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Open Innovation e PMI italiane

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in Consulenza Professionale alle Aziende

Tesi di Laurea Magistrale

Open Innovation e PMI italiane

Candidato: Relatore: Gianluca Biggi Chiar.mo Prof. Riccardo Lanzara

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Indice

Lista delle figure ... vi

Lista delle tabelle ... vii

Introduzione ... 1

1. Innovazione tradizionale e Innovazione aperta ... 3

1.1 Introduzione ... 3

1.2 Definizioni e dimensioni dell’innovazione ... 3

1.2.1 Innovazione e processi innovativi ... 3

1.2.2 Le strategie di innovazione ... 5

1.3 Il modello Closed Innovation ... 6

1.3.1 Definizione e caratteristiche ... 6

1.3.2 Il processo di innovazione chiusa ... 9

1.3.3 I limiti dell’innovazione chiusa ... 13

1.4 Il paradigma dell’Open Innovation ... 18

1.4.1 Definizione e caratteristiche ... 18

1.4.2 L’impatto dell’Open Innovation nei modelli di business ... 24

1.4.3. Gli intermediari dell’innovazione nell’Open Innovation ... 45

1.5 I modelli a confronto ... 61

1.6 Case History ... 62

1.6.1 Il caso Xerox PARC ... 62

1.6.2 L’attuazione del modello Open Innovation: il caso Intel ... 65

2 PMI e processi innovativi ... 68

2.1 Introduzione ... 68

2.2 Il panorama delle Piccole e Medie Imprese... 68

2.2.1 Caratteristiche generali delle PMI ... 68

2.2.2 Le peculiarità dell’innovazione nelle PMI ... 71

2.3 L’Open Innovation nelle PMI ... 73

2.3.1 L’Open Innovation e le PMI ... 73

2.3.1.1 L’outside-in Open Innovation nelle PMI ... 77

2.3.1.2 La gestione strategica dell’innovazione ... 78

2.3.2 L’impatto dell’Open Innovation sui modelli di business delle PMI ... 83

2.3.2.1 Modelli di business a Network e PMI ... 84

2.4 L’Open Innovation nelle PMI italiane ... 87

2.4.1 Le caratteristiche generali delle PMI italiane e dei distretti industriali ... 87

2.4.1.1 Le PMI italiane ... 87

2.4.1.2 I distretti industriali italiani ... 94

2.5 L’innovazione nelle PMI italiane ... 96

2.6 L’Open Innovation nelle PMI italiane ... 109

Conclusioni ... 119

Ringraziamenti ... 123

Bibliografia ... 125

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Lista delle figure

Figura Pagina

Figura 1.1: Fasi principali del processo di innovazione 3 Figura 1.2: Fasi principali del processo di innovazione

“Stage-gate” di Cooper 4

Figura 1.3: The Virtuous Circle 8

Figura 1.4: Il processo innovativo con le attività tipiche e gli

output della R&D 9

Figura: 1.5: The Closed Paradigm for Managing Industrial

R&D 11

Figura 1.6: The Virtuous Circle Broken 18

Figura 1.7: The Open Innovation Paradigm for Managing

Industrial R&D 23

Figura 1.8: The technology Life Cycle Curve 35

Figura 1.9: External Sourcing Continuum 53

Figura 2.1: Fiducia percepita dalle imprese italiane rispetto

all’andamento dell’economia 94

Figura 2.2: Profilo SBA italiano 107

Figura 2.3: Brevetti, concessioni dell’Ufficio Europeo dei

(7)

Lista delle tabelle

Tabella Pagina

Tabella 1.1: The matrix of the business model framework,

with its associated innovation and IP management process 37 Tabella 1.2: Contrasting principles of Closed and Open

Innovation 61

Tabella 2.1: Definition of SMEs in the European Union 69 Tabella 2.2: Dara about the italian SMEs landscape (2014

estimates) 88

Tabella 2.3: Innovating firm per size category 98 Tabella 2.4: Investment in innovation in Italy by size

category and sector 99

Tabella 2.5: Type of innovation introuced in Italy by size

category and sector 100

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Introduzione

L’innovazione rappresenta un concetto fondamentale se si vuole affrontare il tema della crescita e dello sviluppo aziendale e, più in generale, della crescita del sistema economico nel suo complesso. Il processo di globalizzazione ha chiesto alle organizzazioni aziendali una riorganizzazione dei sistemi produttivi industriali e di diffusione della conoscenza tale da garantire una produzione sempre più globale. Il ciclo di vita dei prodotti si è accorciato enormemente a causa dell’incessante incremento del processo tecnologico e della competizione internazionale che ha raggiunto ritmi esasperati. In quest’ottica il tradizionale approccio tipico dell’azienda verticalmente integrata che ha dominato il XX secolo presenta notevoli limiti. Nel 2003 l’economista della Haas School of Business dell’Università di Berkeley in California Henry Chesbrough, durante l’osservazione di alcuna imprese high-tech, conia il termine Open Innovation come espressione di un paradigma emergente, con il quale si assume che la conoscenza utile è ampiamente distribuita tra paesi, istituzioni scientifiche e imprese.

L’adozione del modello Open Innovation trova fondamento nel progressivo livellamento del terreno di gioco su cui si sviluppa l’innovazione. Da un lato, perché si sono ridotte le economie di scala nella R&D che garantivano vantaggi competitivi soltanto ai grandi e grandissimi laboratori di ricerca industriale; dall’altro lato, perché le conoscenze utili sono sempre più diffuse e sparse tra le aziende di ogni dimensione, in molte parti del mondo. Il modello dell’Open Innovation tende a sostituire il tradizionale “modello chiuso”, dove le imprese utilizzano in via preferenziale laboratori interni di R&D, come fonti di conoscenza e idee innovative. Tali strutture, molto dotate in fatto di attrezzature, personale e mezzi, e ispirate ad una visione tecnologica dominante alla Bell Labs, in passato hanno costituito la macchina dell’innovazione delle grandi imprese oligopoliste, con cui puntavano a rafforzare e difendere il loro potere di mercato.

(9)

Nel primo capitolo viene illustrato nuovo paradigma dell’Open Innovation nel mutato quadro competitivo e strategico e le caratteristiche che lo delineano partendo dalla descrizione del vecchio modello della Closed Innovation e sulle cause che hanno portato alla sua erosione. Verrà proposta una descrizione degli elementi che possono essere scambiati in un contesto open, quali la ricerca, lo sviluppo, la proprietà intellettuale e il know-how, fornendo indicazione sull’impatto che il nuovo paradigma ha nei modelli di business delle imprese e quali sono i nuovi player che operano in questo nuovo scenario. Lo scopo di questo elaborato non è solamente quello di riportare il quadro teorico in materia di innovazione aperta ma, attraverso l’analisi effettuata nel capitolo secondo, mettere in luce le nuove, promettenti prospettive che l’Open Innovation può aprire nei confronti della Piccola e Media impresa italiana storicamente priva di risorse e competenze nel campo della R&D. All’interno del nuovo paradigma queste imprese potrebbero trovare finalmente il modo di assorbire e integrare nuove conoscenze tecnologiche dall’esterno attraverso spin-off e start-up piuttosto che in modo diretto dall’università in modo da accorciare i tempi, ridurre i rischi e limitare i costi. In questo modo si creano le condizioni di effettiva operatività e sostenibilità alle nuove imprese innovative technology-driven e contestualmente si diffondono le opportunità di innovazione per il nostro sistema imprenditoriale, aprendo la strada a partenariati intelligenti con tali imprese.

