1.3 Le evoluzioni del concetto di disabilità nei processi di sviluppo e di organizzazione sociale.
1.3.2 L’approccio ICF: integrazioni e posizioni critiche.
Una disamina dei principali modelli di classificazione, sviluppati e adottati dagli anni ‘70 ad oggi, porta a valutare l’impatto del modello proposto dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Con riferimento specifico all’approccio dell’ICF, con il tempo, si sono però fatte spazio alcune posizioni che rilevano il perdurare dell’influenza del modello medico, all’interno della Classificazione. Una delle posizioni critiche è quella riferibile agli esponenti dei Disability studies 47, i quali pongono in rilievo
come l’ICF sia essenzialmente uno strumento normativo che non mette in discussione lo standard proposto dai modelli di classificazione che lo avevano preceduto, non andando oltre il rapporto consequenziale tra menomazione e disabilità.
46 WHO (World Health Organization) International classification of functioning, disability
and health: children & youth version ICF-CY, Geneva 2007; tr. it. OMS (Organizzazione
Mondiale della Sanità), Ivi, pp. 19-21.
47 Disciplina sviluppatasi in Gran Bretagna intorno agli anni ‘70 dall’incontro di un gruppo di studiosi inglesi (tra cui Mike Oliver e Vic Finkelstein) con il desiderio di scrivere della loro condizione di vita e sottoporre ad esame critico il modo in cui la società “rende disabile” proprio quell’uomo che si differenzia dalla norma. I Disability Studies cominciano ad esistere come disciplina accademica soltanto intorno agli anni ’80, abbracciando più ambiti disciplinari e territoriali: sociologia, psicologia, diritto, storia, filosofia e con differenze e peculiarità legate alle diverse aree geografiche di riferimento.
Ciò che alcuni autori appartenenti a tale filone di studio e ricerca sottolineano in maniera piuttosto marcata è l’assenza di un reale cambiamento paradigmatico che viene auspicato con il principio d’inclusione, “quello che distingue tra il deficit (condizione biologica) e la disabilità (condizione sociale), soprattutto se viene utilizzato come una vera e proprio ‘bibbia’, piuttosto che come uno strumento da modificare e da adattare a seconda delle esigenze” 48.
Secondo questi studiosi, nel rilevare una mancanza di flessibilità, la positività del modello risiede nella capacità di modificarsi e adattarsi a seconda delle esigenze, in modo da divenire uno strumento a supporto e a sostegno della diversità e della eterogeneità.
All’interno del filone critico, nel rilevare come l’ICF non definisca del tutto la diversità riconducendola in ambito normativo, il principio di norma e normalità è più volte ripreso in relazione alla rappresentazione sociale della disabilità, ritenendo che tale fenomeno abbia proprio un fondamento ideologico, al punto da concretizzare una discriminazione istituzionalizzata (“institutionalised discrimination”) 49.
Riguardo all’inquadramento anglosassone, in cui ritroviamo la disciplina dei Disability studies, ciò che qui è importante rilevare è proprio la posizione assunta dalla stessa nei confronti dei modelli di classificazione internazionali e della visione da sempre adottata da parte delle istituzioni politiche e sociali verso la disabilità.
Il quadro teorico di riferimento della disciplina è, non a caso, il ‘modello sociale della disabilità’, nato intorno agli anni ‘60 e ‘70 in Inghilterra, con il rilevante contributo di Paul Hunt che concettualizzò tale modello per la prima volta e che venne poi sviluppato da Vic Finkelstein e altri attivisti disabili del movimento
48 S. D’Alessio, Decostruire l’integrazione scolastica e costruire l’inclusione in Italia in R. Medeghini e W. Fornasa, L’ educazione inclusiva. Culture e pratiche nei contesti educativi e
scolastici: una prospettiva psicopedagogica, Milano: Franco Angeli, 2011, pp.89-90.
dello UPIAS (Union of the Physically Impaired Against Segregation), negli anni ‘70; la partecipazione alle attività di ricerca dei soggetti disabili, protagonisti attivi degli studi scientifici che li coinvolgevano in prima persona, rappresenta un elemento che ha caratterizzato lo sviluppo di questa disciplima disciplina. Quello che viene innanzitutto messo in discussione, da parte dei Disability Studies, è l’assunto che lega causalmente e linearmente l’avere una menomazione con l’essere disabili, mettendo l’intera società sotto analisi. L’intento è, infatti, quello di far emergere tutte le forme ed i mezzi di esclusione (a partire dagli elementi legislativi, culturali, comportamentali ecc.) che sono assunti o addirittura ‘naturalizzati’ (naturalised) 50, riproducendo e alimentando forme di discriminazione. La povertà, le politiche educative e sociali disabilitanti, le barriere architettonico-comunicative, gli atteggiamenti sociali rientrano tra le condizioni discriminanti che producono l’esclusione dalla cittadinanza attiva e causano quello che Oliver definisce il fenomeno della dipendenza:
“Neither have sought to examine the concept of dependance critically and to suggest that the dichotomy dipendence/indipendence is a false one; nor have they drawn on the growing body of work by disabled people themselves which has sought to suggest that disability, and hence dependency, is not an intrinsic feature of their impairments but is socially created by a disabling and disablist society” 51.
