• Non ci sono risultati.

Interpretazione della direttiva 96/71 e legittimità dell'azione collettiva

Bilanciamento tra autonomia collettiva e libertà economiche

3. La sentenza Laval

3.2. Interpretazione della direttiva 96/71 e legittimità dell'azione collettiva

La direttiva sul distacco dei lavoratori (96/71) ha lo scopo di eliminare tutto ciò che ostacoli la libera prestazione di servizi, assicurando ai lavoratori distaccati in uno Stato membro diverso da quello di residenza le stesse condizioni di lavoro previste nel Paese comunitario di destinazione. Essa "si

172

applica alle imprese stabilite in uno Stato membro che, nel quadro di una prestazione di servizi transnazionale, distacchino i lavoratori" in un altro Paese membro (art. 1, 1). L'art. 1, comma 3 precisa che il distacco dei lavoratori si riferisce alle imprese che distacchino i lavoratori (a condizione che tra impresa distaccante e lavoratore distaccato nel periodo di distacco esista un rapporto di lavoro):

1. per loro conto o sotto la loro direzione nell'ambito di un contratto stipulato tra l'impresa distaccante e il destinatario della prestazione di servizi;

2. in uno stabilimento o in un'impresa facente parte dello stesso gruppo;

3. in qualità di impresa di lavoro temporaneo o di impresa che effettua la cessione temporanea dei lavoratori presso un'impresa utilizzatrice avente la sede o un centro di attività all'interno di uno Stato comunitario.

La direttiva definisce un insieme di regole imperative riguardanti le condizioni di lavoro e di occupazione che il Paese membro ospitante deve garantire ai lavoratori in esso distaccati, "qualunque sia la legislazione applicabile al rapporto di lavoro". Queste regole possono essere stabilite da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, e/o da contratti collettivi o da arbitrati dichiarati di applicazione generale, ai sensi dell'art. 3, comma 8234 della direttiva (art. 3, 1). Sulla base del principio di parità di trattamento, questi contratti collettivi e arbitrati possono comunque essere estesi anche ad attività e settori e diversi da quelli menzionati dalla direttiva (art. 3, 10). Nel caso in cui non sia prevista un'efficacia erga omnes dei contratti collettivi e degli arbitrati, è possibile avvalersi "dei contratti collettivi o arbitrati che sono in genere applicabili a tutte le imprese simili nell'ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale

234

Secondo il comma 8 dell'art. 3 per contratti collettivi o arbitrati di applicazione generali "si intendono quelli che devono essere rispettati da tutte le imprese situate nell'ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate".

173

interessate e/o dei contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il territorio nazionale" (art. 3, 8). Tutto ciò sempre a condizione che la loro applicazione garantisca la parità di trattamento.

L'art. 3, comma 1, precisa che le condizioni di lavoro e di occupazione che devono essere garantite si riferiscono: ai periodi massimi di lavoro e minimi di riposo; alla durata massima annuale delle ferie; alle tariffe minime salariali; alla salute, alla sicurezza e all'igiene sul lavoro; a misure protettive riguardanti le condizioni di lavoro svolto da donne incinte e puerpere, bambini e giovani; a trattamenti non discriminatori, in particolare tra i sessi. La direttiva inoltre specifica che queste condizioni di lavoro e di occupazione costituiscono degli standard minimi essendo possibile, ai sensi dell'art. 3, comma 7, applicare condizioni più favorevoli ai lavoratori. Infine gli Stati membri hanno la facoltà di fissare condizioni di lavoro e di occupazione, nel rispetto del Trattato, anche su altre materie rispetto a quelle suddette, "laddove si tratti di disposizioni di ordine pubblico" (art. 3, 10), sulla base del principio di parità di trattamento.

La direttiva 96/71 è stata attuata dalla Svezia attraverso la legge n. 678 del 1999. Si evidenzia che questa legge ha dato attuazione a tutte le materie previste dalla direttiva, ad esclusione delle tariffe minime salariali, la cui regolazione è stata rinviata alla contrattazione collettiva.

Con riguardo al caso Laval, si precisa che il contratto collettivo dell'edilizia firmato dal sindacato dei lavoratori e dall'organizzazione datoriale svedese ha caratteristiche particolari. Infatti non prevede alcuna disposizione sul salario minimo: il contratto collettivo fissa una disciplina generale e successivamente a livello locale, cioè nei luoghi di lavoro, vengono negoziati i trattamenti retributivi in relazione alla prestazione lavorativa e al progetto di costruzione, tenendo conto della qualifica e delle mansioni dei lavoratori.

Nella sentenza Laval, la Corte (punti 65-67), dopo aver ricordato che in Svezia le tariffe minime salariali previste dalla direttiva non sono state

174

determinate da disposizioni legislative, ha evidenziato che i contratti collettivi, secondo l'ordinamento svedese, non hanno efficacia generale e che, inoltre, nel Paese scandinavo non è stata utilizzata la possibilità di estendere l'efficacia dei contratti collettivi attraverso le modalità previste dall'art. 3, comma 8 della direttiva 96/71. Inoltre la Corte considera che le retribuzioni nel settore edile fissate da trattative caso per caso non siano da ritenersi dei minimi salariali. Di conseguenza, non è possibile, secondo la Corte, che la sottoscrizione del contratto collettivo possa essere imposta ai prestatori di servizi stabiliti in altri Stati membri sulla base della direttiva (punto 70-71).