(10)

1.

Innovazione

tradizionale e Innovazione aperta

1.1

Introduzione

Questo capitolo vuole definire, partendo dal concetto di innovazione in senso lato, dalle sue fondamenta e dal modello di riferimento espresso nel paradigma della Closed Innovation, che cosa si intende per Open Innovation. Il primo a descrivere tale fenomeno fu Henry Chesbrough che ne evidenziò l’impatto sui business model dell’impresa identificandolo come la chiave per il raggiungimento del successo in campo aziendale.

1.2 Definizioni e dimensioni dell’innovazione

1.2.1 Innovazione e processi innovativi

L’innovazione è generalmente definita come lo sfruttamento commerciale di una nuova idea o di un’invenzione ma la definizione dello specifico processo di innovazione dipende dal tipo di innovazione che lo caratterizza. Nello specifico il processo di innovazione si riferisce alle sequenze temporali di eventi che accadono nell’interazione di persone che operano al fine di sviluppare e implementare le loro idee innovative all’interno di un contesto istituzionale1. Più

in generale è possibile considerare il processo di innovazione come costituito da tre parti principali che si possono osservare nella figura 1.1:

Figura 1.1: Fasi principali del processo di innovazione (Fonte: R. G. Cooper (1986), Winning at the new products: accelerating the process from idea to launch, Addison-Wesley)

1 Tale definizione è tratta da A. H. Van de Ven and M. S. Poole (1995), Explaining

developement and change in organization, Accademy of Management Review, Vol.

20, n. 3, pagina da 510 a 540

Front end of

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La prima fase, denominata front end of innovation, consiste nella selezione delle nuove idee, insieme alla valutazione del loro aspetto tecnologico e della loro capacità di collocazione nel mercato. Nella seconda fase le idee selezionate sono realizzate e sviluppate e vengono inoltre testate diverse soluzioni e alternative in termini di funzionalità e design. La terza parte include la fase di commercializzazione intesa come la pianificazione e l’esecuzione delle attività di inserimento sul mercato.

Figura 1.2: Fasi principali del processo di innovazione “Stage-gate” di Cooper (Fonte: R. G. Cooper (2001), Winning at the new products: accelerating the process from idea to launch, 3rd edition Addison-Wesley)

Tra le altre elaborazioni del concetto di processo innovativo la letteratura evidenzia il modello “Stage-gate” di R. G. Cooper del 1986, ripreso in figura 1.2. Il processo di Stage-gate è preceduto da una fase di scoperta, aggiunta in una versione successiva (nel 2001) del modello originale che comprendeva cinque fasi, e che contiene funzioni destinate a scoprire nuove opportunità e a generare nuove idee, le cinque fasi sono:

1. Fissare l’obiettivo: comprende un’indagine rapida su ogni progetto al fine di fornire informazioni a buon prezzo tramite la desk research per restringere il numero dei progetti;

2. Sviluppare il business case: comprende una ricerca più dettagliata tramite il marketing primario e la ricerca tecnica, il business case deve

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includere una definizione di prodotto, una giustificazione del prodotto e un piano del progetto;

3. Sviluppo: comprende design e sviluppo dettagliato di un nuovo progetto insieme a test semplici di prodotto, in questa fase si deve anche sviluppare un piano di produzione e un piano di lancio sul mercato;

4. Prova e convalida: comprendono svariati test di prodotto sul mercato, in laboratorio e nello stabilimento;

5. Lancio: comprende l’inizio della produzione a pieno ritmo, del marketing e delle vendite.

1.2.2 Le strategie di innovazione

Sia nella teoria che nella pratica aziendale l’innovazione è un’attività fondamentale per la sopravvivenza di lungo termine dell’impresa. Pertanto, le imprese dovrebbero progettare e implementare una strategia di innovazione, che sia guidata dalla mission e dalla vision, così come da obiettivi di lungo termine dell’azienda stessa. Oltre a migliorare e ottimizzare i prodotti e le tecnologie esistenti, le strategie di innovazione devono anche affrontare le sviluppo di nuove tecnologie e competenze2. Questo è dovuto al fatto che le imprese, da un lato,

hanno bisogno di sfruttare le risorse per generare rendite a breve termine ma, allo stesso modo, devono cercare di esplorare nuovi campi di conoscenza e tecnologie per il futuro. In questo contesto l’exploration comprende tutte quelle attività dai termini quali ricerca, cambiamento, assunzione di rischio, sperimentazione, azione e flessibilità, mentre invece l’exploitation è una attività che comprende raffinatezza, scelta, produzione, efficienza, selezione, attuazione e esecuzione3.

In aggiunta alla dualità tra exploration e exploitation appena citata, tra gli

2 Tratto da D. Faems et. Al (2005), Interorganizational collaboration and innovation:

toward a portfolio approach, Journal of Product Innovation Management n. 22, pagina

da 238 a 250

3 Le definizioni di Exploration e Exploitation sono tratte da J. G. March (1991),

Exploration and Exploitation in Organizational Learning, Organization Science, 2(1),

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obiettivi delle strategie di innovazione, delle esigenze, talvolta opposte, che si riportano in schema nel seguente elenco:

Incrementale vs radicale; Continua vs discontinua; Sostenibile vs dirompente;

Processi di innovazione ben definiti vs flessibilità nell’apertura dell’innovazione.

Indipendentemente dai modelli duali sopra citati, la strategia di innovazione si compone di due parti principali: dimensione tecnologica e dimensione di mercato. Le strategie di innovazione devono pertanto rivolgersi ad attività quali:

Funzioni o domanda da soddisfare con l’innovazione;

Tecnologie richieste per incontrare queste funzioni e richieste; Mercato target;

Processi di produzione richiesti.

Questi quattro aspetti affrontano i temi del “cosa” e del “dove” dell’innovazione. Tuttavia, non viene data alcuna risposta alla questione del “come” adottare le tecnologie necessarie per l’innovazione. Per esempio, le tecnologie possono essere sviluppate internamente o originate all’esterno dei confini aziendali. Quest’ultima definizione ha consentito a H. Chesbrough di giungere nel 2003 alla distinzione tra la Closed e l’Open Innovation.

1.3 Il modello Closed Innovation

1.3.1 Definizione e caratteristiche

Il modello Closed Innovation, pur essendo ancora valido in alcuni settori (come ad esempio quello dei reattori nucleari), ha rappresentato per buona parte del XX secolo il modello di riferimento. Tale approccio afferma innanzitutto che

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un’innovazione di successo richiede controllo4. Questa definizione può essere

intesa come una logica che si fonda principalmente a livello interno, poiché non è garantito che altre tecnologie o idee siano disponibili e, soprattutto, della qualità cercata. Questa autonomia interna si può riassumere nelle seguenti regole del modello Closed Innovation così come definite da Henry Chesbrough:

Un’impresa dovrebbe assumere il personale migliore e più intelligente; Un’impresa può trarre profitto dagli sforzi innovativi scoprendo,

sviluppando e vendendo tutto da sola;

Per essere leader nel proprio mercato è necessario che le scoperte della ricerca provengano dall’interno della propria impresa;

Essere leader di mercato è anche garanzia che l’impresa potrà vincere la concorrenza;

Essere leader nel settore degli investimenti nell’area R&D porta a migliori e più numerose idee e, infine, a vincere la concorrenza;

