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APPROCCIO TEOLOGICO

LITURGIA E GRATITUDINE La risorsa educativa del celebrare

4. Liturgia e gratitudine

La liturgia latina è sempre stata prudente e cauta nell’espressione dei sentimenti del singolo e dell’assemblea. Vegliata dall’austero controllo della Chiesa, resta prudentemente nel solco dell’ordine e della misura.

Per essa è stata coniata l’espressione che vuole quasi sintetizzare il suo

53 Cf leccArdi Carmen, Memoria collettiva e gratitudine, in JedlowSki Paolo - rAM

-pAzi Marita (a cura di), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Milano, Franco Angeli 1991, 69-89.

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genio: sobria ebrietas.54 Talvolta però ha assecondato quella caratteri-stica del rito che lo vuole in rottura con il quotidiano, con l’utile, con l’interesse e con l’obbligo.

Ha permesso invece – come si diceva – alla devozione di espandersi, soprattutto nell’organizzazione della pietà popolare come, ad esempio nel medioevo, le laudes in lingua vernacola, o le rappresentazioni dei misteri, le processioni ricchissime e pittoresche della settimana santa o del Corpus Domini.55

Troviamo raramente nella liturgia riti appositamente costruiti sul sentimento della gratitudine come, ad esempio, nella sezione del mes-sale per le messe ad diversa, quella di ringraziamento. Si incontrano, però, gesti ed espressioni che la accompagnano ininterrottamente e che esprimono un sentire ad essa complementare, come la lode, la glorifi-cazione, la benedizione.

Ogni celebrazione liturgica, del resto, è una grande azione di grazie, essendo essa sempre l’azione del Cristo stesso (cf SC 7) e quindi azione di grazie al Padre, e insieme memoria, epiclesi, offerta, intercessione, glorificazione.

Certamente, l’azione di grazie somma è l’eucaristia che fin dal pri-mo secolo, a cominciare dalla Didaché, ha denominato così la cena del Signore.56

Il verbo “eucharistein”, usato soprattutto da Luca e Paolo (cf 1Cor 11,24), indica l’azione compiuta da Gesù prima di spezzare il pane e di darlo ai discepoli. Indica un fare, anche se questo fare si esplica in un dire. Forzando le parole, si tratta di un “fare il grazie, dicendo gra-zie”: fare eucaristia, facendo eucaristia. La parola però rimane legata al gesto dello spezzare il pane del mangiare. E in quel dire, spezzare e mangiare confluiscono i grandi eventi d’amore del Maestro, da ri-cordare, prolungare nel tempo, assaporare, rendere carne propria, … lungo tutta l’esistenza.

Ed è proprio attorno ai grandi eventi che attualizzano il mistero pasquale che anche i riti della liturgia latina non riescono a velare l’e-mozione. Sono, ad esempio, i riti dell’inizio della quaresima, quelli del-la preparazione dei catecumeni al battesimo, quelli attorno all’ultima

54 Cf BonAccorSo, I colori 157-161.

55 Cf congregAzioneperil cUlto divinoelA diSciplinAdei SAcrAMenti, Diretto-rio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Roma, LEV 2002, 38-42.

56 Cf MoSSo, Riscoprire l’eucaristia 132-146.

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cena, alla passione e morte e alla grande notte che prorompono in gesti ed espressioni di grande impatto emotivo.

Si tratta di azioni che dicono e di parole che fanno, creano, trasfor-mano o di silenzi che gridano e scuotono più delle parole. Non dicono forse espressamente gratitudine ma muovono il cuore, lo predispongo-no al grande slancio d’amore dello stupore, della conversione e della reciprocità che si fa dono.

Il rito delle ceneri, antichissimo ed impopolare segno di penitenza, indica metaforicamente l’origine creaturale dell’uomo e la sua caducità, anche se la sua grandezza e signoria è ad immagine di Dio. L’imposi-zione delle ceneri all’inizio della quaresima è una chiamata seria, non angosciosa, ma psicologicamente efficace, alla preghiera, alla penitenza per essere liberati, con la Pasqua del Signore, dal male che è in noi e perché il soffio dello Spirito ravvivi il fuoco dell’amore che sonnecchia sotto le ceneri.57

Altro rito di pregnante significato che provoca spesso nell’assem-blea una forte emozione è il congedo degli eletti nei tre scrutini quare-simali prima della celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristia-na.58 Dopo l’ascolto della Parola, successivamente proclamata nei tre vangeli della Samaritana, del Cieco nato e della risurrezione di Lazzaro, corrispondenti alle tre domeniche (3, 4, 5) di quaresima, ciclo A; dopo l’omelia, la preghiera per gli eletti e l’esorcismo, questi sono invitati ad uscire dalla chiesa e sono congedati in attesa di essere accolti nella comunità dopo il battesimo. L’adesione a Cristo necessita tempo e gra-duale assimilazione, preghiera, corresponsabilità dei catecumeni, ma anche di tutta la comunità. Questo congedo reale provoca, in genere, un urto che stimola nei fedeli la consapevolezza del dono gratuito, ossia quello dell’essere membra effettive di un corpo al quale alcuni ancora non appartengono se non nel desiderio.

