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L’effettività del provvedimento e il giudizio di ottemperanza

Il reclamo al magistrato di sorveglianza

3.2. Il nuovo reclamo giurisdizionale

3.2.6. L’effettività del provvedimento e il giudizio di ottemperanza

L’ineffettività sostanziale della tutela riconosciuta dai precedenti strumenti giuridici messi a disposizione dalla magistratura di sorveglianza aveva portato alla creazione di quei fenomeni di ineffettività della tutela che rappresentavano la negazione del concetto stesso di giurisdizione. Questo fenomeno ha spinto il legislatore del 2014 , sul presupposto del carattere vincolante del 228

provvedimento del giudice, ad affrontare dalla radice il problema della sua mancata esecuzione, prendendo in considerazione una procedura derivante dal processo amministrativo ed affidandola al medesimo giudice che ha emanato il provvedimento, il quale può ordinare all’amministrazione, in caso di prolungata inerzia, di ottemperare al fine di dare esecuzione al provvedimento. Il legislatore con la novella riforma ha previsto una speciale 229

procedura di esecuzione coattiva del dictum giudiziale, nel caso di 230

inottemperanza dell’amministrazione, affidandolo allo stesso giudice

Questo nuovo strumento rappresenta il tentativo di realizzare “un 228

contemperamento tra l’esigenza di tutela del diritto della persona detenuta, inciso in maniera sfavorevole dall’amministrazione, e l’irrinunciabile esigenza di riservare all’apprezzamento dell’autorità amministrativa l’opzione preferibile per risolvere la criticità evidenziata dal reclamo.” FIORENTIN, Decreto svuotacarceri, Milano, 2014.

L’introduzione di questa speciale procedura esecutiva nasce al fine di rispettare 229

le indicazioni della sentenza Toreggiani, la quale si sofferma sull’esigenza di creare un sistema di rimedi effettivi di cui l’Italia avrebbe dovuto dotarsi per evitare un’ulteriore condanna per trattamento disumano dei propri detenuti.

Art. 35-bis, commi V, VI, VII,VIII, ord. penit. 230

che ha emesso il provvedimento. Da notare la grande novità dello strumento in esame, sia riguardo allo schema tipico del giudizio di ottemperanza, di tradizione affidato al giudice amministrativo, sia riguardo al tipo di funzioni attribuite alla magistratura di sorveglianza. Certamente, in favore della competenza assegnata al 231

magistrato di sorveglianza , ha pesato la considerazione che 232

quest’ultimo possa in maniera più efficace adottare le disposizioni necessarie per garantire l’effettività delle prescrizioni dettate con il proprio provvedimento, anche in relazione al ruolo di vigilanza sugli istituti di pena a tale organo istituzionalmente attribuito. Da considerare, inoltre, l’intrinseca debolezza del soggetto detenuto rispetto al quale l’ottemperanza allo stesso giudice è sembrata una procedura più accessibile, anche in termini di costi della difesa tecnica, rispetto ad una procedura davanti al giudice amministrativo. Quindi in caso di mancata esecuzione del provvedimento <<non più soggetto ad impugnazione>> l’interessato o il suo difensore tramite procura speciale possono richiedere <<l’ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento>> . Il 233

Secondo alcuni le ragioni che hanno spinto il legislatore ,ad affidare lo 231

strumento di ottemperanza al magistrato di sorveglianza, anziché al giudice amministrativo, sarebbero di natura sistematica. Mentre per altri sembra eccentrica tale attribuzione, visto che verrebbe a generarsi una disparità di trattamento rispetto alle altre amministrazioni pubbliche. FIORENTIN, Decreto svuotacarceri , Milano, 2014.

Magistrato di sorveglianza è il giudice “naturale” di tutte le questioni 232

riguardanti i diritti del detenuto lesi da atti o comportamenti dell’amministrazione. Art. 35-bis, comma V, ord. penit.

procedimento di ottemperanza viene regolato dal richiamo alle 234

disposizioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., quindi tramite lo schema procedimentale già previsto per il reclamo. Nonostante il legislatore penitenziario abbia ricavato quasi per intero la disciplina dell’ottemperanza dal processo amministrativo, non ha previsto la possibilità di procedere all’esecuzione coattiva del provvedimento anche prima della sua definitività. Il provvedimento del magistrato di sorveglianza nonostante sia già esecutivo ex lege ai sensi dell’art. 666, comma VII, c.p.p., per adire l’ottemperanza il detenuto sarà costretto ad ottenere la definizione di tutti i gradi di giudizio (doppio grado di merito e giudizio di legittimità) è necessario quindi il formarsi del giudicato . La necessità di ottenere il giudicato per 235

adire l’ottemperanza rischia una vanificazione della tutela preventiva, che invece presuppone celerità ed immediatezza degli

