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L’Italia è stato uno dei primi Paesi in Europa a depenalizzare le condotte omosessuali. Infatti, già alcuni Regni dell’Italia prima dell’unificazione, avevano eliminato dai propri codici civili le disposizioni che sanzionavano le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso, mantenendo la condanna solo in base all’età delle persone che tenevano determinati comportamenti sessuali. All’indomani dell’unificazione, fu esteso a tutto il territorio il codice sardo che, invece, continuava a condannare le relazioni tra persone dello stesso sesso mentre con il codice Zanardelli del 1889 furono definitivamente (con l’esclusione del periodo fascista, di cui si è già parlato nel primo capitolo) depenalizzati tali rapporti.

Nel nostro ordinamento giuridico, il principio del divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale è principio inderogabile in quanto trova il suo ancoraggio nell’art. 3 Cost. Tuttavia, in Italia, i vari progetti di legge volti a proteggere in modo esplicito le persone omosessuali (ed in generale LGBT) da discriminazioni, violenze e molestie, sono sempre rimasti in una fase di dibattito e formulazione senza trovare approvazione ed attuazione. Per tali motivi, l’attuazione della Direttiva 2000/78/CE, mediante decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003, ha assunto grande rilevanza dal momento che, per la prima volta, il legislatore italiano ha riconosciuto il divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale. Come è stato osservato, seppure con i limiti derivanti dall’ambito di applicazione, circoscritto all’occupazione e alle condizioni di lavoro, costituisce una pietra miliare nel riconoscimento e nella tutela dei diritti civili delle persone gay, lesbiche e bisessuali, in quanto rompe quel silenzio

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durato oltre un secolo e introduce una disciplina sostanziale per la lotta alle discriminazioni 252.

Il decreto legislativo n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, all’art. 1 definisce l’oggetto del provvedimento, riprendendo l’obiettivo contemplato all’art. 1, della direttiva europea, con l’unica differenza dell’utilizzo dell’espressione ‘orientamento sessuale’ invece di ‘tendenze sessuali’ che, come si è già rilevato, nel nostro ordinamento è stato oggetto di ampio dibattito. Per quanto concerne la nozione di discriminazione, l’art. 2 del d.lgs. riproduce in modo pressoché identico il contenuto testuale della direttiva.

A tal seguito, consapevoli di non poter effettuare un’analisi completa del decreto legislativo n. 216 del 2003, pare opportuno concentrare l’attenzione sugli aspetti che hanno sollevato perplessità e incertezze sulla corretta e conforme attuazione nel nostro ordinamento della direttiva europea. Innanzitutto, si osserva che all’art. 4 in cui si disciplinano i casi di tutela giurisdizionale, si estende il divieto di atti discriminatori di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori ai casi di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e sulle altre caratteristiche oggetto del decreto. Per cui l’azione giudiziale contro gli atti di discriminazione è quella prevista dall’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il testo unico sull’immigrazione. A tal proposito, si evidenzia che il legislatore italiano ha effettuato una scelta non indirizzata agli strumenti di tutela previsti per la parità di trattamento in base al sesso, ma a quelli in parte rivisti con riguardo al risarcimento del danno e alla rimozione degli effetti della discriminazione, di cui alle disposizioni già in vigore contro la discriminazione razziale ed etnica che, come osservato in dottrina253, risultano meno efficaci.

252 In tal senso si veda, S. Fabeni, “L’Italia delle omofobie. Postfazione”, in D. Borrillo, Omofobia, storia e critica di un pregiudizio… cit., p. 130.

253

Cfr. S. Fabeni, “Norme discriminatorie e il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216: le opportunità mancate e le prospettive per una riforma”, in La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale,

l’attuazione della direttiva 2000/78/CE e la nuova disciplina per la protezione dei diritti delle persone omosessuali sul posto di lavoro, S. Fabeni-M. G. Toniollo (a cura di), prefazione di G. Epifani, Ediesse,

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In linee essenziali si rileva che l’art. 4 comma 3, introduce la procedura di conciliazione a cui fa anche riferimento la direttiva europea all’art. 11. Nell’ambito dell’analisi delle disposizioni concernenti la tutela giurisdizionale dei diritti, si rileva tra gli aspetti più problematici, quello concernente le disposizioni sull’onere della prova, che, ai sensi dell’art. 4, comma 4, prevede che sia il ricorrente, ovvero la vittima della discriminazione a dover dimostrare la sussistenza del comportamento discriminatorio. Tale disposizione del d.lgs. del 2003, pare essere incompatibile con la direttiva 2000/78/CE; tuttavia, in fase di valutazione della proposta parlamentare, il Governo italiano ha in più circostanze difeso la scelta operata sostenendone la conformità con la disciplina sull’onere della prova già in vigore.

Altresì, deve richiamarsi l’ambito di applicazione contemplato all’art. 3 (d.l n. 216 del 9 luglio 2003), dal momento che seppure in linee generali appaia in ottemperanza alla normativa dell’UE, in realtà al comma 3 ne è stato ribaltato parzialmente il senso, poiché sono state introdotte per la prima volta nell’ordinamento italiano alcune eccezioni, riguardanti il personale delle forze armate e di quelle di polizia e dei servizi di soccorso, stabilendo casi in cui era lecito discriminare sul lavoro le persone omosessuali. Così, in seguito a procedura d’infrazione avviata contro l’Italia dalla Commissione europea, tali eccezioni sono state abolite dall’art. 8-septies del decreto legge n. 59 dell’8 aprile, convertito con modificazioni nella legge n. 101 del 6 giugno 2008.

Deve, comunque osservarsi che l’art. 3, del decreto legge in commento, ampiamente dibattuto in sede di redazione, presenta ulteriori formulazioni che meritano di essere ricordate. Si fa soprattutto riferimento al comma 6, in cui si dispone che “non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 le differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile”; alcuni autori254 osservano che

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non è ben chiaro se il legislatore abbia ritenuto di poter ricomprendere comportamenti sessuali come la pedofilia nell’orientamento sessuale, ed in tal caso la previsione risulterebbe completamente lontana dallo ‘spirito’ e dagli obiettivi che hanno caratterizzato la Direttiva 200/78/CE, poiché la pedofilia non è considerata un orientamento sessuale come espressamente indicato nella relazione di accompagnamento della Direttiva stessa; oppure il legislatore ha inteso strumentalmente porre l’accento sul fenomeno della pedofilia quasi a voler confondere orientamento (omo)sessuale e pedofilia. In entrambe le ipotesi tale misura alimenta la differenza nei confronti delle persone omosessuali piuttosto che combattere le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale

In conclusione, si rileva che ad oggi, a differenza degli altri Paesi europei, non è stato ancora registrato un solo caso giudiziario in cui sia stata invocata la disciplina antidiscriminatoria fondata sull’orientamento sessuale nell’ambito lavorativo. Potrebbe dedursene che l’Italia in tale settore risulta particolarmente sensibile e rispettosa dell’orientamento sessuale di ciascun individuo; oppure, l’assenza di misure finalizzate al monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, di codici di comportamento, di contratti collettivi, etc. non consente di dare concreta attuazione all’importante Direttiva comunitaria?

113 Capitolo IV

Il riconoscimento giuridico delle relazioni ‘affettive’ fra persone dello stesso sesso: nelle esperienze nazionali ed in specie nell’ordinamento italiano

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