, si possono distinguere le
situazioni di potere da quelle di predominio; il gigantismo derivante da battaglie
concorrenziali vinte da quello derivante invece da battaglie concorrenziali mai
combattute; la protezione del proprio interesse dalla lesione dell'interesse altrui.
Non è facile però la scelta, e neppure la mediazione, tra due posizioni
ispirate alle medesime esigenze, ma assai diversificate sotto il profilo delle
tecniche interpretative della decisione di singole fattispecie concrete. Una
risposta orientativa può ritrovarsi nell'applicazione dei tradizionali criteri di
valutazione della condotta umana, che le leggi e le corti hanno correntemente
lavorato nel corso di molti anni, indipendentemente da ogni considerazione
etica sui motivi che possono avere ispirato la condotta stessa. Considerazione,
questa, che, in misura più o meno larga, accompagna, invece, una valutazione
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La Corte di Giustizia Europea non riconosce la rule of reason.
Infatti gli USA si trovano in posizione ancora molto distante dalle posizioni dell’antitrust europeo. Fin dagli anni settanta, la Commissione ha
tentato di uniformarsi ai concetti dell’antitrust statunitense, trovandosi però
costantemente l’ostruzione della Corte di Giustizia, che in Europa ha l’ultima
parola ed è rimasta fedele alla lezione ordoliberale di prevalenza del benessere
dei consumatori, e secondo cui, ancora di più, la struttura del mercato deve
essere animata da una vivace rivalità anche a costo di tenere in vita concorrenti
non proprio efficienti.
Con la sentenza della Corte Suprema del 28 giugno 2007 sul caso
Leegin 43è venuta meno una quasi secolare tradizione giurisprudenziale
dell’autorità antitrust USA, avviata sin dal caso Dr. Miles del 1911: questa
considerava tutte le varie forme di imposizione di prezzo al dettaglio fatte dal
produttore al distributore, in primis il prezzo minimo, come vietate di per sé
(per se rule). Si riteneva che le restrizioni non potessero che avere effetti
43 Nel caso di specie, un produttore di articoli in pelle, Leegin, è stato accusato da un distributore texano di avergli imposto un prezzo minimo da praticare al consumatore su una linea di cinte da donna presente sul mercato con il marchio “Brighton”. Leegin voleva in tal modo lasciare un margine di profitto alto ai distributori in modo da favorire le piccole boutique specializzate, rispetto ai grandi magazzini, in grado di assicurare al cliente un servizio di assistenza pre-vendita più accurato e personalizzato, che aiutava a mettere maggiormente in risalto il brand. La denuncia parte allorché il distributore texano, che vende il prodotto con uno sconto del 20% rispetto al prezzo minimo indicato da Leegin, si vede rifiutare, da parte di quest’ultima, ulteriori acquisti del prodotto. La Corte Suprema, in opposizione a quanto stabilito nei giudizi di grado più basso, ha ritenuto che non si dovesse applicare il divieto per se alla pratica, come chiedeva il distributore texano, ma che si dovesse entrare nel merito del caso. V. Leegin Creative Leather Products, Inc. v. PSKS, Inc., 551 U.S. 877 (2007).
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anticoncorrenziali prevalenti. Tale regola viene ora abbandonata e sostituita
dalla rule of reason, che abilita l’autorità antitrust a procedere con la logica del caso per caso, affermando che quando un prezzo è regolato da un’autorità non
vi è luogo al margin squeeze44 (compressione dei margini). Questo mutamento
si inserisce, comunque, in un trend consolidato e ultradecennale volto all’indebolimento, e in definitiva all’eliminazione, del divieto per se su tutte le
restrizioni verticali in uso tra produttori e distributori, anche le più controverse.
Si può ricordare, infatti, che dal 1937 al 1975 la legislazione antitrust americana
sospese il divieto per se del prezzo imposto dal produttore attraverso il Miller-
Tydings Resale Price Maintenance Act del 1937 e con il McGuire Act del 1952.
Nel 1967, poi, la Corte si trovò di fronte un caso di franchising nel quale la
società Schwinn, produttrice di biciclette con una forte (anche se non
dominante) posizione sul mercato, aveva imposto ai suoi dettaglianti di vendere
soltanto ai consumatori finali ovvero ad altri dettaglianti come loro legati a
Schwinn45. Fu evidente la restrizione della concorrenza “intramarca” (intra-
brand competition) che clausole del genere portavano con sé. Allo stesso modo
44 Tipico esempio di pratica escludente: si verifica nell’ambito dei mercati verticalmente integrati ogni qual volta un’impresa dominante nel mercato a monte pratichi condizioni non replicabili da parte dei concorrenti che operano sui mercati a valle. L’esempio tipico è quello dell’operatore telefonico proprietario dell’unica rete fissa che offra servizi a banda larga in favore della clientela finale a prezzi inferiori a quelli (cd. “all’ingrosso”) che lo stesso incumbet impone ai concorrenti per utilizzare la proprio rete. V., per esempio, AGCM, provv. n. 9472, Infostrada/ADSL, in Boll., n. 16-17/2001. 45 United States v. Arnold Schwinn & Co., 388 U. S. 365 (1967).