Tradizionalmente il giudizio di ottemperanza nasce con lo scopo di completare 234

il sistema di giustizia previsto dagli art. 4 e 5 l. 1865/2248, e come punto di cognizione tra il giudice ordinario e amministrazione. Rappresentava uno strumento volto ad garantire la coercibilità dell’obbligo imposto all’amministrazione di eseguire il giudicato del giudice ordinario. In base alla rigida separazione dei poteri, l’atto illegittimo poteva solo essere disapplicato dal giudice, e quanto all’obbligo giuridico di ottemperare al giudicato, si confidava nel senso di di giustizia dell’amministrazione. Si reputò ammissibile formare un nuovo tipo di rapporto tra il giudice e la pubblica amministrazione, dove il primo si inserisce per ben due volte nell’attività amministrativa, visto che non solo ordina all’amministrazione di assumere un certo comportamento, ma vigila anche l’adempimento da parte della stessa, ed in caso di inadempimento si sostituisce ad essa. In tal modo si inserì per la prima volta nel 1971 con la legge istituiva del t.a.r , il giudizio di ottemperanza, ma solo in seguito si è disciplinato in maniera organica il processo di ottemperanza, collocandolo nel Titoli I del libro IV d.lgs. 2 luglio 2010, n.104, denominato codice del processo amministrativo.

Sent. Corte Cost. 1988/406 “la limitazione di tutela davanti al giudice 235

dell’ottemperanza alle sole sentenze passate in giudicato è una scelta discrezionale del legislatore, non essendo ricavabile dal dettato costituzionale un principio che obblighi ad estendere il sistema dell’ottemperanza anche ai titoli esecutivi diversi dalle sentenze definitive.”

interventi confermativi e ripristinatori. Anche la dottrina maggioritaria si è espressa nello stesso senso. Per quanto concerne 236

la natura giuridica del giudizio di ottemperanza la giurisprudenza amministrativa ha affermato la natura mista di esecuzione e di cognizione del procedimento, visto che lo stesso è diretto ad arricchire, pur rimanendo condizionato, il contenuto vincolante del provvedimento, ma costituendo tuttavia la prosecuzione del giudizio di merito.

Il magistrato di sorveglianza, in esito al procedimento:

a) ordina l’ottemperanza alla propria decisone indicando modalità e tempi di adempimento. Bisogna considerare la natura perentoria del termine assegnato dal giudice dell’ottemperanza all’amministrazione per l’esecuzione del provvedimento, r a p p r e s e n t a n d o l ’ u l t i m o t e n t a t i v o p e r c o n s e n t i r e all’amministrazione di adeguarsi al giudicato. Decorso tale termine, il potere di attuare il giudicato viene esercitato direttamente dal giudice o per il tramite del commissario ad acta. Questo non significa che gli atti posti in essere dalla pubblica amministrazione dopo la scadenza del termine, siano da considerarsi nulli, ma il giudice può tenerne conto integrandoli o modificandoli. Per quanto riguarda le modalità il giudice deve

SASSANI, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa 236

e tutela civile esecutiva, Milano, 1997, pag. 176. CAIANIELLO, Esecuzione delle sentenze nei confronti della pubblica amministrazione, pag. 603.

tenere conto <<del programma attuativo predisposto dall’amministrazione al fine di dare esecuzione al provvedimento, sempre che tale programma sia compatibile con il 237

soddisfacimento del diritto>> 238; non viene previsto nulla nel caso di ommessa presentazione del programma, ma si ritiene che il giudice possa ugualmente procedere all’ottemperanza, indicando delle modalità esecutive;

b) dichiara nulli gli eventuali atti, posti in essere dall’amministrazione, in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito (di conseguenza si va da escludere l’ipotesi di inesatta esecuzione del medesimo);

c) nomina, ove occorra, un commissario ad acta; quest’ultima figura è mutuata dal processo amministrativo, si qualifica come un ausiliario del giudice e non come un organo dell’amministrazione. Di conseguenza il commissario è privo di piena autonomia decisoria. Essendo il giudizio di ottemperanza esteso anche al merito, il commissario può sostituirsi agli organi dell’amministrazione nella valutazione e nel compito di scegliere tra le varie soluzione loro proprie, ma l’ambito dei sui poteri rimane delimitato dal giudicato e dal provvedimento di

Questo programma non può avere alcuna efficacia vincolante per il giudice che, 237

anzi, potrebbe considerarlo per nulla compatibile con la tutela del diritto leso.