Una gestione preventiva dell’intellectual property (IP) deve impedire ad altre imprese di approfittare delle idee e delle tecnologie dell’azienda; Questi elementi di contesto hanno portato all’accentramento della conoscenza all’interno dei centri di ricerca delle grandi imprese che potevano in questo modo determinare i tempi di sviluppo. La logica che guidava queste grandi aziende le portava a fare quante più scoperte possibile e brevettarle per poter così escludere le altre aziende5 dal poter utilizzare le nuove tecnologie. In questo contesto la

4 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

profiting from technology, Harvard Business School Press

5 In questo elaborato verranno utilizzati i termini impresa, azienda, ente ed

organizzazione come sinonimi con il significato fornitogli da E. Giannessi: “L’azienda è un unità elementare dell’ordine economico-generale, dotata di vita propria e riflessa, costituita da un sistema di operazioni, promanante dalla combinazione di particolari fattori e dalla composizione delle forze interne ed esterne, nel quale i fenomeni della produzione, della distribuzione e del consumo vengono predisposti per il conseguimento di un determinato equilibrio economico, a valere nel tempo, suscettibile di offrire una remunerazione adeguata dei fattori utilizzati e un compenso, proporzionale ai risultati raggiunti, al soggetto economico per conto del quale l’attività si svolge”, in quanto la distinzione tra questi termini non rileva ai fini della trattazione

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gestione della proprietà intellettuale (d’ora in avanti IP) veniva affidata al dipartimento legale dell’azienda di modo che potesse escludere gli eventuali competitors dall’utilizzo di quella tecnologia. L’intensità degli investimenti che le grandi corporation destinavano alla ricerca trovava la sua causa profonda nella scarsità di risorse che i governi destinavano alla ricerca prima degli anni ’50 che determinava a sua volta una bassa diffusione della conoscenza che impediva persino la fornitura presso imprese terze di determinati semilavorati o prodotti accessori. Le imprese leader presentavano così una struttura verticale fortemente integrata che permetteva di sfruttare importanti economie di scala ed espandersi attraverso l’attivazione di un circolo virtuoso così come descritto nella figura 1.3:

Figura 1.3: The Virtuous Circle (Fonte: H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and profiting from technology, Harvard Business School Press, Introduzione, pagina xxi)

In questo modo grandissime aziende come IBM (che dagli anni ’60 agli anni ’80 costituiva da sola il comparto dei computer mainframe) sono riuscite a guidare il loro settore per decenni.

Il paragrafo che segue metterà in luce il processo di ricerca e sviluppo del vecchio paradigma consentendoci di comprendere in misura maggiore il circolo virtuoso descritto in figura.

(16)

1.3.2 Il processo di innovazione chiusa

Riprendendo le definizioni espresse nel precedente paragrafo, è possibile notare come in tale paradigma i confini dell’impresa sono rigidi e, l’assenza di scambio di idee con l’esterno fa sì che l’impresa investa solamente su idee interne. Volendo soffermarci alla funzione R&D, è possibile formulare una prima distinzione tra ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo ai quali è possibile aggiungere lo stadio di progettazione avanzata. Le fasi del processo di innovazione secondo questo modello si possono osservare in figura 1.4:

Figura 1.4: Il processo innovativo con le attività tipiche e gli output della R&D (Fonte: G. Gottardi (2006), Gestione dell’innovazione e dei progetti, CEDAM) Le fasi sopra descritte possono essere dettagliate come segue:

1. Ricerca di base, comprende attività volte ad estendere la comprensione o l’approfondimento di una specifica area scientifica. Gli obiettivi sono a lungo termine e i risultati vengono perseguiti senza considerare le immediate applicazioni commerciali;

2. Ricerca applicata, comprende la definizione del processo produttivo per le conoscenze generate nella fase precedente;

3. Progettazione avanzata: si occupa della dimostrazione della fattibilità tecnica;

4. Sviluppo, comprende attività di prova e la riproducibilità industriale e l’utilità economica delle opzioni aperte della ricerca di base e applicata.

• Generare nuova conoscenza sui fenomeni • Formulare teorie Ricerca di base • Generare conoscenza per uno scopo pratico • Nuovi metodi e strumenti Ricerca applicata • Dimostrare la fattibilità tecnica • Selezionare metodi, tecnologie e materiali Progettazion e avanzata Tradurre opportunità tecnologiche in nuovi prodotti e modelli Sviluppo

(17)

Secondo il modello Closed Innovation, indipendentemente dal numero di fasi sopra descritte, l’azienda tende ad evitare ogni contatto con l’esterno ed a mantenere le principali attività di ricerca all’interno dell’organizzazione. Questo significa che i processi di innovazione:

Possono partire soltanto dalla prima fase;

Vengono sviluppati impiegando solo risorse e competenze interne;

Possono uscire dal processo ed essere commercializzati solo attraverso il canale di distribuzione dell’azienda, quindi:

se scartati o cancellati, restano archiviati internamente e inutilizzati fono all’eventuale successivo riutilizzo da parte di altri gruppi di R&D.

Adottando tale modello di innovazione molte tecnologie, magari promettenti, non potrebbero mai essere sfruttate e secondo alcuni autori6 questo dipende da

due ragioni principali:

1. Le aziende stanno cedendo la propria proprietà intellettuale ad altre aziende ed organizzazioni;

2. Non tutte le aziende sanno gestire ogni nuova ricerca o sono in possesso di tutte le risorse necessarie per eseguire queste opportunità.

Il processo di innovazione di prodotto rappresentato secondo il modello tradizionale, può essere schematizzato come nella figura 1.5:

6 Tratto da J. W. Wolpert (2002), Breaking out of the innovation box, Harvard Business

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Figura 1.5: The Closed Paradigm for Managing Industrial R&D (Fonte: H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and profiting from technology, Harvard Business School Press, pagina xxii)

Come è possibile notare dal modello, le idee si muovono da sinistra a destra della figura e grazie al processo di selezione (indicato dalla forma ad imbuto disegnata dalle linee rappresentanti i confini dell’azienda, forma che fa passare da sinistra a destra sempre meno invenzioni) l’azienda evita di portare sul mercato idee che inizialmente sembrano buone e che successivamente si rivelano di scarso valore (li chiameremo falsi positivi). Questo processo non permette però di individuare tutte quelle idee che inizialmente non sembrano essere promettenti mentre successivamente si rivelano di grande valore (li chiameremo falsi negativi). Dunque questo approccio mostra una prima area di perdita di valore per l’azienda ed anche per tutta la società, dato che in tale contesto le idee non hanno vie alternative di sbocco oltre a quella dello sviluppo interno all’impresa. Così le scoperte che inizialmente non vengono considerate di grande valore per l’organizzazione, in base al business model della stessa vengono abbandonate. Purtroppo questa non è la sola area di perdita di valore per l’azienda e per l’intera società determinata da tale approccio al processo innovativo, ma è possibile riscontrarne un’altra derivante dalla naturale tensione che si viene a creare tra la

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funzione di ricerca e quella di sviluppo dell’impresa. Come è già stato illustrato all’inizio del paragrafo la funzione di ricerca rappresenta un centro di costo, avente come obiettivo l’andare alla scoperta di nuove frontiere per fermarsi ad una prima esplorazione delle idee lasciando alla funzione sviluppo, qualora lo ritenesse opportuno il compito di approfondire la conoscenza su quelle scoperte e trasformarle in nuovi prodotti e servizi. Dunque al ridursi del livello di conoscenza sviluppato dalla ricerca, diventa più dispendioso e rischioso per la funzione sviluppo portare avanti le scoperte. Allo stesso tempo dobbiamo considerare le peculiarità della funzione sviluppo che normalmente fa parte di un’unità di business dotata di un proprio profit-and-loss statement operante attraverso ingegneri che hanno l’obiettivo di trasformare le idee in prodotti e servizi sotto vincoli di tempo e di budget cercando di minimizzare il rischio. Dato che l’output della funzione ricerca costituisce l’input della funzione sviluppo risulta a questo punto evidente la tensione tra le due. All’interno del vecchio paradigma le imprese hanno risolto i problemi derivanti da questa tensione creando un “cuscinetto” per separare le due funzioni. Tale “cuscinetto” consiste nel non passare direttamente l’output della ricerca allo sviluppo ma nel metterlo on the shelf a disposizione della funzione sviluppo che vi può attingere quando lo desidera. Questo meccanismo che ha risolto il problema per le imprese, all’interno del vecchio paradigma, ha creato allo stesso tempo una perdita di valore per le stesse e per la società poiché attraverso questo meccanismo molte idee restano immagazzinate per anni se non decenni senza apportare nessun beneficio né all’impresa né alla società7.

