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L’ART.27 del Patto sui diritti civili e politic

EXCURSUS STORICO SULLA TUTELA SOVRANAZIONALE DELLE MINORANZE.

5. La protezione internazionale nel sistema ONU.

5.1 L’ART.27 del Patto sui diritti civili e politic

L’art. 27 cosi recita :“In quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo”.

Il citato articolo rappresenta ad oggi l’unica norma a tutela specifica delle minoranze contenuta in un testo internazionale a carattere obbligatorio.

L’essere stato inserito nel contesto del patto sui diritti civili e politici dimostra la necessità di prevedere misure speciali di protezione che non siano limitate al divieto di discriminazione e al godimento dei diritti umani fondamentali, ma piuttosto pongano i loro membri in una condizione di eguaglianza sostanziale con il resto della popolazione.

La formulazione dell’art.27 suscitò sin dall’inizio problemi di interpretazione a causa della genericità delle sue formule che facevano apparire ambigua la protezione da riconoscere alle minoranze sia sotto il profilo del contenuto dei diritti riconosciuti, sia in relazione ai soggetti cui

tale protezione doveva essere ricondotta.110

Per superare tale impasse la sottocommissione in materia di minoranze elaborò un rapporto finale dal titolo “ Studio sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze etniche, religiose, e linguistiche”.

Tale rapporto adottato nel 1977 , ben undici anni dopo l’adozione del Patto, è considerato il principale contributo nel dibattito sull’interpretazione da fornire dell’art.27.

L’analisi sistematica di tale articolo verrà condotta esaminando le questioni problematiche ad esso sottese.

La prima attiene alla necessità di considerare o meno il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di una minoranza quel condizione indispensabile per l’applicabilità del citato articolo.

Dalla frase di esordio “ Negli stati in cui esistono minoranze etniche , religiose o linguistiche” si evince che ex art.27 si esclude che il riconoscimento o no di una minoranza, sul piano dell’ordinamento dello Stato potesse apparire una condizione per attribuire ai membri della minoranza stessa determinati diritti.

Si assunse pertanto a fondamento di questi diritti la sola circostanza che certi tipi di minoranza esistono, accogliendo un impostazione basata su una realtà fattuale piuttosto che giuridica che implicasse un riconoscimento statuale.

Un dettato del genere risulta piuttosto incisivo, perché priva quegli stati riluttanti a forme di tutela che prevedano anche il pluralismo istituzionale –

110 F.CAPOTORTI, “I diritti dei membri delle minoranze: verso una dichiarazione delle nazioni

come la Francia, tra quelli democratici – della facoltà di negare l’esistenza di gruppi minoritari sul suo territorio.

Ad avviso del relatore speciale Capotorti l’esistenza di una minoranza deve essere stabilita sulla base di criteri obiettivi, e se è vero che su alcuni di questi criteri le opinioni sono differenti, non si può in nessun caso sostituire un approccio obiettivo con un altro soggettivo, che implica, cioè che lo stato interessato abbia un potere discrezionale in materia.

Tuttavia aggiunge che non si può disconoscere il valore del riconoscimento della minoranza da parte dello Stato in cui vive in quanto ciò migliorerebbe la situazione del gruppo minoritario facilitando l’applicazione dei principi contenuti nell’art.27.

Altro aspetto problematico che è emerso dall’analisi della disposizione concerne l a titolarità dei diritti in esso contemplati.

Fondandosi sull’inciso “ persone appartenenti alle minoranze” la maggioranza della dottrina ritiene che la norma istituisce diritti individuali e non diritti collettivi e che pertanto i titolari sarebbero quindi i vari componenti del gruppo e non questo in quanto tale.

A sostegno di tale interpretazione sono state invocate ragioni di carattere giuridico e politico.

Con riferimento alle prime si è affermato che l’attribuzione di diritti solo ai membri del gruppo era necessaria per mantenere la coerenza del Patto volto alla tutela dei diritti individuali con la sola eccezione del diritto di autodeterminazione dei popoli, contenuto nell’art.1. che proclama, come è noto un diritto di natura collettiva.