Art. 35-bis, comma VI, lett. a, ord. penit. 238

ottemperanza che lo interpreta. Gli atti posti in essere dal commissario non hanno natura amministrativa, bensì giurisdizionale e sono reclamabili, senza formalità, davanti allo stesso giudice dell’ottemperanza. Questo si deduce dalla 239

disposizione prevista dall’art. 35-bis, comma VII, ord. penit., laddove si prevede che il <<il magistrato di sorveglianza è altresì competente in relazione a tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi compresi quelle inerenti agli atti del commissario ad acta>>. Di conseguenza al giudice dell’ottemperanza spetta la verifica della rispondenza degli atti del commissario alle proprie indicazioni, questo comporta il riconoscimento al commissario ad acta della qualità di organo giurisdizionale e ai sui provvedimenti quella di atti giurisdizionali.

La nuova disciplina rappresenta un tentativo di ottenere un contemperamento tra l’esigenza di tutela del diritto della persona detenuta, inciso in maniera sfavorevole dall’amministrazione, e l’esigenza irrinunciabile di riservare alla valutazione dell’autorità amministrativa l’alternativa preferibile per risolvere la criticità

La giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che il commissario deriva 239

i suoi poteri non dall’amministrazione, ma una delega derivante dal giudice dell’ottemperanza, sicché, essendo un ausiliario del giudice, nell’attuare il proprio compito non deve perseguire l’interesse dell’amministrazione inadempiente ma è tenuto a tutelare l’interesse del singolo. (In questo senso: C. civile 18-9-2009, n. 20105).

evidenziata dal reclamo. In questa prospettiva, lo strumento del piano attuativo può portare ad equilibrare il profilo di una decisione presa sul singolo caso lamentata dal detenuto e l’apprezzamento dell’interesse pubblico generale che solo l’amministrazione interessata può gestire in maniera più efficace.

L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede la possibilità di ricorre in Cassazione, per violazione di legge, avverso il provvedimento emesso in sede di ottemperanza. In assenza di specificazione normativa, ragioni di coerenza sistematica impongono di ritenere anche in questo caso che il termine per poter presentare ricorso in Cassazione, avverso la decisione del magistrato di sorveglianza, giudice dell’ottemperanza, sia quello di quindici giorni, previsto nello stesso modo dal comma IV, dello stesso articolo. Il contenuto dell’ordinanza che chiude il procedimento di ottemperanza lascia alcuni dubbi applicativi. Non è chiaro, ad esempio, quali siano gli strumenti messi a disposizione del detenuto per interloquire, nel caso in cui l’amministrazione o il commissario

ad acta adottino provvedimenti in violazione od elusione del diritto

nel corso dell’esecuzione del provvedimento . Non viene 240

espressamente disciplinata, inoltre, l’ipotesi in cui l’amministrazione

L’unica soluzione ripercorribile sembrerebbe, per il detenuto, quella di ricorrere 240

al giudice dell’ottemperanza tramite il coordinato disposto dal VII e VIII commi, della medesima disposizione di legge, che tuttavia non viene previsto che il magistrato adito possa procedere ad annullare gli atti amministrativi in questione.

convenuta non produca il programma attuativo previsto dal comma VI dell’art. in esame. L’unica soluzione praticabile sembra essere quella di ricorrere al VII comma, della stessa disposizione, con la possibilità di chiedere la nomina di un commissario ad acta al magistrato di sorveglianza, incaricandolo della predisposizione del programma attuativo e della sua dettagliata esecuzione. Da questa dettagliata disamina della norma si può facilmente dedurre che il legislatore penitenziario ha fornito solo rimedi giurisdizionali effettivi di carattere “preventivo”, idoneo cioè ad accertare e far c e s s a r e l a l e s i o n e d e l d i r i t t o d e l d e t e n u t o i n c i s o dall’amministrazione, ma non ha previsto un rimedio giurisdizionale di carattere “compensativo” , di natura propriamente risarcitoria 241

relativamente al danno subito dal detenuto, causato o dal provvedimento di irrogazione di una sanzione ingiusta o da una violazione di una disposizione prevista dalle legge e dal regolamento, la quale ha causato un grave pregiudizio all’esercizio dei diritti del detenuto. Questa lacuna rilevata rappresenta una criticità del sistema attuale. La previsione di un rimedio compensativo rimane il passo

In sede di conversione del d.l. 146/2013, è stata soppressa la lett. c, comma V, 241

art.35-bis, ord. penti., la quale aveva introdotto un risarcimento equitativo: <<se non sussistono ragioni ostative, determina, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno. La statuizione costituisce titolo esecutivo>>.

ancora da effettuare per attribuire al sistema l’equilibrio e la coerenza che ancora sembrano mancare.