Nonostante tali notevoli perdite di valore questo modello è sostenibile per le aziende che si muovono all’interno del vecchio paradigma grazie ai tre elementi di contesto che stanno alla base del paradigma stesso. Da notare che il

7 Non sono stati infrequenti i casi in cui altre aziende hanno “riscoperto” tali idee dopo

decenni, per ulteriori approfondimenti si veda H. Chesbrough (2003), Open Innovation:

the new imperative for creating and profiting from technology, Harvard Business

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mantenimento dello status quo è sostenuto anche da due note “sindromi”: la “Not Invented Here” che basandosi sul concetto “se vuoi una cosa fatta bene la devi fare da solo” impediva di fatto alla idee esterne di entrare nell’impresa8 e la “Not

Sold Here” che, non comprendendo l’importanza del business model utilizzato per portare l’idea sul mercato ha instaurato la mentalità per la quale se l’azienda non è in grado di portare un’innovazione sul mercato allora nessuno lo può fare, ha impedito di fatto alle idee interne di seguire percorsi interni di sviluppo9. In

questo modo l’organizzazione si può permettere di lasciare le invenzioni inoperose senza il timore che qualcuno gliele rubi, dato che la bassa diffusione delle conoscenza impedisce alla altre aziende di avere le risorse e il sapere basilare per poter sviluppare queste invenzioni. Le scoperte rimarranno on the shelf finché la stessa impresa non deciderà di portarle sul mercato. Il lento ciclo di vita dei prodotti, nei settori in cui domina o dominava il paradigma della Closed Innovation, rappresenta una conseguenza di tutto ciò, poiché la bassa diffusione della conoscenza causa la mancanza di una vera competizione basata sulla continua innovazione. In conclusione l’unica vera e profonda condizione di contesto che determina la sostenibilità del vecchio paradigma è la bassa diffusione della conoscenza, perché le altre due caratteristiche di contesto in realtà sono conseguenze della prima.

1.3.3 I limiti dell’innovazione chiusa

Il modello Closed Innovation nel corso del tempo ha messo in risalto alcuni limiti e inefficienze evidenziate da nuovi modelli in linea con il moderno contesto in cui le aziende si trovano ad operare. Avendo compreso che la fondamentale base del vecchio paradigma è la bassa diffusione della conoscenza, risulta intuitivo che in tutti i settori in cui questa condizione di contesto viene

8 Per approfondimenti sulla sindorme “Not Invented Here” si veda H. Chesbrough

(2008), Open Business Models: how to thrive in the new innovation landscape, Harvard Business School Press, pagina da 24 a 26

9 Per approfondimenti sulla sindorme “Not Sold Here” si veda H. Chesbrough (2008),

Open Business Models: how to thrive in the new innovation landscape, Harvard

(21)

meno, abbiamo un passaggio più o meno rapido al paradigma dell’Open Innovation. In realtà H. Chesbrough individua10 i seguenti fattori di erosione del

vecchio paradigma dividendole in cause di erosione profonde e cause di erosione derivate:

1. Cause profonde di erosione del paradigma della Closed Innovation, composte da:

a. La crescente disponibilità e mobilità di lavoratori qualificati; b. La crescita degli investimenti dei Venture Capitalist;

2. Cause di erosione derivate del vecchio paradigma che includono: a. Il sorgere di opzioni esterne per le idee “on the shelf”; b. Le crescenti capacità di fornitori esterni;

c. L’aumento dei costi di ricerca e sviluppo11.

La crescente disponibilità e mobilità dei lavoratori qualificati mette in crisi la vera base del vecchio paradigma, ovvero la bassa diffusione delle conoscenza, in quanto l’aumento della mobilità e della disponibilità di questi soggetti permette anche alle start-up, ed in genere a tutte le imprese che non hanno alle loro spalle decenni di ricerca in un certo campo, di accedere alla conoscenza esistente in materia, spesso sottraendo i migliori lavoratori dai laboratori delle grandi corporation offrendogli paghe più alte, stock options della start-up, oppure semplicemente dando ai ricercatori la possibilità di vedere le loro idee arrivare sul mercato e dunque testarne la validità e continuarne il relativo studio. Anche il secondo fattore dipende dal primo perché senza una più ampia diffusione della conoscenza, determinata dal primo fattore, molto probabilmente non si sarebbe verificata nemmeno la crescita degli investimenti dei Venture Capitalist, in

10 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

profiting from technology, Harvard Business School Press, da pagina 34 a 40

11 Quest’ultimo fattore per la verità viene introdotto da H. Chesbrough (2008), Open

Business Models: how to thrive in the new innovation landscape, Harvard Business

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quanto questi ultimi non avrebbero avuto la materia prima sulla quale investire, ovvero le nuove idee che sarebbero rimaste ad esclusiva disposizione delle grandi corporation, proprietarie dei più avanzati centri di ricerca. Risulta evidente che la combinazione dei primi due fattori determina la prima causa derivata, infatti è proprio la crescente disponibilità e mobilità dei lavoratori qualificati che permette a questi ultimi, attraverso i mezzi finanziari dei Venture Capitalist, di creare nuove start-up, rappresentanti una via alternativa attraverso la quale le idee possono giungere sul mercato. Inoltre il primo fattore fa crescere la diffusione della conoscenza anche all’interno di terze imprese già esistenti, dunque le grandi corporation comprendono che ormai per loro è impossibile tenere le idee inoperose per lunghi periodi di tempo perché è troppo alto il rischio di vedersele rubate da start-up o da terze imprese. Come conseguenza aumenta la disponibilità di tutte le aziende a scambiarsi innovazioni e conoscenza attraverso licenze e partnership ed altri mezzi di condivisione. Questi primi tre fattori determinano il quarto, in quanto la crescente diffusione della conoscenza fa aumentare anche la capacità dei fornitori esterni, permettendo una maggiore divisione del lavoro tra imprese diverse che operano in una stretta relazione di collaborazione, valorizzando maggiormente il network a scapito del vecchio modello sequenziale e favorendo una organizzazione meno integrata e più specializzata. È bene ricordare che va nella stessa direzione, spingendosi oltre l’idea di fondo, la definizione di H. Chesbrough della “division of labor” che indica12 “a system where on party develops a novel idea but des not carry this

idea to market itself. Instead, that party partners with or sells the idea to another party, and this latter party carries the idea to the market. This new division of labor is driving a new organizational model of innovation, one that may offer more hopeful prospects for innovation in the future.”. Per quanto riguarda l’aumento dei costi di ricerca e sviluppo, questi possono essere visti come una conseguenza, seppur indiretta, dell’aumento della disponibilità e della mobilità dei lavoratori specializzati che, attivando un circolo virtuoso insieme ad un

12 H. Chesbrough (2008), Open businsee models: how to thrive in the new innovation

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mercato del lavoro più fluido, ha fatto aumentare il salario di questi soggetti determinando in questo modo un aumento dei costi di ricerca e sviluppo.

