1. Innovazione tradizionale e Innovazione aperta
1.4 Il paradigma dell’Open Innovation
1.4.2 L’impatto dell’Open Innovation nei modelli di business
È bene iniziare la trattazione riportando le definizioni fondamentali di business model e di IP, successivamente verrà analizzata l’importanza del modello di business e le modifiche che questo subisce nel passaggio dal vecchio al nuovo paradigma, il tutto seguendo il framework suggerito da H. Chesbrough nella sua opera fondamentale19 in materia. A tal proposito Henry Chesbrough e Richard
Rosenbloom individuano le sei principali funzioni del business model nelle seguenti:
1. “To articulate the value proposition, that is, the value created for users by the offering based on the technology
2. To identify a market segment, that is, the users to whom the technology is useful and the purpose for which i twill be used
3. To define the structure of the firm’s value chain20, which is required to
create and distribute the offering, and determine the complemetary assets needed to support the firm’s position in this chain
4. To specify the revenue generation mechanism(s) for the firm, and estimate the cost structure and target margins of producing the offering, given the value proposition and the value chain structure chosen
19 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and
profiting from technology, Harvard Business School Press
20 In questo elaborato il termine value chain viene inteso nel significato fornitogli da M.
Porter nel 1985 in Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance
5. To describe the position of the firm within the value network linking suppliers and customers, including identification of potential complementary firms and competitors
6. To formulate the competitive strategy by which the innovating firm will gain and hold advantage over rivals”21.
Approfondendo quanto sopra è possibile notare che l’articolazione della value proposition è strettamente collegata all’identificazione del segmento di mercato, in quanto la prima, nel definire sia il prodotto offerto che l’uso che ne farà il consumatore porta a determinare il valore creato per il consumatore solo dopo aver identificato quali sono i consumatori ci si intende riferire e per quale scopo il prodotto dovrebbe essere utilizzato da questi ultimi. Per offrire un prodotto che crei valore per gli utenti finali l’azienda deve identificare bene il segmento di mercato al quale si riferisce e le caratteristiche del prodotto che danno maggiori benefici ai consumatori nell’ottica di un miglioramento futuro su queste ultime. Dopo aver determinato la value proposition e il market segment l’impresa deve procedere nel definire la value chain che è data dall’insieme delle attività che si devono svolgere per far arrivare al consumatore il prodotto. Nel compiere ciò l’azienda deve riuscire a coordinare tutte le attività in modo da creare valore attraverso la catena per i vari soggetti che ne prendono parte apportando un contributo, riuscendo allo stesso tempo a trattenere per sé una parte del valore creato. A tal proposito l’impresa utilizzerà quell’opportuna catena del valore che le permetterà di sfruttare i suoi asset e la sua tecnologia mettendola al centro della value proposition. Per stabilire l’impostazione della value chain, lo sfruttamento del value network e la relativa distribuzione del valore creato tra i soggetti che ne fanno parte, l’azienda deve conoscere la struttura dei costi che i vari soggetti svolgono per apportare il loro contributo, valutandone gli sforzi e potendo determinare dei livelli di margine obiettivo, ovvero i ritorni da riconoscere ai vari soggetti. Il value network comprende terze parti esterne alla
21 Tratto da H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating
diretta catena del valore, che però possono giocare un ruolo fondamentale per il successo e lo sviluppo dell’innovazione. L’impresa può influenzare lo sviluppo di queste ultime parti attraverso un’attenta gestione dell’IP. Com’è noto la strategia competitiva dell’impresa è l’elemento che in buona parte le consente di trattenere valore per sé, in quanto le permette di mantenere un vantaggio sui competitors mettendola in posizione di forza rispetto agli altri soggetti che fanno parte della sia della catena che della rete del valore un attrattivo partner per il business.
Attraverso questo passaggio abbiamo capito che il concetto di IP è strettamente collegato a quello di business model, in quanto da un lato l’ottenimento di IP esterna può permettere all’azienda di creare valore e trattenerne una parte per se e dall’altro una attenta gestione dell’IP può portare l’innovazione a diventare un design dominate. È bene fornire una definizione di IP precisando che non tutte le idee dell’impresa si possono proteggere, in quanto “Intellectual property refers to the subset of ideas that (a) are novel, (b) are useful, (c) have been reduced to practice in a tangible form, and (d) have been managed according to the law”22.
Il termine IP fa riferimento ad un insieme di strumenti (tra i quali si ricordano: brevetti, copyright, trade secrets, ecc.) che hanno finalità di assicurare all’inventore la disponibilità esclusiva dell’invenzione per un determinato periodo di tempo. Il presente lavoro non si propone di esaminare nel dettaglio tutti gli strumenti che rientrano nel termine IP ma verrà affrontato nello specifico il tema dei brevetti in quanto rappresentano gli strumenti più diffusi per la protezione delle tecnologie.