Appendice

Per la stesura della tesi è stato molto utile il confronto con alcuni detenuti, in quanto si può constatare dalle loro dichiarazioni l’utilizzo sovrabbondante dell’irrogazione delle sanzioni, previste dalla legge p e n i t e n z i a r i a e d a l r e l a t i v o r e g o l a m e n t o , d a p a r t e dell’amministrazione penitenziaria nei confronti dei detenuti e degli internati, all’interno degli istituti di pena. Alcune di queste risulterebbero eccessive, a detta loro, rispetto alle infrazioni commesse. Nonostante il legislatore offra lo strumento del reclamo per ottenere una tutela giurisdizionale, i detenuti molto raramente ne usufruiscono. Purtroppo, prima della riforma questo strumento era ritenuto poco efficiente e per questo i detenuti erano restii ad utilizzarlo; oggi, invece la legge n.10/2014 ha modificato l’art. 69 ord. penit, non solo introducendo il nuovo reclamo giurisdizionale, ma ha previsto, un’ulteriore importante novità, nell’ultima parte della lett. a, comma VI, in quanto prevede che il reclamo al magistrato di sorveglianza, avente ad oggetto un provvedimento disciplinare, consente a quest’ultimo di valutare <<anche il merito dei provvedimenti adottati>>, seppure limitatamente alle sanzioni più gravi. Dall’incontro con un magistrato di sorveglianza è emerso che tale intervento rappresenta un salto di qualità, visto che assicura una più piena protezione dei detenuti in questo ambito, ma conferma che

anche dopo la riforma il numero dei reclami aventi ad oggetto un provvedimento disciplinare rimane basso, e attualmente non gli sono pervenuti reclami aventi ad oggetto una delle sanzioni disciplinari previste dal n. 4 e 5, comma I, art. 39 ord. penit. Ciononostante il potere del magistrato di sorveglianza, su tali provvedimenti, risulta molto ampio ed efficace rispetto alla vecchia disciplina che limitava la tutela giurisdizionale solo ai profili di legittimità. Si teme che questa modifica potrebbe spingere l’amministrazione penitenziaria, per evitare il più penetrante sindacato sul merito del magistrato di sorveglianza, a preferire l’irrogazione di una sanzione meno grave, la quale continua ad essere valutata esattamente come accadeva prima della riforma, limitando il sindacato al solo profilo di legittimità. Non si può non riportare la valutazione positiva sul nuovo reclamo giurisdizionale, che anche in ambito disciplinare offre un’importante novità sotto il profilo delle garanzie a livello procedurale in quanto offre un rimedio giurisdizionale effettivo. Vengono evidenziate delle criticità sulla effettività della tutela di questo nuovo strumento: solo al termine dei tre gradi di giudizio sarà possibile l’eventuale esecuzione coattiva della decisione giudiziale, quindi la richiesta di ottemperanza del provvedimento al magistrato di sorveglianza che lo ha emanato. Questo sembra comportare il rischio concreto che la

dilatazione dei tempi di decisione abbia come conseguenza la vanificazione pratica del pronunciamento del giudice.

Conclusioni

Le carenze all’interno del nostro sistema penitenziario sono numerose e variegate, inoltre rimangono nascosti aspetti altrettanto importanti che colpiscono la vita dei detenuti ed internati, come ad esempio questo inerente al regime disciplinare e alle conseguenti sanzioni irrogate. Si va incontro al pericolo di lasciare in ombra altre criticità del nostro sistema penitenziario. All’interno degli istituti penitenziari la disciplina e l’ordine devono essere garantiti non solo per motivi di sicurezza, ma anche nell’interesse degli obiettivi di trattamento. Il regime disciplinare deve concorrere all’opera di trattamento, affinché lo stesso non debba essere visto in funzione repressiva, bensì come stimolo per i detenuti e gli internati ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del loro comportamento. Tale obiettivo risulta non facilmente raggiungibile, visto che continua ad essere considerato dai detenuti come uno strumento esclusivamente repressivo ed afflittivo. Questo regime dovrebbe assumere innanzitutto carattere pedagogico, in quanto sanzione disciplinare, escludendo, quindi, il carattere repressivo della stessa.