Fatta questa premessa, analizziamo meglio come e perché si sono verificati in alcuni settori le cause profonde di erosione, formulando ipotesi generali valide per tutti i settori che oggi o in futuro saranno caratterizzati dal regime dell’Open Innovation.

L’aumento della disponibilità e della mobilità dei lavoratori qualificati è stato determinato da diverse concause:

L’espansione delle università negli USA e del ruolo da loro giocato nel sistema innovativo, grazie all’incremento dei fondi ad esse apportati in un primo momento (a partire dagli anni ’50) dai governi e successivamente dalle imprese (che dal 1985 in poi, superano sempre in termini di investimenti nell’università quelli fatti dai governi);

La politica degli USA che, a partire dagli anni ’80, attraverso l’incremento della protezione offerta ai brevetti cercava di spingere la ricerca e le nuove scoperte;

L’aumento dei laureati determinato dal GI Bill e da altri programmi messi in atto per far espandere l’istruzione negli USA13 a partire dagli anni ’50

in poi.

La conseguente creazione di un mercato del lavoro più fluido, attraverso il quale i lavoratori più qualificati potevano profittevolmente passare da un’azienda all’altra trasmettendo la loro conoscenza al miglior offerente14;

La conseguente creazione di un nuovo circolo virtuoso, per il quale questo mercato del lavoro così fluido costituiva un incentivo in più per i singoli

13 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

profiting from technology, Harvard Business School Press, pagina da 25 a 31

14 Un particolare caso di “learning by hiring away” si è avuto nell’industria

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soggetti ad investire sulla loro istruzione, con l’obiettivo di aumentare il loro valore sul mercato per trarne così un profitto personale;

Infine la politica di immigrazione USA è riuscita a trascinare negli Stati Uniti studenti talentuosi provenienti da tutto il mondo (soprattutto a scapito di paesi che non hanno saputo valorizzare giovani talenti) determinando così un guadagno netto per gli USA e le sue imprese che hanno potuto usufruire del sapere di questi soggetti senza il bisogno di investire nella loro istruzione.

Per quanto riguarda la seconda causa profonda di erosione, dal 1980 in poi, negli USA, si è assistito ad una incredibile crescita degli investimenti dei Venture Capital che sono passati dall’investire complessivamente 700 milioni di dollari nel 1980 a più di 80 miliardi di dollari nel 2000. Anche se nel 2001 gli investimenti sono crollati di circa 36 miliardi di dollari (a causa dello scoppio della bolla dell’e-commerce) nel 2003 risultano15 pari a 250 miliardi di dollari,

dunque si ritiene che il mercato del Venture Capital sia ormai un importante realtà che modificherà profondamento il mondo dell’impresa.

Ai fattori di erosione derivati individuati dallo stesso H. Chesbrough è possibile aggiungerne altri due, che amplificano ed accelerano l’effetto dei precedenti, e che sono delle conseguenze dello sviluppo di internet:

L’accelerazione della velocità di scambio delle informazioni, data sia dalla disponibilità di motori di ricerca avanzati, sia dalle connessioni internet sempre più veloci;

La contemporanea riduzione del costo da sostenere per scambiarsi informazioni, dato sia dall’accesso internet a basso costo, che dalla disponibilità di database scientifici pubblici, di articoli di giornale online.

15 H. Chesbrough (2003), The era of open innovation, MIT Sloan Management Review,

(25)

Questo porta all’accesso ad una vastissima conoscenza con un incredibile risparmio di tempo e risorse.

1.4 Il paradigma dell’Open Innovation

1.4.1 Definizione e caratteristiche

Il termine Open Innovation lo troviamo per la prima volta in un lavoro di Henry Chesbrough16 considerato a tutti gli effetti il padre di tale modello. Sebbene la

prima letteratura sull’argomento è stata realizzata proprio da Chesbrough nel 2003 erano già presenti esempi nella pratica di “come catturare idee dal mondo” (come ad esempio il progetto “Connect + Develop” di P&G lanciato nel 1999). I fattori di erosione espressi nel paragrafo 1.3.3 hanno messo in crisi l’approccio Closed Innovation rompendo il circolo virtuoso, che autoalimentandosi garantiva la sostenibilità del modello, portando così al nuovo paradigma dell’Open Innovation. La rottura di tale circolo è illustrata nella figura 1.6:

Figura 1.6: The Virtuous Circle Broken (Fonte: H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and profiting from technology, Harvard Business School Press, Introduzione, pagina xxiii)

16 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

(26)

Come è possibile osservare dalla figura il circolo virtuoso si è rotto perché nel nuovo paradigma, le imprese, continuando ad operare con strutture verticali fortemente integrate, lasciando alcune idee on the shelf rischiano di farsele rubare da altre aziende consolidate o start-up, che portando sul mercato le idee delle prime, realizzando nuovi prodotti o servizi, capitalizzano gli investimenti effettuati dalle prime. Come è naturale molte di queste start-up falliscono, mentre altre si espandono attraverso un IPO o facendosi acquisire da imprese più grandi capitalizzando l’investimento dei Venture Capitalist e degli investitori che avevano avviato la start-up. Nella migliore delle ipotesi le start-up non reinvestono i loro profitti in ulteriori progetti di ricerca, in quanto preferiscono cercare all’esterno altre start-up da finanziare, rompendo così il circolo virtuoso che teneva in piedi il modello della Closed Innovation. Inoltre, dato che la prima grande azienda nella quale l’idea era nata non ha ottenuto ritorni dall’invenzione rivelatasi successivamente di successo, non ha alcun profitto da investire in nuovi progetti di sviluppo. I fattori di erosione hanno cambiato definitivamente il contesto all’interno del quale si muovono le imprese, trasformando un ambiente a bassa diffusione della conoscenza in uno a larga diffusione del sapere che adesso è detenuto da università, società di consulenza, consorzi, centri di ricerca, start-up ecc. dunque gli elementi che stanno alla base del paradigma dell’Open Innovation sono:

L’elevata diffusione della conoscenza;

L’esistenza di percorsi alternativi a quello interno, attraverso i quali le idee possono giungere sul mercato;

Un più veloce ciclo di vita di un prodotto.

Chesbrough nella sua prima opera in tema di Open Innovation definisce così il nuovo paradigma17: “Open innovation is a paradigm that assumes that firms can

and should use external idea sas well as internal ideas, and internal and external

17 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

(27)

paths to market, as the firms look to advance in their technology. Open Innovation combines internal and external ideas into architecture and system whose requirement are defined by a business model. The business model utilizes both external and internal ideas to create value, while defining internal mechanism to claim some portion of the value. Open Innovation assumes that internal ideas can also be taken to market through external channels, outside the current business of the firm, to generate additional value”.