Sulla base di quanto affermato precedentemente è possibile dedurre che solo e soltanto le idee nuove (con ciò non si intende le innovazioni di rottura, ma piuttosto tutte le invenzioni che presentano elementi di novità), utili (dalle quali si può trarre utilità), non ovvie, che sono già state trasformate in innovazioni in
22 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and
quanto tradotte in un uso pratico e che hanno subito un iter legislativo preciso per arrivare ad ottenere la protezione. I brevetti e in generale l’IP rappresentano una sorta di contratto23 che la collettività stipula con l’inventore riconoscendogli il
diritto di uso esclusivo della tecnologia per un certo periodo di tempo. Questo diritto serve al garantire all’inventore un periodo di “monopolio”, durante il quale, trasformando l’idea in nuovi prodotti e servizi che vengono venduti sul mercato, l’inventore viene ripagato dell’investimento sostenuto per giungere alla scoperta. Dunque, il fine di questi strumenti è in linea con l’utilizzo che ne viene fatto all’interno del paradigma della Closed Innovation, dove l’IP rappresenta una barriera all’entrata per i competitor dell’inventore. In questo contesto la gestione dell’IP veniva affidata alla funzione legale dell’azienda. Dagli anni ’80 in poi il rafforzamento della protezione offerta dai brevetti ha portato alcune aziende ad usare l’IP come una fonte di ricavi e di profitti in sé, facendo diventare la gestione dell’IP un aspetto di rilevanza strategica da gestire a livello corporate.
È necessario, volendo approfondire la questione, mettere in evidenza tre aspetti che spiegano perché le idee che rispondono alle caratteristiche sopra richiamate non vengono protette. Innanzitutto le invenzioni per essere brevettate devono seguire un iter molto lungo e costoso (in media 25 mesi con costi che oscillano tra i 15.000 e i 50.000 dollari per brevetto)24. Il secondo aspetto riguarda la
bassissima percentuale di idee brevettate che si rivelano di grande valore. Infine è bene ricordare che l’idea in sé non ha valore ma è l’innovazione che viene portata sul mercato con il giusto business model che porta al raggiungimento di una redditività futura in ogni caso molto difficile da prevedere nel momento in cui si decide se brevettare oppure no. Dunque sommando la consapevolezza che molti brevetti rimarranno improduttivi, all’imprevedibilità sulla redditività futura
23 H. Chesbrough (2008), Open business models: how to thrive in the new innovation
landscape, Harvard Business School Press, pagina 7 e 8
24 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and
dell’idea prima che questa giunga sul mercato è possibile comprendere perché molte invenzioni brevettabili non vengono protette.
Alla luce di queste definizioni è possibile comprendere che il valore di una innovazione sta in buona parte nel modello di business che viene adottato e non dall’invenzione in sé. Sono numerosi gli esempi che mostrano come la stessa idea portata sul mercato con business model diversi hanno portato a risultati radicalmente diversi. Tra i casi più celebri è bene ricordare XEROX – Adobe e il caso XEROX – 3Com, tecnologie elaborate all’interno di PARC, il laboratorio di ricerca interno all’azienda XEROX, sviluppate attraverso business model non in grado di sprigionarne il loro reale valore. Solo una volta uscite da XEROX e sviluppate da nuove start-up (3Com e Adobe) con appropriati modelli di business hanno sprigionato tutto il loro reale valore. Evidenze empiriche dimostrano che un’invenzione brillante sviluppata con un modello di business non idoneo crea meno valore di una scoperta meno brillante ma valorizzata dall’opportuno business model. Muovendosi all’interno del vecchio paradigma l’impresa seleziona solo le idee che si possono portare sul mercato attraverso business model già in uso lasciando così on the shelf moltissime invenzioni che se fossero portate sul mercato da start-up come nei casi sopra citati potrebbero rivelarsi di estremo valore. Seguendo l’approccio dettato dalla Closed Innovation, le grandi corporation lasciano inoperose le idee incompatibili con il proprio modello di business, perché se fossero portate sul mercato attraverso l’utilizzo dei business model già in uso dall’azienda si rivelerebbero dei flop. In questo modo viene a crearsi un duplice problema, da un lato le imprese perdono l’occasione di creare valore, dall’altro lato nel contesto del vecchio paradigma mancano percorsi alternativi e, considerato che la conoscenza è poco diffusa, resteranno inoperose conseguendo una perdita di valore per l’intera società. All’interno del nuovo paradigma, l’impresa, oltre ad avere confini meno rigidi che permettono uno scambio bidirezionale delle idee con l’esterno, guarda alle innovazioni nella consapevolezza dal fondamentale ruolo giocato dal business
model che porta l’idea sul mercato. In questo contesto l’azienda cercherà sia all’interno che all’esterno idee da portare sul mercato attraverso i percorsi di sviluppo interni usando il suo business model attuale e contemporaneamente cercherà per le idee interne incompatibili con il proprio modello di business dei percorsi esterni di sviluppo, ovvero delle start-up o altre aziende che applicano un business model coerente con l’innovazione avendo in questo modo maggiori probabilità di avere successo. Allo stesso tempo l’impresa che opera nel nuovo paradigma cerca di espandere, estendere e a volte cambiare il proprio business model quando capisce che questo ormai è superato nel settore in cui opera.