Inoltre i giudici di Lussemburgo sottolineano che le condizioni di occupazione e di lavoro, in particolare quelle riguardanti gli orari di lavoro e le ferie annuali, stabilite in questi contratti, erano più favorevoli ai lavoratori rispetto a quelle stabilite dalla legge svedese n. 678/1999 sulle materie dell'art. 3.1 della direttiva. Questo non sembrerebbe in contrasto con la direttiva in quanto, come abbiamo detto sopra, l'art. 3.7 consente ai contratti di applicare condizioni di lavoro e di occupazione più favorevoli ai lavoratori. La Corte però ha spiegato che quest'ultima disposizione non deve essere interpretata nel senso che essa "consentirebbe allo Stato membro ospitante di subordinare la realizzazione di una prestazione di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima", previste dall'art. 3.1, in quanto "tale interpretazione finirebbe per privare di effetto utile la direttiva in esame"; l'art. 3.7 va invece interpretato nel senso che permette ai lavoratori distaccati di mantenere, sulle materie previste da questa disposizione, le condizioni di lavoro e di occupazione che eventualmente già beneficiano "in applicazione della legge o dei contratti collettivi nello Stato membro di origine" (punto 80).

Questa interpretazione si giustifica, anche se la Corte non lo afferma esplicitamente, per il fatto che se fossero imposte al prestatore di servizi straniero condizioni di lavoro più favorevoli ai lavoratori, il vantaggio competitivo derivante dai costi di lavoro più bassi verrebbe notevolmente

175

ridotto, verificandosi in questo modo un ostacolo alla libera circolazione dei servizi.

In ogni caso comunque, la Corte sottolinea che, anche se il rispetto di trattamenti più favorevoli ai lavoratori rispetto ai livelli minimi non possa essere imposto alle imprese stabilite in altri Paesi comunitari, queste ultime possono comunque firmare volontariamente nel Pese membro ospitante un contratto collettivo che preveda condizioni di lavoro e di occupazioni più favorevoli (punto 81).

Infine si evidenzia che il contratto collettivo edile contiene condizioni di lavoro e di occupazione riguardanti anche materie diverse rispetto a quelle previste dalla direttiva (provvedimenti sulla disoccupazione temporanea e sul tempo d'attesa, sulla tutela contro i licenziamenti e sulla formazione e l'obbligo per le imprese di versare al sindacato una somma pecuniaria per il controllo svolto sulle retribuzioni e per i premi assicurativi dei dipendenti). In proposito la Corte afferma che queste disposizioni, essendo state, determinate dalle parti sociali, queste ultime non possono giovarsi dell'art. 3, comma 10 "per invocare ragioni di ordine pubblico al fine di dimostrare la conformità al diritto comunitario di un'azione collettiva come quella in esame nella causa principale", in quanto esse non costituiscono dei soggetti di diritto pubblico (punto 84).

In definitiva quindi, la Corte ha ritenuto che le azioni collettive finalizzate a indurre le imprese stabilite in altri Paesi membri a firmare un contratto collettivo, al cui interno siano previste sia delle clausole che si discostino dalle disposizioni legislative prevedendo condizioni di lavoro e di occupazione più favorevoli relativamente alle materie stabilite dall'art. 3.1 della direttiva 96/71, e sia altre clausole che si riferiscano a materie diverse da quelle previste da quest'ultima disposizione, siano in grado "di scoraggiare o rendere più difficile per tali imprese l'esecuzione di lavori di costruzione sul territorio svedese" e che quindi costituiscano una restrizione alla libera prestazione di servizi (punto 99).

176

Questa restrizione, secondo la Corte, non può essere ammessa, rendendo quindi illegittima l'azione collettiva in esame. I giudici di Lussemburgo hanno infatti affermato che, nonostante la protezione dei lavoratori nello Stato ospitante nei confronti del dumping sociale costituisca una ragione di interesse generale, gli obblighi derivanti dalla sottoscrizione del contratto riguardante il caso Laval vanno oltre le norme imperative di protezione minima che lo Stato membro ospitante deve imporre in base alla direttiva 96/71 e di conseguenza la restrizione alla libera prestazione di servizi non può essere giustificata (punti 103 ss.).

La Corte ha inoltre evidenziato che il sistema di negoziazione caso per caso non può essere imposto sulla base della direttiva 96/71 anche perché esso non rispetta l'obbligo di trasparenza stabilito dall'art. 4, comma 3 della direttiva, secondo il quale ogni Paese comunitario "adotta provvedimenti idonei affinché le informazioni relative alle condizioni di lavoro e di occupazione di cui all'articolo 3 siano generalmente accessibili", in quanto il prestatore di servizi straniero avrebbe molta difficoltà o sarebbe impossibilitato a quantificare ex ante gli obblighi relativi ai minimi salariali cui dovrebbe conformarsi (punto 110).