Innanzitutto, dato il nuovo contesto di diffusione della conoscenza le imprese devono trasformare in vantaggio le peculiarità del nuovo ambiente operando cambiamenti organizzativi tali da modificare l’approccio al processo innovativo passando da uno chiuso verso l’esterno ad uno quanto più aperto possibile. Le imprese, dunque, al posto di creare grandi centri di ricerca interni al fine di produrre quante più invenzioni possibile e guidare il settore, dovrebbero attingere al sapere esterno in quanto più disponibile in termini di tempo e decisamente meno oneroso ed utilizzare questi centri per catturare conoscenza dall’esterno e per poi colmare i gap esistenti nel nuovo sapere, applicandolo nella realizzazione di nuovi prodotti o servizi (queste operazioni vengono definite da Chesbrough attività di “outside-in Open Innovation”). Dall’altro lato l’impresa, sempre per trarre il massimo vantaggio dal nuovo contesto, dovrebbe cercare di far rendere il più possibile la sua conoscenza, dunque, sotto questa logica, appare evidente che non è più pensabile lasciare le idee on the shelf. Adesso l’azienda anche attraverso il suo centro di ricerca interno, dovrebbe cercare nuovi utilizzi esterni per le invenzioni inoperose che potrebbero portare a nuovi prodotti o servizi se utilizzati da altre imprese o start-up. Queste ultime con un modello di business diverso possono far giungere idee innovative sul mercato, trasformando in nuove entrate le innovazioni che l’impresa aveva on the shelf, considerate le vecchio paradigma come un costo del fare impresa. Facendo uscire le idee inoperose dall’impresa per darle in licenza attraverso partnership o investendo in nuove start-up, si ottiene un guadagno da ciò che in precedenza era considerato un costo (queste attività, come già espresso precedentemente, portano le idee interne

(28)

a seguire percorsi esterni di sviluppo dando luogo ad attività di “outside-in Open Innovation”). In particolare lo stesso Chesbrough individua18 le seguenti cinque

modalità per portare idee interne sul mercato attraverso percorsi esterni: 1. Diventando consumatore o fornitore del progetto interno;

2. Lasciando che siano gli altri a sviluppare le iniziative non strategiche; 3. Puntando fortemente sull’IP;

4. Facendo crescere in proprio ecosistema anche quando l’azienda non sta crescendo;

5. Creando nuovi orizzonti e riducendo i costi.

In definitiva il guadagno che l’impresa può trarre attraverso percorsi di inside-out Open Innovation è:

Di carattere economico, a fronte di royalty in caso di licenza, da altri tipi di vantaggi se realizza partnership o da capital gain se l’investimento viene fatto in start-up. In questo modo le imprese concentrando poche risorse in questi progetti evitano di perdere qualsiasi possibilità futura di guadagno da queste idee;

Di carattere sociale, in quanto aumenta la soddisfazione degli inventori che operano nell’azienda che vedono uno sbocco per le loro idee.

A partire da ciò va delineandosi un nuovo ruolo affidato ai centri di ricerca e sviluppo interni alle imprese che devono:

Da un lato cercare, trovare e acquisire conoscenza disponibile all’esterno di cui si necessita e integrarla con il sapere interno;

Dall’altro cercare possibilità di utilizzo per le idee on the shelf, cercando così di trasformare un costo in un profitto per l’impresa.

18 H. Chesbrough e A. R. Garman (2009), How Open Innovation can help you cope in

(29)

Dunque i centri di ricerca interni, nel nuovo paradigma, ricoprono il ruolo di intermediari dell’innovazione gestendo l’IP sia in entrata che in uscita. La gestione dell’IP diventa in questo modo un processo fondamentale dei processo di innovazione aperta in quanto, in un ambiente in rapida evoluzione nel quale la conoscenza è largamente diffusa, le imprese devono operare nella consapevolezza che le loro innovazioni verranno presto o tardi imitate e diffuse da altre aziende. In questo contesto le imprese che giungono a nuove scoperte devono, piuttosto che mantenerle a propria disposizione, venderle ad altre organizzazioni con l’obiettivo di raggiungere un mercato quanto più esteso possibile. Da qui parte la necessità di gestire l’IP a livello strategico con il fondamentale supporto dei centri di ricerca interni. Proprio nell’approccio Open Innovation l’impresa deve essere un attivo compratore di IP, questo significa che le diverse business unit aziendali avranno diverse idee (sia interne che esterne) dalle quali attingere. Ne consegue che la funzione sviluppo non dipenderà più solo e soltanto da ciò che deriva dalla ricerca interna e non dovrà scontare i tempi delle nuove scoperte della stessa. Questo porta ad una competizione delle idee interne ed esterne all’impresa, grazie alla quale si attiverà un processo di miglioramento continuo dell’attività di ricerca interna. D’altro canto, il nuovo paradigma prevede che l’IP venga gestita anche in uscita con la conseguenza che le scoperte della ricerca non devono essere portate sul mercato dalla funzione Sviluppo ma possono seguire vie esterne. L’impresa non seguirà, dunque, il percorso di sviluppo interno a quello esterno ma valuterà di volta in volta la strada più opportuna da seguire per portare l’idea sul mercato. La figura 1.7 sintetizza l’approccio al processo innovativo suggerito dal nuovo paradigma dell’Open Innovation:

(30)

Figura 1.7: The Open Innovation Paradigm for Managing Industrial R&D (Fonte: H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and profiting from technology, Harvard Business School Press, pagina xxv)

Come si evince dall’immagine i confini dell’impresa non sono più rigidi come nel vecchio paradigma e permettono:

Da un lato alle idee che nascono nell’azienda di seguire anche i percorsi di sviluppo esterni che possono condurre a nuovi mercati;

Dall’altro lasciano entrare nell’azienda le innovazioni esterna, a diversi stadi del loro percorso di sviluppo.

Seguendo lo schema suggerito dalla figura, le idee spostandosi da sinistra verso destra vengono selezionate evitando di portare sul mercato dei falsi positivi, ma non solo il modello consente inoltre di individuare i falsi negativi. Questi ultimi sono dati dalla quelle idee che in un primo momento sembrano di scarso valore rivelandosi solo in seguito di grande valore e che secondo l’approccio suggerito dal vecchio paradigma non sarebbe stato possibile recuperare. L’approccio Open Innovation offre in questo modo diversi percorsi allo sviluppo dando alle idee valore che immediatamente non sarebbe visibile.

(31)

Nella definizione di H. Chesbrough del nuovo paradigma, si mette in risalto il ruolo del business model, che serve a definire i requisiti del sistema e dell’architettura che l’impresa deve avere per combinare profittevolmente le idee interne e quelle esterne. Dell’importanza del business model, delle sue funzioni e delle modifiche che le imprese vi devono apportare per competere con successo all’interno del nuovo paradigma si occuperà il paragrafo successivo.