La lavanda dei piedi è più che una lezione drammatizzata di servizio e di carità fraterna: è una parabola sacramentale di spogliazione per il dono di sé, il dono della vita. Collocata nel Giovedì santo è un vero prologo pasquale, strettamente unito al sacrificio eucaristico.

Senza parole, al solo canto dell’Ubi caritas, il gesto introduce nel

57 Cf AldAzABAl José, Simboli e gesti. Significato antropologico, biblico e liturgico, Leumann (TO), Elledici 1995, 169-176.

58 Cf conFerenzA epiScopAle itAliAnA, Rito dell’Iniziazione cristiana degli adulti, Città del Vaticano, LEV 1994, 95-111.

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mistero pasquale, con forte densità emotiva, ossia immette nel miste-ro dell’abbassamento, dello svuotamento di Cristo, fino al dono finale d’amore.

Altro gesto di sentita efficacia è la prostrazione silenziosa davanti all’altare spoglio del Venerdì santo all’inizio della celebrazione in pas-sione Domini. È l’iconizzazione viva di colui che raccoglie le sue forze nella preghiera, con umiltà e con fede intensa, perché davanti al miste-ro della morte dell’Autore della Vita, l’Unico degno di essere adorato.

Nessuna parola. Solo il silenzio commosso interpreta stupore sgomento e amore grato.

Tra i riti del triduo pasquale che più emozionano il popolo di Dio e lo affascinano, c’è quello dell’ostensione della croce, svelandola, os-sia scoprendola gradualmente dal drappo che la copre, a rivelarne, nel contesto del racconto della passione, il senso misterioso nell’esistenza di ogni discepolo.

All’ostensione segue l’atto di adorazione e il bacio al crocifisso, durante il canto delle Lamentazioni che tendono ad interpretare il senso dell’Amore non corrisposto di Dio lungo tutta una storia tes-suta di gesti di liberazione, di cura, di tenerezza, di protezione, di fiducia. «Che altro avrei dovuto fare e non ti ho fatto?» (Lamentazio-ni). A quel ricordo, il bacio non può non esprimere se non perdono e gratitudine.

Segue, il giorno dopo, un tempo sospeso, di assenza di riti, di silen-zio profondo. L’a-ritualità di questo giorno è eloquentissima. Mentre obbliga a sporgersi sul rischio incontrollabile di un Dio silenzioso, il si-lenzio vuole assolvere l’ingrato compito di rammentarci drasticamente la nostra creaturalità e l’assoluta differenza di Dio.

In quel silenzio possiamo solo (come davanti al mistero del dolore e della morte) porre l’unico atto di libertà: credere e abbandonarci al mistero. Sentire nella propria carne il silenzio di Dio e svuotarsi da se stessi per essere capaci finalmente di un nuovo libero e caldo ascolto.59

Ecco allora i suggestivi riti del fuoco e dell’acqua della Veglia pasqua-le attraversati da un rinnovato racconto della storia dell’Alpasqua-leanza. Il lungo, lento, appassionato dirsi di Dio attraverso le pagine sacre evo-cando il suo darsi continuo e gratuito alla sua creatura, non può non suscitare un inarrestabile, inesprimibile senso di gratitudine per il tanto

59 Cf TAgliAFerri, La liturgia del silenzio del Sabato Santo, in id., La “Magia” 421-430.

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amore ricevuto e che ancora si compie nei battezzati, unti nello Spirito e accolti alla mensa del suo Corpo donato e del suo Sangue versato.

L’accesso allora al rito eucaristico sembra l’approdo più divinamen-te gratificandivinamen-te. «Che altro avrei dovuto fare e non ti ho fatto?», hanno cantato le Lamentazioni davanti al crocifisso adorato; «Che cosa offrirò al Signore per quanto mi ha dato?», domanda la Chiesa con il salmo 115/116, v. 13.

La risposta è la celebrazione eucaristica, azione di grazie del Corpo di Cristo, Capo e membra. «Memores … offerimus»: la memoria degli interventi storici di Dio a favore del suo popolo è il perno centrale e la cifra interpretativa della sua relazione con Jahwè, relazione che implica recettività riconoscente e risposta progettuale, a partire da questa me-moria grata.