A ben vedere lo scopo del business model è di aiutare le aziende a innovare gestendo la complessità intrinseca in un ambiente caratterizzato da una forte incertezza sia tecnica che di mercato. All’interno di questo contesto, il business model fornisce uno schema che serve a semplificare la realtà, separando in un primo momento il dominio delle scelte tecniche da quelle economiche e permettendo ai soggetti che fanno parte delle relative aree di trovare le soluzioni ai relativi problemi, per poi ricompattare il tutto fornendo una soluzione complessiva. Questa funzione del modello di business è necessaria e sufficiente nel vecchio paradigma mentre si rivela solo necessaria nel nuovo, all’interno del quale si richiede ai manager delle due aree un ulteriore sforzo, finalizzato ad analizzare i problemi che si presentano anche con un approccio critico verso lo stesso business model, per permettere così all’impresa di comprendere quando è necessario far seguire alle idee un percorso esterno e quando invece è l’azienda stessa a dover superare il proprio modello di business. Scendendo nello specifico gli addetti all’area tecnica devono sperimentare contemporaneamente le nuove tecnologie ed alternativi business model per le stesse, considerando sia l’opzione di svolgere internamente all’azienda tutte le attività della catena del valore, che la possibilità di concentrarsi su una parte più o meno ampia della stessa. Per fare questo, i soggetti dell’area tecnica dovranno mettere a disposizione dei lavoratori dell’area economica strumenti per esplorare nuove forme di collaborazione e divisione del lavoro con altri soggetti coinvolti nella rete del valore. Allo stesso
tempo i soggetti dell’area economica devono raccogliere dati e informazioni relative a contesti nel quale le idee verranno applicate, presentando le tecnologie all’esterno e riportando i feedback all’area tecnica, che con una migliore comprensione dell’ambiente all’interno del quale si muove può cercare diverse vie di sviluppo per le idee.
Data la complessità della sfida, per i soggetti delle due aree e per l’impresa nel suo complesso, risulta evidente che un ottimo aiuto può arrivare da questi nuovi attori che sono sorti nel contesto dell’Open Innovation, gli innovation intermediaries. Le aziende rivolgendosi a questi attori non risolvono tutti i loro problemi, perché devono comunque avviare una serie di modifiche al loro interno che partono dai mind-set e passando attraverso cambiamenti organizzativi, che favoriscano un’agevole interlocuzione tra le aree, portano a diversi sistemi di incentivazione dei lavoratori 25 . Al riguardo è meritevole di citazione
l’inadeguatezza dei sistemi di incentivazione che le organizzazioni usano verso i membri dei loro centri di ricerca interni. Da un’indagine informale svolta dallo stesso H. Chesbrough26 su un certo numero di imprese high-tech, si evince che i
modelli di incentivazione da queste usati per spingere i ricercatori a trovare nuove idee brevettabili risultano altamente inadeguati, non solo all’interno della nuova visione offerta dal paradigma dell’Open Innovation, ma anche all’interno del vecchio regime. Infatti, dall’analisi si deduce che le imprese non fanno abbastanza per condividere il business model dell’azienda con i ricercatori collocandoli in una posizione isolata rispetto al resto dell’organizzazione. Inoltre alla luce del ruolo fondamentale svolto dal business model per creare e trattenere valore dalle innovazioni, ci si aspetterebbe che i modelli di incentivazione dovrebbero spingere i ricercatori a fare scoperte che si possano fare internamente attraverso l’attuale business model, mentre i risultati riportati da H. Chesbrough
25 Sistemi di incentivazione diversi basati su metriche e modalità di misurazione
differenti, come sostenuto da Alpheus Bingham e Dwayne Spradlin (2011), The open
innovation marketplace: creating value in the challenge driven enterprise, Financial
Times Press, pagina da 31 a 33
26 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and
mostrano che nessun incentivo è fornito per spingere gli studiosi in questa direzione. Al contempo, basandosi sulla circostanza che una percentuale limitata di brevetti è realmente redditizia, ci si aspetterebbe che i sistemi di incentivazione premino i ricercatori in base alla redditività delle scoperte, invece risulta che le imprese premiano soprattutto le invenzioni e l’ottenimento del brevetto e solamente l’Università di Stanford ha un meccanismo di incentivazione che premia l’inventore in base alla redditività che la scoperta porta. Per concludere, sebbene considerevole è il lavoro che le imprese devono svolgere nel passaggio ala nuovo paradigma, risultano anche delle profonde incoerenze nell’applicazione del vecchio modello.