1.4.2 L’impatto dell’Open Innovation nei modelli di business

È bene iniziare la trattazione riportando le definizioni fondamentali di business model e di IP, successivamente verrà analizzata l’importanza del modello di business e le modifiche che questo subisce nel passaggio dal vecchio al nuovo paradigma, il tutto seguendo il framework suggerito da H. Chesbrough nella sua opera fondamentale19 in materia. A tal proposito Henry Chesbrough e Richard

Rosenbloom individuano le sei principali funzioni del business model nelle seguenti:

1. “To articulate the value proposition, that is, the value created for users by the offering based on the technology

2. To identify a market segment, that is, the users to whom the technology is useful and the purpose for which i twill be used

3. To define the structure of the firm’s value chain20, which is required to

create and distribute the offering, and determine the complemetary assets needed to support the firm’s position in this chain

4. To specify the revenue generation mechanism(s) for the firm, and estimate the cost structure and target margins of producing the offering, given the value proposition and the value chain structure chosen

19 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

profiting from technology, Harvard Business School Press

20 In questo elaborato il termine value chain viene inteso nel significato fornitogli da M.

Porter nel 1985 in Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance

(32)

5. To describe the position of the firm within the value network linking suppliers and customers, including identification of potential complementary firms and competitors

6. To formulate the competitive strategy by which the innovating firm will gain and hold advantage over rivals”21.

Approfondendo quanto sopra è possibile notare che l’articolazione della value proposition è strettamente collegata all’identificazione del segmento di mercato, in quanto la prima, nel definire sia il prodotto offerto che l’uso che ne farà il consumatore porta a determinare il valore creato per il consumatore solo dopo aver identificato quali sono i consumatori ci si intende riferire e per quale scopo il prodotto dovrebbe essere utilizzato da questi ultimi. Per offrire un prodotto che crei valore per gli utenti finali l’azienda deve identificare bene il segmento di mercato al quale si riferisce e le caratteristiche del prodotto che danno maggiori benefici ai consumatori nell’ottica di un miglioramento futuro su queste ultime. Dopo aver determinato la value proposition e il market segment l’impresa deve procedere nel definire la value chain che è data dall’insieme delle attività che si devono svolgere per far arrivare al consumatore il prodotto. Nel compiere ciò l’azienda deve riuscire a coordinare tutte le attività in modo da creare valore attraverso la catena per i vari soggetti che ne prendono parte apportando un contributo, riuscendo allo stesso tempo a trattenere per sé una parte del valore creato. A tal proposito l’impresa utilizzerà quell’opportuna catena del valore che le permetterà di sfruttare i suoi asset e la sua tecnologia mettendola al centro della value proposition. Per stabilire l’impostazione della value chain, lo sfruttamento del value network e la relativa distribuzione del valore creato tra i soggetti che ne fanno parte, l’azienda deve conoscere la struttura dei costi che i vari soggetti svolgono per apportare il loro contributo, valutandone gli sforzi e potendo determinare dei livelli di margine obiettivo, ovvero i ritorni da riconoscere ai vari soggetti. Il value network comprende terze parti esterne alla

21 Tratto da H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating

(33)

diretta catena del valore, che però possono giocare un ruolo fondamentale per il successo e lo sviluppo dell’innovazione. L’impresa può influenzare lo sviluppo di queste ultime parti attraverso un’attenta gestione dell’IP. Com’è noto la strategia competitiva dell’impresa è l’elemento che in buona parte le consente di trattenere valore per sé, in quanto le permette di mantenere un vantaggio sui competitors mettendola in posizione di forza rispetto agli altri soggetti che fanno parte della sia della catena che della rete del valore un attrattivo partner per il business.

Attraverso questo passaggio abbiamo capito che il concetto di IP è strettamente collegato a quello di business model, in quanto da un lato l’ottenimento di IP esterna può permettere all’azienda di creare valore e trattenerne una parte per se e dall’altro una attenta gestione dell’IP può portare l’innovazione a diventare un design dominate. È bene fornire una definizione di IP precisando che non tutte le idee dell’impresa si possono proteggere, in quanto “Intellectual property refers to the subset of ideas that (a) are novel, (b) are useful, (c) have been reduced to practice in a tangible form, and (d) have been managed according to the law”22.

Il termine IP fa riferimento ad un insieme di strumenti (tra i quali si ricordano: brevetti, copyright, trade secrets, ecc.) che hanno finalità di assicurare all’inventore la disponibilità esclusiva dell’invenzione per un determinato periodo di tempo. Il presente lavoro non si propone di esaminare nel dettaglio tutti gli strumenti che rientrano nel termine IP ma verrà affrontato nello specifico il tema dei brevetti in quanto rappresentano gli strumenti più diffusi per la protezione delle tecnologie.

Sulla base di quanto affermato precedentemente è possibile dedurre che solo e soltanto le idee nuove (con ciò non si intende le innovazioni di rottura, ma piuttosto tutte le invenzioni che presentano elementi di novità), utili (dalle quali si può trarre utilità), non ovvie, che sono già state trasformate in innovazioni in

22 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

(34)

quanto tradotte in un uso pratico e che hanno subito un iter legislativo preciso per arrivare ad ottenere la protezione. I brevetti e in generale l’IP rappresentano una sorta di contratto23 che la collettività stipula con l’inventore riconoscendogli il

diritto di uso esclusivo della tecnologia per un certo periodo di tempo. Questo diritto serve al garantire all’inventore un periodo di “monopolio”, durante il quale, trasformando l’idea in nuovi prodotti e servizi che vengono venduti sul mercato, l’inventore viene ripagato dell’investimento sostenuto per giungere alla scoperta. Dunque, il fine di questi strumenti è in linea con l’utilizzo che ne viene fatto all’interno del paradigma della Closed Innovation, dove l’IP rappresenta una barriera all’entrata per i competitor dell’inventore. In questo contesto la gestione dell’IP veniva affidata alla funzione legale dell’azienda. Dagli anni ’80 in poi il rafforzamento della protezione offerta dai brevetti ha portato alcune aziende ad usare l’IP come una fonte di ricavi e di profitti in sé, facendo diventare la gestione dell’IP un aspetto di rilevanza strategica da gestire a livello corporate.

È necessario, volendo approfondire la questione, mettere in evidenza tre aspetti che spiegano perché le idee che rispondono alle caratteristiche sopra richiamate non vengono protette. Innanzitutto le invenzioni per essere brevettate devono seguire un iter molto lungo e costoso (in media 25 mesi con costi che oscillano tra i 15.000 e i 50.000 dollari per brevetto)24. Il secondo aspetto riguarda la

bassissima percentuale di idee brevettate che si rivelano di grande valore. Infine è bene ricordare che l’idea in sé non ha valore ma è l’innovazione che viene portata sul mercato con il giusto business model che porta al raggiungimento di una redditività futura in ogni caso molto difficile da prevedere nel momento in cui si decide se brevettare oppure no. Dunque sommando la consapevolezza che molti brevetti rimarranno improduttivi, all’imprevedibilità sulla redditività futura

23 H. Chesbrough (2008), Open business models: how to thrive in the new innovation

landscape, Harvard Business School Press, pagina 7 e 8

24 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

(35)

dell’idea prima che questa giunga sul mercato è possibile comprendere perché molte invenzioni brevettabili non vengono protette.

Alla luce di queste definizioni è possibile comprendere che il valore di una innovazione sta in buona parte nel modello di business che viene adottato e non dall’invenzione in sé. Sono numerosi gli esempi che mostrano come la stessa idea portata sul mercato con business model diversi hanno portato a risultati radicalmente diversi. Tra i casi più celebri è bene ricordare XEROX – Adobe e il caso XEROX – 3Com, tecnologie elaborate all’interno di PARC, il laboratorio di ricerca interno all’azienda XEROX, sviluppate attraverso business model non in grado di sprigionarne il loro reale valore. Solo una volta uscite da XEROX e sviluppate da nuove start-up (3Com e Adobe) con appropriati modelli di business hanno sprigionato tutto il loro reale valore. Evidenze empiriche dimostrano che un’invenzione brillante sviluppata con un modello di business non idoneo crea meno valore di una scoperta meno brillante ma valorizzata dall’opportuno business model. Muovendosi all’interno del vecchio paradigma l’impresa seleziona solo le idee che si possono portare sul mercato attraverso business model già in uso lasciando così on the shelf moltissime invenzioni che se fossero portate sul mercato da start-up come nei casi sopra citati potrebbero rivelarsi di estremo valore. Seguendo l’approccio dettato dalla Closed Innovation, le grandi corporation lasciano inoperose le idee incompatibili con il proprio modello di business, perché se fossero portate sul mercato attraverso l’utilizzo dei business model già in uso dall’azienda si rivelerebbero dei flop. In questo modo viene a crearsi un duplice problema, da un lato le imprese perdono l’occasione di creare valore, dall’altro lato nel contesto del vecchio paradigma mancano percorsi alternativi e, considerato che la conoscenza è poco diffusa, resteranno inoperose conseguendo una perdita di valore per l’intera società. All’interno del nuovo paradigma, l’impresa, oltre ad avere confini meno rigidi che permettono uno scambio bidirezionale delle idee con l’esterno, guarda alle innovazioni nella consapevolezza dal fondamentale ruolo giocato dal business