Fin qui i linguaggi non verbali della liturgia latina, quelli che più fa-cilmente esprimono l’intera persona in tutte le sue dimensioni, ma che concedono forse più spazio all’emotività e all’azione. Oltre ai riti, di cui sopra, anche le parole – non molte per la verità – danno suono e corpo a questo sentimento della Chiesa. Poche parole direttamente mirate alla riconoscenza, ma molte parole simili, legate all’azione del lodare, glorificare e magnificare o, più ancora, del benedire.

Un inno che raccoglie tutte queste sfumature dello stupore adoran-te e grato è il Gloria: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa». Sembra lo slancio del cuore straripante di emozione per essere davanti a Dio e alla sua gloria, ossia alla sua gratuita manifestazione in una storia di salvezza che ancora continua.

Prima ancora di ascoltare la Parola di Dio, nella celebrazione euca-ristica, la Chiesa si affida al canto con una cascata di verbi che dicono atteggiamenti di apertura, senza presupposte condizioni o calcoli, all’ir-ruzione di Dio che parla. Sono proprio la lode, la benedizione, il grazie che sbloccano e liberano il soggetto dalla sua ingessatura egocentrica e fanno spazio all’accoglienza della gloria di Dio.

L’espressione ‘rendere grazie’ compare poi in altri momenti della ce-lebrazione eucaristica che è tutta un’azione di grazie.

È presente nel racconto dell’istituzione, l’anamnesi di tutte le preci eucaristiche: «Nella notte in cui fu tradito, prese il pane, rese grazie

…»; è presente all’inizio di quasi tutti i prefazi: «È veramente cosa buo-na e giusta … rendere grazie, sempre e in ogni luogo a te …», «lodarti e ringraziarti sempre per i tuoi benefici». È presente nell’orazione sulle

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offerte della messa per il ringraziamento: «Accogli questo sacrificio che ti offriamo in rendimento di grazie per i tuoi benefici …» che anticipa proletticamente l’anamnesi della III prece eucaristica: «Celebrando il memoriale … ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacri-ficio vivo e santo»; e nella II prece eucaristica: «… per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale». È presente nell’o-razione sulle offerte di un formulario nella memoria dei martiri e chiede che il sacrificio offerto in loro memoria ottenga di trasformare tutta la vita in perenne rendimento di grazie.

Queste espressioni attestano la fede immutata e viva della Chiesa sul fatto che l’unico suo vero e grande grazie a Dio è Gesù stesso, oggi e per sempre. Infatti, anche «nella creazione nuova, finalmente liberata dalla corruzione della morte, – afferma la prima prece eucaristica di Riconciliazione – canteremo l’inno di ringraziamento che sale a Te dal tuo Cristo vivente in eterno». Unirsi a lui è diventare come lui un grazie per sempre.

Davanti ad altri momenti importanti della celebrazione eucaristica si è provocati dal rito ad una reazione di gratitudine o di lode. La pro-clamazione del testo biblico è annuncio della presenza del Soggetto che parla, è il suono della sua voce che cerca chi l’accolga, come la pioggia sulla terra assetata (Is 55,10-11). Acclamare: «Rendiamo grazie a Dio»

dopo un annuncio della Parola significa, perciò, non tanto essere a co-noscenza di un concetto, di una verità, ma corrispondere ad un invito, esserne attratti, sperimentarne l’incontro.

È molto bello che nel giorno di Pasqua e spesso durante la settimana fra l’ottava, sia proclamato come salmo responsoriale il 117 con ritor-nelli di ringraziamento: «Ti rendiamo grazie, Signore nostro Dio».

Acclamare questo grazie indica essersi avvicinati al Roveto ed esser-si lasciati trascinare alla sua presenza, con gioiosa disponibilità, quaesser-si avendone ‘vista’ la bellezza, non tanto avendo trattenuto l’astratta fred-dezza dei suoi significati.

Tutto questo succede, quasi come un’inclusione, anche alla fine dell’intera celebrazione eucaristica, nel dialogo di congedo, dopo l’in-vito: «Andate in pace». Dopo essere stati protagonisti di tanto dono, ancora un’acclamazione strappa dalla tentazione del sostare egoistico nella propria sazietà e rilancia nell’orizzonte imprendibile, incolmabile di un Dio che sta sempre all’inizio, sta sempre per primo, sta davanti e continua a chiamare, ad invitare, ad accogliere.

Più volte si è notato come il ringraziare si declini anche in altre

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ni che esprimono la complessità di un sentire che ha mille sonorità e sfumature. Si è detto che ringraziare è ricordare il suo fare ‘grazioso’

per benedirlo. La tradizione ecclesiale ha raccolto da sempre questo atteggiamento in un intero libro liturgico, il Benedizionale.

