APPROCCIO TEOLOGICO
LITURGIA E GRATITUDINE La risorsa educativa del celebrare
3. L’esperienza storico-salvifica della gratitudine
La gratitudine è il sentire sgorgato da un’esperienza positiva della quale si vuole prolungare il ricordo e l’effetto emotivo. Viene quindi dalla memoria di un bene ricevuto e ad essa ancora attinge.45
È il sentimento di chi porta in ogni fibra del proprio corpo, senza do-verlo pensare, la solidità rassicurante derivata dall’essere stato accudito con tenerezza, coccolato e vezzeggiato gratuitamente, dall’essere stato riconosciuto come valore per se stesso, unico, importante; la solidità di chi sente di poter contare su di sé perché qualcuno ha contato su di lui, perché il suo esistere è gioia per l’altro, senza bisogno di dimostrarlo.
Questa esperienza positiva di fondo è costruita nel tempo con infiniti gesti di riconoscimento ricevuti, con quotidiani doni di affetto gratuito, di cura disinteressata, di perdono generoso, di reinvestimento, di fidu-cia. Al contrario, l’esperienza di non accoglienza, il trauma infantile di abbandono ha ripercussioni negative inconsce e ferite incolmabili che la psicologia ha ben chiare e che solo una seria terapia può colmare.46
La sicurezza che dà l’essere stati amati è una solida base che esiste anche quando non la si pensa e può essere potenziata dal ricordo singo-lo dei grandi e piccoli eventi che l’hanno costruita. Essa stessa, talvolta, cerca questo ricordo per prolungare l’effetto benefico dell’evento ac-caduto. È esperienza di chi assapora nuovamente la gioia dell’incontro che lo ha gratificato e vi ritorna, sostando quasi al rallentatore, su una dovizia di particolari, per poterne spremere fino in fondo la dolcezza.
si potrebbe chiamare una comunità di vita» (von wright Georg Henrik, Spiegazione e comprensione [Explanation and Understanding, London, Routledge-Kegan 1971], Bologna, Il Mulino 1977, 57).
45 Cf dUccio Demetrio, Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri, Roma, Meltemi 1998.
46 Cf FABre Nicole, Le ferite dell’infanzia: esprimerle, comprenderle, superarle, Roma, Ed. Scientifiche Magi 2002; de SilveStriS Pia, La difficile identità, Roma, Borla 2006.
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Anche l’incontro con il Dio d’Israele vive di quest’emozione a livello personale e collettivo.47 I profeti utilizzano spesso la loro esperienza personale umana e spirituale per iniziare il popolo alla conoscenza di Jahwè. E lo fanno insegnando loro a ricordare, a fare memoria dell’im-menso amore ricevuto, espresso in ripetuti eventi salvifici, primo fra tutti quello della liberazione dall’Egitto.
Il libro del Deuteronomio consegna alla storia del popolo di Dio quest’emozione con testi commoventi dove emerge che memoria e ren-dimento di grazie sono per Israele un tutt’uno. Nella festa delle Setti-mane (Pentecoste) l’ebreo offre le primizie della terra ricordando in un rito tutti i benefici che Dio gli ha fatto, dalla chiamata di Abramo («Mio padre era un arameo errante…»), ai fatti dell’Esodo («Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo ter-rore e operando prodigi»), al dono della terra («e ci diede questa terra dove scorrono latte e miele»). Allora presenta i primi frutti della terra:
«Li deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai. Gioirai, con il levita e il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia» (Dt 26,4-11).
Come si vede, fare memoria per l’uomo biblico non implica soltanto un atto mentale. Ha invece una connotazione esperienziale perché impli-ca una relazione iniziata con un patto. Dio deve ricordarsi di quanto ha promesso di fare e il popolo di quanto Dio ha fatto per lui. Ricordarsi è
“osservare i comandi del Signore e camminare nelle sue vie” (Dt 8,6.11).
Ricordarsi è realizzare nel vissuto storico concreto l’Alleanza sancita.
Ritualizzarla nelle forme del culto è sentirsi parte attiva ed effettiva del patto: «In ogni generazione – recita l’Haggadah pasquale – ognuno è ob-bligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto».48
Ricordare, portare al cuore, è per la Bibbia una memoria piena di realtà e di affetto. Anche nel Nuovo patto il cristiano, come la donna del Magnificat, come la Chiesa, è chiamato ad essere una persona nutri-ta di memoria (nel memoriale eucaristico) e sorretnutri-ta da una forza che sostiene questo ricordo grato, lo Spirito. («Egli vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» Gv 4,26).49
47 Cf gArciAdelA FUente Olegario, Riconoscenza, in ASSociAzione BiBlicA itAliA
-nA, Enciclopedia della Bibbia, vol. 5, Leumann (TO), Elledici 1971, 1259-1260.