(36)

model che porta l’idea sul mercato. In questo contesto l’azienda cercherà sia all’interno che all’esterno idee da portare sul mercato attraverso i percorsi di sviluppo interni usando il suo business model attuale e contemporaneamente cercherà per le idee interne incompatibili con il proprio modello di business dei percorsi esterni di sviluppo, ovvero delle start-up o altre aziende che applicano un business model coerente con l’innovazione avendo in questo modo maggiori probabilità di avere successo. Allo stesso tempo l’impresa che opera nel nuovo paradigma cerca di espandere, estendere e a volte cambiare il proprio business model quando capisce che questo ormai è superato nel settore in cui opera.

A ben vedere lo scopo del business model è di aiutare le aziende a innovare gestendo la complessità intrinseca in un ambiente caratterizzato da una forte incertezza sia tecnica che di mercato. All’interno di questo contesto, il business model fornisce uno schema che serve a semplificare la realtà, separando in un primo momento il dominio delle scelte tecniche da quelle economiche e permettendo ai soggetti che fanno parte delle relative aree di trovare le soluzioni ai relativi problemi, per poi ricompattare il tutto fornendo una soluzione complessiva. Questa funzione del modello di business è necessaria e sufficiente nel vecchio paradigma mentre si rivela solo necessaria nel nuovo, all’interno del quale si richiede ai manager delle due aree un ulteriore sforzo, finalizzato ad analizzare i problemi che si presentano anche con un approccio critico verso lo stesso business model, per permettere così all’impresa di comprendere quando è necessario far seguire alle idee un percorso esterno e quando invece è l’azienda stessa a dover superare il proprio modello di business. Scendendo nello specifico gli addetti all’area tecnica devono sperimentare contemporaneamente le nuove tecnologie ed alternativi business model per le stesse, considerando sia l’opzione di svolgere internamente all’azienda tutte le attività della catena del valore, che la possibilità di concentrarsi su una parte più o meno ampia della stessa. Per fare questo, i soggetti dell’area tecnica dovranno mettere a disposizione dei lavoratori dell’area economica strumenti per esplorare nuove forme di collaborazione e divisione del lavoro con altri soggetti coinvolti nella rete del valore. Allo stesso

(37)

tempo i soggetti dell’area economica devono raccogliere dati e informazioni relative a contesti nel quale le idee verranno applicate, presentando le tecnologie all’esterno e riportando i feedback all’area tecnica, che con una migliore comprensione dell’ambiente all’interno del quale si muove può cercare diverse vie di sviluppo per le idee.

Data la complessità della sfida, per i soggetti delle due aree e per l’impresa nel suo complesso, risulta evidente che un ottimo aiuto può arrivare da questi nuovi attori che sono sorti nel contesto dell’Open Innovation, gli innovation intermediaries. Le aziende rivolgendosi a questi attori non risolvono tutti i loro problemi, perché devono comunque avviare una serie di modifiche al loro interno che partono dai mind-set e passando attraverso cambiamenti organizzativi, che favoriscano un’agevole interlocuzione tra le aree, portano a diversi sistemi di incentivazione dei lavoratori 25 . Al riguardo è meritevole di citazione

l’inadeguatezza dei sistemi di incentivazione che le organizzazioni usano verso i membri dei loro centri di ricerca interni. Da un’indagine informale svolta dallo stesso H. Chesbrough26 su un certo numero di imprese high-tech, si evince che i

modelli di incentivazione da queste usati per spingere i ricercatori a trovare nuove idee brevettabili risultano altamente inadeguati, non solo all’interno della nuova visione offerta dal paradigma dell’Open Innovation, ma anche all’interno del vecchio regime. Infatti, dall’analisi si deduce che le imprese non fanno abbastanza per condividere il business model dell’azienda con i ricercatori collocandoli in una posizione isolata rispetto al resto dell’organizzazione. Inoltre alla luce del ruolo fondamentale svolto dal business model per creare e trattenere valore dalle innovazioni, ci si aspetterebbe che i modelli di incentivazione dovrebbero spingere i ricercatori a fare scoperte che si possano fare internamente attraverso l’attuale business model, mentre i risultati riportati da H. Chesbrough

25 Sistemi di incentivazione diversi basati su metriche e modalità di misurazione

differenti, come sostenuto da Alpheus Bingham e Dwayne Spradlin (2011), The open

innovation marketplace: creating value in the challenge driven enterprise, Financial

Times Press, pagina da 31 a 33

26 H. Chesbrough (2003), Open Innovation: the new imperative for creating and

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mostrano che nessun incentivo è fornito per spingere gli studiosi in questa direzione. Al contempo, basandosi sulla circostanza che una percentuale limitata di brevetti è realmente redditizia, ci si aspetterebbe che i sistemi di incentivazione premino i ricercatori in base alla redditività delle scoperte, invece risulta che le imprese premiano soprattutto le invenzioni e l’ottenimento del brevetto e solamente l’Università di Stanford ha un meccanismo di incentivazione che premia l’inventore in base alla redditività che la scoperta porta. Per concludere, sebbene considerevole è il lavoro che le imprese devono svolgere nel passaggio ala nuovo paradigma, risultano anche delle profonde incoerenze nell’applicazione del vecchio modello.

Per analizzare in modo più approfondito le trasformazioni che subisce il business model passando dall’approccio Closed a quello Open Innovation, bisogna comprendere le cause e le conseguenze portate dal rafforzamento della protezione offerta ai brevetti. Dagli anni ’80 in poi, a seguito di una precisa politica industriale seguita dagli USA volta ad incentivare l’innovazione, venne aumentata la protezione offerta dai brevetti. Tale politica è stata intrapresa nel timore di perdere la leadership in alcuni settori industriali a vantaggio del Giappone e, la forza con cui venne data protezione all’IP è testimoniata da alcune sentenze conclusesi con pesantissime condanne per chi infrangeva i brevetti27. Forti di tali politiche alcune aziende iniziarono a considerare l’IP

come una fonte di ricavi e profitti in sé, trasformandole in attivi venditori dei loro brevetti. La conseguenza di tutto ciò è stata la nascita dei cosiddetti secondary market, ovvero quei mercati all’interno dei quali l’IP viene scambiata. Questi mercati secondari dell’innovazione permettono lo sfruttamento di ciascuna tecnologia all’interno di più settori per mezzo di una moltitudine di imprese, che applicando diversi modelli di business portano con successo l’idea sul mercato. I secondary market favoriscono una divisione del lavoro sempre più accentuata caratterizzata dalla presenza di imprese sempre più specializzate, arrivando così a

27 A tal proposito si ricorda la sentenza che nel 1985 condannò Kodak al risarcimento

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