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fu sostenibile la congruità alla fornitura di servizi al cliente, e quindi ad una maggiore competitività della Schwinn nell’ambito di una perdurante
concorrenza “intermarche” (inter-brand competition). La Corte tuttavia
dichiarò illegittime “per sé” le restrizioni, in quanto violavano la libertà del
rivenditore, assoggettandolo al produttore come un dipendente. Nel 1975 il
principio applicato nel caso Dr. Miles fu reintrodotto, ma subito dopo fu
nuovamente indebolito con una serie di sentenze tra la fine degli anni settanta e
gli inizi degli anni ottanta. Nel 1977, ad esempio, nel caso GTE Sylvania46 fu
eliminato il divieto per se sui contratti verticali “non di prezzo” come la
distribuzione esclusiva e territoriale. Il caso era simile a Schwinn, ma ne era anche distinguibile: sul piano dei fatti per l’assenza di ogni forza di mercato nel
produttore, sul piano del diritto perché qui si imponevano al dettagliante dei
limiti, non sulla scelta di coloro a cui vendere, ma solo sui luoghi in cui vendere.
Eppure la Corte ritenne necessario rovesciare apertamente e compiutamente il precedente: notò subito che l’impatto delle restrizioni verticali è “complesso”,
perché esse riducono sì la concorrenza “intramarca”, ma possono stimolare quella “intermarca”. E aggiunse che gli economisti evidenziarono i tanti modi
46 Sylvania, un’impresa produttrice di televisori che aveva perduto mercato (era scesa all’1%) e che, per riprendersi, aveva poi organizzato con successo (risalendo sino al 5%) una rete di franchising, con l’obbligo, per i dettaglianti della rete, di vendere solo nei locali convenuti con la stessa Sylvania. V. Continental Television v. GTE Sylvania, 433 U.S. 36 (1977).
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nei quali i produttori potevano utilizzare restrizioni del genere per competere
più efficacemente tra loro, allestendo servizi pre-vendita e post-vendita,
assicurando manutenzione e riparazione, proteggendo gli stessi dettaglianti che
si sobbarcano concretamente tali servizi, dai rivenditori free riders a prezzo di
costo. Il giudice, pertanto, ribadì che un accordo tra un produttore e un distributore con il quale si pregiudicava l’esclusiva di un altro distributore non
poteva ritenersi illegittimo in sé e per sé, ma doveva essere valutato caso per
caso, in base alla rule of reason. Si arrivò quindi al noto caso Sharp47, deciso
nel 1988 dalla sentenza scritta dal giudice Scalia (noto giurista conservatore
vicino al Presidente Reagan). La Corte scrisse che c’era una generale presunzione a favore del criterio della ragionevolezza rispetto alla illegalità “per
sé” e aggiunse che la “prioritaria preoccupazione” dell’antitrust è mantenere
una concorrenza fra le varie marche dei prodotti sul mercato, quindi la
concorrenza intermarche. Se invece si applicasse con rigore la tutela della concorrenza all’interno di una stessa marca (intramarca), si darebbe vita ad una
struttura eccessivamente atomistica del mercato, perseguendo quell’ideale di
concorrenza perfetta incompatibile con la realtà economica moderna. La Corte,
47 Sharp, una nota società di apparecchiature elettroniche, aveva un listino di prezzi non obbligatori ma solo consigliati. Uno dei suoi rivenditori, BEC, avviò una politica di prezzo molto aggressiva a danno (fra gli altri) di un altro rivenditore di Sharp, Hartwell, il quale chiese, e ottenne, che Sharp, a causa di ciò, ponesse fine al rapporto con lui. Sharp (secondo l’accertamento della giuria) aveva posto fine al rapporto BEC, avendolo convenuto con Hartwell a causa degli sconti praticati da BEC. V.
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pertanto, aggiunse che gli accordi verticali di price- fixing48 ricevono dalla
legge il trattamento rigido della illegalità “per sé”, soprattutto perché possono
essere usati per fare accordi orizzontali fra produttori diversi, aventi il
medesimo oggetto, e per controllarne il rispetto. Tale decisione adottata da
Scalia trovò l’opinione dissenziente dei giudici Stevens e White, che rifiutarono la delimitazione dell’illegalità di price-fixing operata da Scalia; inoltre essi