Gli ambiti specificatamente educat
1. L A DIMENSIONE VOCAZIONALE NELLA DIDATTICA
Voglio innanzitutto toccare la questione che più compete la Scuola e le sue pratiche, cioè la didattica. La punta del mio discorso – lo dico subito – lambisce la dialettica che si muove attorno a due modelli diversi di “fare scuola” e promuove il passaggio dalla produzione di apprendimenti attraverso conoscenze e abilità (I mo- dello) alla trasmissione di un sapere come sapersi, graduale cognoscimento di sé (Teresa d’Avila) nella propria verità irriducibile e soggettiva (II modello).
Che il compito primario della Scuola debba virare su questo secondo modello sembra essere chiaro a molti. Meno evidenti sono tuttavia le modalità con le quali oggi l’apprendimento viene proposto nelle effettive prassi didattiche. Il rischio che la didattica, anziché essere l’arte grazie alla quale l’in-segnante riesce a trasmettere un apprendimento suscitandolo nel desiderio del suo allievo, diventi una merce di scambio che trasforma la scuola in un luogo di produzione e di godimento, non è poi così lontano anche dalle nostre realtà. Dall’esperienza che ho mi pare di poter asserire che il ruolo e la figura dell’insegnante nel promuovere tale passaggio non siano irrilevanti: quanto nel proporre il sapere è capace di far emergere domande? Quanto nel richiederlo riesce a attivare relazioni collaborative? Quanta forza ha nel resistere alla tentazione di saturare la mente e quanta consapevolezza di sé per as- sumere la posizione non del padrone che sa, ma del resto che viene saputo (e scar- tato), di colui che regredisce affinché i suoi allievi avanzino? Sono convinto che solo dentro un’esperienza di apprendimento che nutra il desiderio può trovare forza una pastorale della vocazione nella scuola.
Per realizzare questo c’è tuttavia bisogno da parte dell’operatore di una con- tinua conversione all’ascolto, al silenzio, al non sapere; dell’acquisizione da parte sua di un’etica della verità, del desiderio e del “ben dire” che si traduca in una tec- nica dell’accompagnamento vocazionale grazie alla quale favorire presso l’allievo la scoperta del proprio sapersi all’interno dei vari saperi.
2. L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE
In questa prospettiva si può comprendere ancor più il valore educativo e le po- tenzialità vocazionali di un insegnamento fondamentale come è quello della Reli- gione Cattolica, specie a partire dal grande enigma della morte che emerge nel con- fronto con l’arida quotidianità aprendo il varco verso un Mistero da accogliere, ri- spettare, rielaborare e non rimuovere o, peggio ancora, ridurre.
Se pensiamo all’importanza che riveste nella pedagogia di don Bosco l’eser- cizio della buona morte e l’apertura di riflessione che il suo discorso opera sulle realtà escatologiche, ci rendiamo conto di quanto sia decisivo questo insegnamento nel panorama di tutta l’offerta formativa che mettiamo in campo nel rispetto di ogni profilo. Per dirla con le parole di Lacan nella sua lettera di dissoluzione dell’Ecole
freudienne “la stabilità della religione viene dal fatto che il senso è sempre reli- gioso”. Il compito che l’insegnante di religione assume non può che vertere sulla questione del senso, sulle motivazioni allo studio, sulla domanda di verità che non fa più così paura in quanto illuminata nelle sue aperture dal Mistero pasquale (Vic- timae paschali laudes immolent christiani). Anche per questo motivo è di fonda- mentale importanza che al centro dell’apprendimento scolastico vi sia la dinamica relazionale. È questa un’intuizione che sta al cuore del carisma salesiano e che ha spinto fin dalla fine degli anni ottanta l’ufficio di pastorale giovanile della nostra ispettoria a non disgiungere il compito dell’insegnante di religione dal ruolo del ca- techista secondo il tradizionale modello educativo pensato e attuato da don Bosco.
Ho visto ultimamente la sequenza finale dell’ultima fiction su don Bosco: mi ha profondamente fatto pensare questa preghiera intensa dei giovani di Valdocco ri- uniti nella notte davanti all’Eucaristia per offrire la loro vita in cambio della sua. Lo senti salire in superficie che qui c’è di mezzo una paternità che viene dallo Spi- rito e non dalla carne. Quanto e come devono essersi sentiti intimamente amati questi ragazzi per corrispondere al cuore di don Bosco con un desiderio così pro- fondo da renderli capaci di una invocazione così autentica, tenace, perseverante!