Per ciò che concerne le ragioni di natura politica si è messo in luce il timore degli stati che l’attribuzione di diritti ai gruppi in quanto tale avrebbe potuto incoraggiare le aspirazioni autonomistiche e secessionistiche delle minoranze nei confronti e in contrapposizione all’autorità statali.

I diritti come tali sembrano essere riconosciuti agli individui, anche alla luce della precedente giurisprudenza dell’organizzazione, e specialmente dell’impiego dell’espressione “individui appartenenti a minoranze ...”; ma implica che le misure di tutela debbano avere un carattere collettivo, quando, ad esempio, menziona la cultura, la lingua, il credo religioso, che

sottintendono l’adozione di misure “sovraindividuali”111.

Pur negando il riconoscimento di diritti collettivi la norma prevede la possibilità di un esercizio collettivo dei diritti di matrice individuale laddove dispone che i diritti dei membri delle minoranze sono da esercitarsi “in comune con gli altri membri del gruppo”.

Da tale inciso emerge che alla base dei diritti riconosciuti vi è comunque l’interesse della collettività da dovere tutelare.

La formulazione della norma tende invero a valorizzare la dimensione collettiva entro cui i diritti vanno esercitati, per cui i beneficiari della protezione risultano essere gli individui qualificati dalla loro appartenenza ad un gruppo minoritario e non gli individui in quanto tali.

Nonostante quindi la veste dei diritti sia di natura individuale, si sottolinea come la precondizione per l’attribuzione di tali diritti sia

l’esistenza del gruppo stesso.112

La connessione tra l’aspetto individuale della tutela e quello collettivo è evidenziata dalla giurisprudenza del comitato dei diritti dell’uomo il quale ha più volte ribadito nelle sue decisioni che la protezione dei diritti previsti dall’art.27 è diretta ad assicurare la sopravvivenza ed il continuo sviluppo dell’identità culturale, religiosa e linguistica delle minoranze interessate, arricchendo in tal modo la costruzione della società nel suo insieme.

111A. FOIS, “Autonomie, minoranze, nazionalismi, Unione Europea” , in Comuni d’Europa,

1992, p.120.

112 R.WEBER, “Individual rights and group rights in the European’s union approach to minority

I diritti garantiti attengono a tre particolari categorie: il diritto di avere una vita culturale propria, il diritto di professare e praticare una religione, il diritto di impiegare la propria lingua.

L’assenza di qualsiasi altra specificazione consente da un lato una certa flessibilità nei confronti delle misure da adottare che possono essere adattate alle specifiche circostanze di ogni caso concreto, ma dall’altro lasciando troppa discrezionalità agli stati mette in pericolo la situazione delle minoranze a causa della loro debole posizione nella società.

Una visione restrittiva della protezione delle minoranze sembra emergere dalla formulazione negativa che si rinviene nell’art.27 nella frase “ non possono essere private del diritto”.

Tale formulazione negativa non trova rispondenza in altri articoli del patto in cui si riscontra abitualmente la versione positiva “ognuno ha il diritto”.

Il significato di questa differenza di linguaggio ha portato parte della dottrina a giungere alla conclusione che sullo Stato incombano solo doveri negativi di astensione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle minoranze ma che le minoranze non avrebbero alcun diritto di esigere che lo Stato adotti misure positive.

Altri invece suggeriscono un’interpretazione sistematica della previsione che conduca ad una visione più positiva volta ad una protezione delle minoranze non ferma al principio della non discriminazione ma diretta alla previsione di misure speciali che possono assicurare il raggiungimento di un’eguaglianza effettiva tra i componenti del gruppo minoritario e il resto della popolazione.

Solo se lo stato non si limita ad un non facere ma si obbliga a realizzare misure concrete a favore delle minoranze, l’idea della protezione internazionale acquista pienezza di contenuto e si rivela coerente con le

altre ipotesi in cui il sistema di protezione dei diritti dell’uomo si serve della forza dello Stato per compensare la debolezza dei privati.