L’approfondimento postconciliare della categoria biblica del bene-dire ha permesso di rivisitare anche i riti della tradizione e di offrire alla Chiesa una possibilità rituale ricca ed altamente formativa.

L’edizione italiana del Benedizionale60 è un prezioso testo che offre

«alla nostra èra secolarizzata, più che mai bisognosa di aprirsi ad una religiosità autentica, per non cadere a livello di surrogati – quali la ma-gia, la superstizione, l’oroscopomania»– un aiuto per riconoscere Dio come Dio e godere nell’incontrarlo fin negli aspetti più feriali della vita individuale e comunitaria, familiare e sociale.

Sorprende positivamente la coerenza espressa nell’impostare il pri-mo e l’ultipri-mo capitolo (1 e 61) del testo sul tema del benedire Dio per ringraziarlo dei suoi doni.

Non solo nella giornata del ringraziamento,61 ma in ogni istante la Comunità cristiana, erede della grande benedizione in Gesù Cristo, estende il grazie che si irradia dalla celebrazione eucaristica fino alle circostanze più particolari della vita e della storia, dalla nascita di un figlio, all’offerta di una primizia, dall’apertura al valore salvifico della sofferenza, alla dedicazione di un oggetto o alla lode per una bellez-za naturale. Tutto è grazia. Tutto in Cristo può diventare un immenso grazie, anche l’esperienza del dolore e della morte perché resta ferma la fiducia nel suo amore al di là di ogni calcolo, previsione o speranza umana.

Un libro liturgico, questo, da valorizzare insieme al messale, per im-parare ad esprimere e a vivere l’emozione della gratitudine.

Per concludere

Memoria, emozioni e liturgia sono state raccordate attorno al tema della gratitudine per lasciare intravedere le potenzialità educa-tive che questo atteggiamento prosociale può sviluppare se si avvale di una antropologia aperta alla trascendenza in un «paradigma della

60 Cf conFerenzA epiScopAle itAliAnA, Benedizionale, Roma, LEV 1992.

61 Cf ivi 764.

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complessità» che considera a pari valore la conoscenza, l’azione e l’emozione.

Si è osservato che l’emozione della gratitudine – già intuita dal gran-de educatore, san Giovanni Bosco, come elemento qualificante che ga-rantisce il successo dell’opera educativa – anche in liturgia ha un posto centrale tanto da denominare l’atto di culto più alto della Chiesa euca-ristia, azione di grazie.

In socioculture dalle formidabili potenzialità mediatiche, dove le conoscenze possono essere continuamente rimodellate (cf Wikipedia) rischiando di rendere la memoria sempre più vulnerabile, dove l’indivi-dualismo postmoderno vanifica legami liberanti e reciproche, costrut-tive dipendenze fondate sul vero amore, educare alla gratitudine può essere una sfida significativa.

Anche la liturgia ha quindi qualcosa da dire e nella riscoperta delle emozioni (come lo stupore e la gratitudine) può aprire un vasto campo di educabilità.

La ritualità che si riconosce come corpo simbolico della Chiesa, dove avviene l’incontro (nella complessità di una percezione/emozio-ne, conoscenza e azione) nel quale il mistero si dona, permetterà una relazione efficace tra il Dono e il soggetto e tra questi e la comunità, unificata dall’evento (continuato nella memoria rituale e nella festa) che la costituisce.

La liturgia nella sua disponibilità corporea, se fatta parlare con i suoi linguaggi simbolici di facile presa sulla percezione e sull’emozione, potrà più facilmente superare la fase attuale di asetticità e di noia che spesso la contraddistingue, soprattutto presso il pianeta giovani nella categoria della festa, e sarà capace di spalancare allo stupore e alla gra-titudine. Gratitudine che ha la sua espressione più alta nell’eucaristia.

Lì è dove si impara a riconoscere in Cristo il Grazie più grande al Padre nello Spirito; dove si impara ad ascoltare, ad accogliere, a far memo-ria del bene ricevuto; dove si impara a benedire e a rispondere dando se stessi; dove si potenzia quanto si ha, restituendo tutto, come fosse propria offerta quanto ci è stato dato, al Donatore; dove si trova il sen-so della vita ricevendo e donando, rafforzando nella festa/memoria la solidità della struttura sociale: dove cioè si fa corpo diventando Corpo.

In questo reciproco ricevere e dare, la gratitudine celebrata tesse pienezza di umanità, tesse gioia e creatività, tesse legami indistruttibili con gli altri, con le generazioni e con l’inesauribile Gratuità.