Uno degli aspetti maggiormente messi in evidenza dallo studioso è l’appiattimento dell’identità della persona disabile sulla sua condizione patologica, con la conseguenza che la disabilità viene concepita come una mancanza (funzionale) che deve essere compensata per fare in modo che l’individuo trascorra una vita che possa dirsi normale.
50 M. Oliver, Ibidem
51 Citazione in lingua originale, la traduzione è della scrivente: “Nessuno ha cercato di esaminare criticamente il concetto di dipendenza e di suggerire che la dicotomia dipendenza/ indipendenza sia un falso problema; non hanno nemmeno richiamato il lavoro crescente fatto dalle stesse persone disabili nel cercare di suggerire che la disabilità, e quindi la dipendenza, non è un’immagine intrinseca delle loro menomazioni, ma è creata socialmente da una società disabilitante”. M. Oliver, The Politics of Disablement, op.cit., p. 87.
La critica viene chiaramente mossa nei confronti del modello medico e della sua visione dicotomica della realtà adottata da quest’ultimo, nella quale disabilità e normalità sono condizioni che si escludono a vicenda. Tale visione non prende in considerazione altre situazioni oltre a quelle fisiologiche e biologiche che hanno potuto e possono determinare la condizione di disabilità di un individuo; e, proprio con riferimento a tale principio, i Disability Studies indicano la disabilità come una forma di oppressione sociale, ponendo in rilievo la distinzione tra menomazione/deficit fisico e condizione sociale.
Resta in ogni caso importante il fatto che il modello sociale della disabilità non disconosce del tutto quello medico, tenendo conto dell’importante contributo che le scienze mediche comunque possono dare. In effetti, ciò che non viene accettato è la percezione acquisita e la tendenza a rendere prevalente il trattamento della disabilità da parte dei medici (persone che non sono in grado di valutare, ad esempio, questioni che riguardando l’educazione, la struttura delle abitazioni ecc.), con la conseguente esclusione di altre soluzioni.
Percezione che spinge Mike Oliver, negando il principio di normalizzazione come base teorica o come ragione della propria esistenza, a concettualizzare i modelli della disabilità sulla distinzione binaria tra ciò che l’autore definisce come il modello individuale e il modello sociale della disabilità 52. Una proposta che rappresentava l’evoluzione delle elaborazioni prodotte dallo UPIAS alla fine degli anni ‘70 in una pubblicazione che, secondo l’autore, ha forgiato la comprensione della disabilità, distinguendola dalla menomazione.
A sostegno di tali considerazioni, lo stesso Oliver trascrive alcuni passaggi centrali nel testo pubblicato dallo UPIAS:
“L’Unione sostiene che, lungi dall’essere troppo attenti alle cause della disabilità, gli esperti del campo non si sono mai occupati delle cause reali. Il fatto che ritengano di rivolgersi alle cause mentre si concentrano
sugli effetti, confondendo disabilità e menomazione, motiva l’imperativo delle persone disabili a diventare gli esperti di se stessi [...]. La disabilità è qualcosa di imposto alle nostre menomazioni attraverso il modo in cui siamo, senza necessità, isolati e esclusi dalla piena partecipazione alla vita sociale. Le persone disabili sono pertanto un gruppo sociale oppresso. Per comprendere ciò è necessario afferrare la distinzione tra menomazione e situazione sociale, chiamata “disabilità”, che le persone con menomazioni vivono [...]. La disabilità fisica è quindi una forma di oppressione sociale” 53. Parlare di oppressione sociale e di promozione del cambiamento della società mette, così, in rilievo alcune delle argomentazioni proprie della battaglia politica.
Il processo di empowerment costituisce pertanto un processo collettivo di trasformazione in cui coloro che vengono solitamente esclusi si riconoscono parte di una di una vera e propria lotta per resistere all’oppressione, per affermare le proprie opinioni e per far sì che il diritto all’inclusione sociale venga riconosciuto. La componente politica e la condivisione di principi da parte di più individui è, non a caso, parte integrante dei Disability Studies e caratterizza il movimento e l’intera disciplina.