3. L’EDUCAZIONE ALL’AMORE E ALLA CASTITÀ
Abbiamo in questo modello di paternità in atto la conferma del principio che la
relazione è a fondamento di ogni prassi educativa: Studia di farti amare. Tuttavia
capita di imbattersi sempre più spesso in giovani che ti chiedono se è possibile
amare, se l’amore non sia un’illusione. Una domanda così può sorprendere, ma in
realtà se da una parte denuncia una disagio effettivo nella civiltà, dall’altra fa emer- gere insopprimibile nel cuore di un giovane quello che Benedetto XVI definisce “l’interiore impulso ad amare in modo autentico” (Caritas in veritate, 1) o, per dirla con altre parole, il fatto che “il soggetto umano viene al mondo con la voca- zione a rimanerlo umano” (Françoise Dolto). Non si tratta di cosa facile per lui viste le varie forme di disumanizzazione a cui viene esposto.
Eppure se vi è un segreto nell’assunzione di una responsabilità così onerosa come è quella educativa esso passa proprio dalla salvaguardia del transfert e cioè attraverso quella che la nostra tradizione morale e pedagogica chiama castità. È in- fatti con il corpo e attraverso il corpo che il nostro discorso raggiunge i suoi effetti. L’amore è possibile solo se è sensibile, altrimenti è destinato a ridursi in quei ragio- namenti che i nostri allievi odono, ma non ascoltano e tanto meno seguono.
Quando Lacan in esergo al suo seminario D’un Autre à l’autre (1968) riporta in tabella L’essence de la théorie psychanalytique est un discours sans parole scrive sul rovescio ciò che don Bosco con la sua testimonianza e i suoi consigli ci ha ripetuto sul dritto: “Virtù sommamente necessaria è la virtù della castità. […] Evitate la familiarità […] le amicizie particolari […]. Dopo le orazioni della sera
non fate più conversazione con alcuno fino al mattino dopo la santa Messa” (G. BOSCO, Ai soci salesiani).
Discorsi diversi eppure decisivi nel farci comprendere come per chi opera nei campi della formazione, la cura dell’Altro – che si ottiene innanzitutto attraverso una relazione di transfert – richieda una profonda consapevolezza di sé ottenuta con una perseverante e oserei dire rigorosa vigilanza (cfr. 1 Cor 9,27).
4. L’EDUCAZIONE ALLA PREGHIERA
È sintomatico il fatto che trattando con i soci salesiani della castità don Bosco approdi al tema della preghiera: “Le nostre sollecitudini sian poi costantemente e con diligenza speciale dirette all’osservanza esatta delle pratiche di pietà”. Sono esse le pratiche che caratterizzano le nostre scuole riportandole al fondamento. Come ci ricorda Freud, ma prima di lui l’intuizione onirica che segna tutta la vita di San Giovanni Bosco, educare è un mestiere impossibile e se non c’è la domanda sull’Unico Altro per il quale tutto diventa possibile (cfr. Lc 1,37), uno neppure ci si mette. Se le nostre scuole possono accompagnare un giovane alla scelta vocazio- nale è perché effettivamente il loro discorso si lega a quello del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Nel loro nome si annodano tutti i nostri discorsi e nella Sua vo- lontà si compiono i nostri desideri. Non è pertanto pensabile una scuola salesiana senza la pratica che introduce tutte le pratiche, il buongiorno. Non è pensabile una proposta educativa senza un tempo che dia allo studente la possibilità di vedersi, di pensarsi e quindi di concludere sulla scelta che lo attende oltre la fine della scuola. In questo senso i ritiri e gli esercizi spirituali collocati strategicamente nel calen- dario scolastico sono decisivi. È questo, infatti, un tempo favorevole per fare l’e- sperienza di Dio: un’esperienza marcata dalla soggettività, ma proprio per questo fondamentale per far comprendere al ragazzo che il suo nome scritto sulla pietruzza bianca e a lui dato perché in esso si possa riconoscere (cfr. Ap 2,17), questo nome è scritto nei cieli (cfr. Lc 10,20).
5. L’ACCOMPAGNAMENTO PERSONALE
Se l’esperienza educativa è marcata dalla soggettività e prende forma solo nel- l’intuizione di una vocazione da vivere è fondamentale che, nel complesso relazio- nale che accompagna la crescita di un allievo, non manchino i luoghi del confronto, della parola, del discernimento.
Si tratta di luoghi delimitati che in quanto patrimonio del nostro setting educa- tivo vanno compresi nella loro significanza; oserei dire che vanno presi alla lettera. Tra le tante ne scelgo una, la terza attinta dal nostro alfabeto. C come cattedra, come cortile, come confessionale. Sono questi, tra gli altri, i luoghi specifici della
parola che, come le forbici del giardiniere, taglia, sfronda, pota. Una parola che in- segna, che ri-prende, che dis-cerne. Setting per i quali il salesiano è chiamato ad at- trezzarsi, a confrontarsi, verificarsi, aggiornarsi; dentro i quali è chiamato a ripro- porsi.