Il regime disciplinare sembrerebbe porsi, anche <<come uno dei banchi di prova cui ricorre per verificare il fine rieducativo>>. Sennonché questa finalità non viene rispettata nella previsione delle infrazioni disciplinari, infatti, pur essendo previsti i principi di legalità e di tassatività dei fatti costituenti infrazioni, per scongiurare possibili decisioni arbitrarie del potere amministrativo, i principi risultano depotenziati nella loro portata garantistica. Il rinvio al regolamento di esecuzione quale sede di individuazione dei fatti espressamente previsti come infrazioni, comporta che il principio di legalità si risolva in riserva di regolamento, anziché di legge, con tutte le minori garanzie che derivano da tale fonte secondaria. La genericità dei contorni e l’ampiezza delle infrazioni previste dall’art. 77 reg. esec., inoltre, pregiudica anche la garanzia della tipizzazione, dal momento che ad ogni fattispecie possono attribuirsi numerose condotte e questa caratteristica fa si che la fattispecie sia ricompresa tra quelle che vengono accusate maggiormente di possedere un difetto di determinatezza. Le infrazioni disciplinari sono indicative dello stato di sofferenza del detenuto derivante dalla segregazione. La loro scarsa significatività “sul piano della rispondenza alle offerte di trattamento” rappresenta una conferma che le punizioni a differenza delle ricompense, svolgono un ruolo strumentale alle esigenze del carcere. La previsione delle sanzioni disciplinari

rappresenta l’unico ambito del regime disciplinare in cui il principio di legalità trova piena attuazione attraverso la riserva di legge, infatti, l’art. 39 dell’ord. penit., descrive tassativamente la tipologia delle punizioni.

Le sanzioni disciplinari, solo formalmente tendono a realizzare le finalità di trattamento, quindi risulta difficile sposare la tesi di coloro i quali ritengono che la loro natura sia più pedagogica che repressiva. Nonostante nel sistema sanzionatorio si siano evitati eccessi di rigore, le punizioni conservano un carattere eminentemente afflittivo e la loro trasformazione in mezzi di trattamento rappresenta più una proclamazione di principio che una realtà. La finalità preminente di tutte le sanzioni rimane quella di garantire l’ordine all’interno degli istituti di pena.

Dalla disamina delle varie sanzioni, inoltre, si evince l’eccessivo rigore di alcune di esse, come quella dell’isolamento durante la permanenza all’aria aperta e l’esclusione delle attività in comune. L’applicazione di quest’ultima sanzione presenta sia carattere afflittivo sia punitivo. Il sistema normativo, inoltre, non appare conforme al principio costituzionale, che vieta qualsiasi forma di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria, infatti, in ossequio al principio della riserva di giurisdizione, tale sanzione andrebbe applicata solo per atto

motivato dell’autorità giudiziaria e non dovrebbe essere applicata da un’autorità amministrativa (priva del necessario requisito dell’imparzialità).

Le modifiche introdotte dalla l. 10/2014, sui reclami in ambito disciplinare, hanno subito un importante intervento positivo. Come si evince sia dall’art. 69, comma VI, ord. penit., sia dai primi tre comma del nuovo art. 35-bis ord. penit. che introduce il nuovo reclamo giurisdizionale, questi reclami (al pari di quelli previsti dalla lett.b) non vengono più trattati con il procedimento di cui all’art. 14-

ter ord. penit, ma con il procedimento di sorveglianza. Infatti con il

nuovo reclamo giurisdizionale è stato introdotto un rimedio giurisdizionale effettivo di natura preventiva idoneo cioè ad accertare e a far cessare la lesione del diritto del soggetto detenuto inciso dall’amministrazione. Rappresenta, invece, un punto critico quello inerente all’eccessiva comprensione dei profili sindacabili al magistrato di sorveglianza (punto rispetto al quale il miglioramento derivante dalla riforma del 2014 è solo parziale). Il comma VI, lett.

b, dell’art 69. ord. penit., come risultante dall’intervento novellatore,

ha previsto un’ulteriore ed importantissima novità che ha portato alla riformulazione del c.d. “reclamo disciplinare”, estendendo la tutela