48 girAUdo Cesare, Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teologiche sull’eucaristia a partire dalla “lex orandi”, Brescia, Morcelliana 1989, 143.
49 Cf ko Ha Fong Maria, Riflessioni sul Magnificat, Vicenza, Ed. ISG 2005, 81-88.
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Il ritorno del pensiero e del cuore al bene ricevuto apre allo stupore, all’ammirazione dell’amante, per essere stati fatti oggetto di un bene non dovuto, inatteso, mai calcolato. Lo stupore è il trovarsi emotiva-mente spiazzati non schiacciati, sorpresi non confusi, gratificati non in-quieti o preoccupati circa il dovere/debito del contro-dono. Lo stupore e l’ammirazione per l’amante è già la prima risposta che compensa sia chi riceve sia chi dona e provoca il sussulto della lode. Come fa Davide che danza davanti all’arca e inventa un rito ‘eccessivo’, fuori dei criteri comuni, ma che per lui è appagante e giustificato. La sua gratitudine e la sua gioia per ciò che Dio ha fatto sono fuori dagli schemi, eccedono in quella danza che è per lui spazio per incontrare Jahwè.50
Così fa il salmista che torna e ritorna per 26 volte di seguito litanica-mente sui singoli eventi della storia della salvezza per cantare, nel gran-de Hallel pasquale, con insaziabile e quasi ossessiva emozione: «Eterno è il suo amore per noi» (Sl 136).
Lodare e ringraziare ricordando si identifica anche nella tradizio-ne ebraica con il ‘betradizio-nedire’, dire betradizio-ne di Dio perché lui per primo ha
‘detto-bene per noi’, sapendo che per lui dire è fare: bene-dicendo ha creato qualcosa di grande per noi.
L’azione più affine al ringraziare, insieme al lodare e glorificare, è perciò il benedire.
«Nella tradizione religiosa ebraica la preghiera diventa il ‘luogo’
dove la benedizione – che da Dio discende sull’uomo – rimbalza, per così dire, dal cuore dei credenti e risale a Dio in forma di lode, ringra-ziamento e supplica».51
La benedizione è il modo di riconoscere a Dio l’origine di tutto e di porre tutto in relazione al suo progetto creatore. «Resta vietato godere di qualcosa che è di questo mondo, senza dire la benedizione; chi gode dei beni di questo mondo, senza dire la benedizione, commette un atto di infedeltà».52
La gratitudine espressa in benedizione scopre la sua radice anam-netica perché nasce da un popolo che ha memoria del bene ricevuto.
«Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio … Quando avrai
50 Cf BArtolini Elena, Come sono belli i passi … La danza nella tradizione ebraica, Milano, Áncora 2000, 34.
51 MoSSo Domenico, Riscoprire l’eucaristia. Le dimensioni teologiche dell’ultima cena, Milano, San Paolo 1993, 135.
52 Talmud babilonese, citato da MoSSo, Riscoprire 135-136.
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mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case … quando avrai visto il tuo bestiame moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro … il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore» (Dt 8,11-14).
Un altro dato importante è questo: più è possibile condividere la memoria felice del bene ricevuto, più se ne accresce la risonanza.53 Il riconoscimento di un bene singolo come bene di tutti allarga l’effet-to del beneficio perché diventa anche un riconoscersi reciproco, un sentirsi partecipi e legati da una misteriosa corrente e, rafforzando la struttura del vivere sociale, aumenta, condiziona, moltiplica lo stupore, la gratitudine, l’ammirazione, la lode.
La festa con i suoi riti religiosi e profani esaudisce proprio questo bisogno di esprimere insieme, moltiplicandone l’effetto, l’emozione comune che la memoria riproduce. Essendo azione di gruppo, quindi intersoggettiva, implica il passaggio dall’io al noi, passaggio che è facil-mente compreso in quell’azione rituale chiamata festa, costruita su un insieme organizzato di linguaggi simbolici, capaci di mediare l’espe-rienza religiosa, ma anche di ampliare e rinsaldare la sua stabilità, per-mettendole di esprimersi strutturalmente in maniera più organizzata.
I linguaggi però che costruiscono il rito non sono il rivestimento esteriore di un concetto interiore, la sua facciata esterna, ma un tutt’uno con il contenuto che esprimono, come l’abbraccio, il bacio, la carezza, lo sguardo, il dono che, mentre dicono, fanno, rafforzano, costruiscono l’amore. Come la festa che con i suoi riti collega e ridà vita all’evento ri-cordato e in esso cementa i legami di coloro che vi partecipano. Forma e contenuto coincidono anche per esprimere e per alimentare gratitu-dine sia a livello personale che comunitario.