6. PER UN LAVORO A DUE MANI
Un’ultima annotazione prima di concludere l’attingo dalla mia esperienza per- sonale: in questi ultimi dieci anni da che lavoro nell’ambito scolastico ho avuto la sorpresa di vedere undici giovani entrare in Noviziato e altri due scegliere la via del Seminario diocesano. Storie che partono da domande molto diverse, ma che regi- strano come decisivo il momento in cui matura in loro la decisione di consegnarsi nelle mani dell’animatore vocazionale avvalorando con la loro libertà la Proposta che verrà con ciascuno di loro articolata. Questo passaggio all’atto ha comportato sempre la fatica di un lavoro a due mani delicato, paziente e condiviso. Analizzan- dolo ora posso riconoscere che da una parte ha giocato un ruolo importante il cate- chista, o comunque il salesiano che accompagna l’allievo nell’esperienza didattica e formativa della scuola alla graduale conoscenza di sé; dall’altra è risultato deter- minante l’animatore vocazionale, con il suo servizio al discernimento maturato al- l’interno di una forte esperienza carismatica e nel solco di un cammino di fede che non ha mai smesso di puntare al riconoscimento di sé nel disegno di Dio.
Un passo questo che più non compete il discorso che mi è stato chiesto, ma per il conseguimento del quale tale discorso non solo non ammette deroghe, strappi e improvvisazioni, ma richiede – specie da parte del salesiano che opera nella scuola salesiana – una non ingenua capacità di lettura dei sintomi. Vi sono, infatti, alcuni significanti sul volto e nell’agire dei nostri allievi che ci chiedono di essere letti e decifrati. Può essere un intervento audace durante un’ora di religione, il libero per- manere nell’ambiente oltre i tempi canonici, gli occhi concentrati su un particolare annuncio della fede, il desiderio di stare con i più piccoli per accompagnarli nei momenti del gioco come dell’impegno, la creatività esibita nel riuscire a coinvol- gere un gruppo di compagni all’interno di una dinamica virtuosa, l’interesse non forzato per le pratiche tradizionali della religione.
Significanti inconfondibili che dicono di quel ragazzo qualcosa che può essere da lui meglio compreso solo all’interno di altri significanti, quelli specifici di un discorso antico che noi ben conosciamo sia perché a suo tempo ci aveva conqui- stato, sia perché continua ancora a spingerci a istruire sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
Cosa questa che, specie in certi contesti sociali, ci può sembrare impossibile, ma che, come ci ricorda il sognatore a cui abbiamo dato credito, noi siamo coman- dati a rendere possibile “coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza” (MO, LAS 2011, 62).
1Direttore Torino Valdocco.
Non è sicuramente agevole restituire la fotografia di un agire pastorale attra- verso uno scritto. Se un’opera d’arte risulta povera nella sua descrizione, quando quest’ultima è per lo più affidata alla carta, tanto più può essere vaga la descrizione di processi educativi, relazioni umane e avvenimenti che hanno l’obiettivo di con- segnare ai giovani il Senso della vita.
Conosciamo, infatti, dalla nostra tradizione salesiana, che solo attraverso il confronto con questo Senso avviene il discernimento. Alla scuola dunque del mi- stero di Dio impariamo ad orientare e spendere le energie vitali, nella comune con- sapevolezza che siamo al mondo per essere felici (qui e per sempre), e che questa felicità si incontra davvero grazie all’Imitazione di quella “consegna di sé”, che è stata propria del Figlio di Dio.
Tale “consegna di sé” si rinnova nella vita di don Bosco e nel carisma sale- siano trova una prassi sicura per il cammino. Incontriamo tale “consegna di sé” grazie alla Rivelazione ed essa è sperimentabile nella vita della comunità eccle- siale, attraverso i suoi segni: la comunione nelle relazioni, la prassi sacramentale, la sapienza della vita spirituale e la fantasia della carità.
Alla luce di tale sentire, e nel desiderio di raccogliere l’invito del Capitolo Ge- nerale a “convocare” il mondo giovanile per un impegno apostolico e missionario, nella Casa di Borgomanero in questi ultimi anni si sono avviate alcune iniziative specifiche.
In generale, l’attività costruita sul binomio educazione-evangelizzazione ha avuto un costante riferimento alle “tematiche vocazionali”, nella consapevolezza del legame intrinseco tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale, e sollecitati dagli stessi interrogativi dei giovani che sentono il loro futuro esistenziale, oltre