Per analizzare in modo più approfondito le trasformazioni che subisce il business model passando dall’approccio Closed a quello Open Innovation, bisogna comprendere le cause e le conseguenze portate dal rafforzamento della protezione offerta ai brevetti. Dagli anni ’80 in poi, a seguito di una precisa politica industriale seguita dagli USA volta ad incentivare l’innovazione, venne aumentata la protezione offerta dai brevetti. Tale politica è stata intrapresa nel timore di perdere la leadership in alcuni settori industriali a vantaggio del Giappone e, la forza con cui venne data protezione all’IP è testimoniata da alcune sentenze conclusesi con pesantissime condanne per chi infrangeva i brevetti27. Forti di tali politiche alcune aziende iniziarono a considerare l’IP
come una fonte di ricavi e profitti in sé, trasformandole in attivi venditori dei loro brevetti. La conseguenza di tutto ciò è stata la nascita dei cosiddetti secondary market, ovvero quei mercati all’interno dei quali l’IP viene scambiata. Questi mercati secondari dell’innovazione permettono lo sfruttamento di ciascuna tecnologia all’interno di più settori per mezzo di una moltitudine di imprese, che applicando diversi modelli di business portano con successo l’idea sul mercato. I secondary market favoriscono una divisione del lavoro sempre più accentuata caratterizzata dalla presenza di imprese sempre più specializzate, arrivando così a
27 A tal proposito si ricorda la sentenza che nel 1985 condannò Kodak al risarcimento
disegnare un modello che prevede la presenza di società specializzate nel creare nuove tecnologie, che trasferiscono il loro output ad altre imprese a loro volta specializzate nello sviluppo di nuovi prodotti. Dallo sviluppo di questi mercati sono nati dei nuovi player, i troll. Si introducono qui questi nuovi operatori perché essi impongono a tutte le imprese una modifica nella gestione dell’IP e conseguentemente dei cambiamenti nei business model. I troll sono degli aggregatori di brevetti che aggiornando periodicamente, prima della scadenza, i loro brevetti, riescono a controllare per lunghi periodi di tempo portafogli di IP molto estesi. Questi ampi portafogli di IP consentono ai troll non solo di non svolgere nessuna attività produttiva e di ottenere profitti solo attraverso royalty ma anche citando in giudizio le imprese che operando infrangono inconsapevolmente i diritti protetti da tali brevetti. Per una maggiore disamina di questi nuovi player è necessario in prima battuta comprendere in che cosa consista esattamente la copertura offerta dai brevetti. La protezione offerta dal brevetto per una particolare tecnologia non copre tutti gli usi che si possono fare della stessa, in quanto i brevetti coprono solo certi aspetti di una tecnologia che è inclusa in un prodotto. Spesso vengono a crearsi delle asimmetrie tra l’area di protezione offerta dal brevetto e l’area relativa all’uso della tecnologia fatto dall’impresa per realizzare nuovi prodotti o servizi da portare sul mercato. È possibile comprendere a questo punto come alcune aree di utilizzo della tecnologia non rimangano coperte dal brevetto ed è proprio su queste aree che agiscono i troll, richiedendo all’impresa il pagamento di royalty o citandole in giudizio bloccandone l’attività. Il punto di forza di questi nuovi player è dato dal fatto che i troll non svolgono alcuna attività produttiva non risultando in questo modo ricattabili, nel senso che non hanno aree scoperte che possano convincerli ad accettare un accordo con l’altra impresa di concessione reciproca di utilizzo dei brevetti, spingendo così i troll a pretendere pagamenti in denaro. Questi nuovi player impongono una gestione molto più attenta dell’IP, stravolgendo anche il modo di operare di queste ultime, che adesso quando trovano una tecnologia da voler applicare prima di comprarla e utilizzarla si devono assicurare che sia l’azienda stessa che tutti i membri della catena del valore
hanno la protezione legale per gli usi che intendono fare della tecnologia in questione e di tutte le altre collegate all’uso della prima. Nello svolgimento di questa fase preliminare le imprese utilizzano uno strumento chiamato patent map, che analizzando i brevetti detenuti dall’azienda determina gli usi di una certa tecnologia che sono da questi coperti e svolgendo la stessa analisi per le altre aziende determina le aree nelle quali l’impresa può operare e quelle che sono a rischio. La realizzazione di una patent map implica lo svolgimento del processo appena descritto sia per l’impresa che per tutti i membri della sua value chain, raccogliendo i risultati in una mappa complessiva che indichi all’azienda ciò che può fare e le aree di rischio. La patent map deve riassumere un’analisi svolta quantomeno a livello di catena del valore perché se guardasse solo