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L’ironia nel tempo: da Aristotele alla post-modernità 16

Presupposti teorici dell’ironia

3. L’ironia nel tempo: da Aristotele alla post-modernità 16

Il termine ironia fa la sua prima apparizione nell’ambito della commedia, quando l’eíron riconduce all’immagine del personaggio inaffidabile e disonesto; nei testi di Aristofane emerge la figura del presuntuoso dissimulatore, il quale

14 Eleonor N. HUTCHENS, art. cit., pp. 352−355. Cfr. anche: Alice MYERS ROY, Towards a

Definition of Irony, in Studies in Language Variation, Washington D.C., Georgetown University Press, 1977, pp. 171−183.

15 Cfr. l’utile articolo di Dan SPERBER e Deidre WILSON, On Verbal Irony, in “Lingua”, 87, 1992, pp. 53−76; degli stessi autori era stato precedentemente pubblicato anche un altro lavoro: Les

ironies comme mentions, in “Poétique”, 36, 1978, pp. 398−412.

16 Per una sintesi storica sul tema, utile è l’articolo di Arié SERPER, Le concept d’ironie, de Platon

au Moyen Âge, in “Cahiers de l’Association internationale des études françaises”, 38, 1986, pp. 7−25.

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adulando e ingannando i più deboli è costretto alla sconfitta dall’antagonista positivo, che pure ricorre all’arte simulatoria, ma con spirito filantropico. Sempre nell’ambito della commedia prende forma un altro elemento caratteristico dell’ironia: quello dell’identità segreta (presente, per esempio, nel romanzo di Delibes del 1983, Cartas de amor de un sexagenario voluptuoso), in cui i protagonisti agiscono trincerati dietro un falso profilo, pretestuosa identità che muta in funzione delle circostanze. Questo contrasto tra essere e apparire, tra realtà e finzione, origina dissociazioni narrative il cui esito è un’evidente struttura ironica.

Con le dissertazioni filosofiche di Platone e gli scritti di Aristotele all’ironia viene conferito carattere più organico. Il valore del termine in rapporto all’idea di “dissimulazione” emerge chiaramente, nella Repubblica, dalla bocca di Trasimaco, il quale si rivolge a Socrate per chiedere lumi sul concetto di “giustizia”:

Che razza di chiacchiere ormai da tempo vi impegnano, o Socrate? E quali ridicoli complimenti vi scambiate a vicenda? Se davvero vuoi sapere che cos’è il giusto, non basta chiedere per il gusto di confutar le risposte, perché lo sai bene, è più facile porre quesiti che dare soluzioni. Piuttosto, dalle tu queste risposte e dicci una buona volta che cosa intendi per giusto. […]

«O Trasimaco, non avercela con noi; se io e il mio amico in qualcosa abbiamo sbagliato nell’argomentare il nostro discorso, sappi bene che non l’abbiamo fatto volontariamente. Tu certo non ci crederai, ma se fossimo alla ricerca dell’oro non saremmo disposti a scambiarci fra noi insulsi complimenti col rischio di compromettere la ricerca; figurati un po’ trattandosi della giustizia, che vale ben più di molti ori, se staremmo qui a farci assurde cerimonie, anziché impegnarci al massimo per far luce su di essa. Credimi, amico, la verità è che noi non ne abbiamo le capacità; e per questo, da uomini del vostro calibro, è bene che noi si abbia compassione, piuttosto che malanimo».

Udito ciò egli scoppiò in una risata sarcastica e se ne uscì con queste parole: «Per Eracle! Eccoci come al solito alle prese con la famosa ironia socratica. Ma già lo sapevo e l’avevo pur anticipato a questa gente che tu ti saresti rifiutato di rispondere, avresti assunto la maschera dell’ironia, facendo di tutto pur di non dare risposte a chi te le avesse chieste».17

Si evince una disposizione nei confronti dell’ironia tendenzialmente negativa, sia in termini di atteggiamento morale che da un punto di vista linguistico: lo stile ironico, infatti, elogiando un soggetto mentre lo deplora, impiega un codice subdolo e una modalità comunicativa tendenziosa e falsa.

17 PLATONE, Repubblica, libro I, vv. 336C, 337A, pp. 1090−1091, in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi, 1991.

9 Anche Demostene si concentra sui difetti dell’eíron, e in questa figura colloca l’archetipo del cittadino ingannatore, che mentre dichiara una presunta ignoranza, sfugge ai propri obblighi civici. Teofrasto nuovamente sottolinea la prerogativa del dissimulatore: presentarsi come fallace turlupinatore, di cui risalta – come ben sostiene Maria Giaele Infantino – il tratto menzognero: “[…] è la falsità a prevalere, e la maschera che l’ironista indossa mentre comunica è fatta per nascondere e non per rivelare”.18

Dalle pagine della Retorica lo Stagirita dipinge l’eíron quale soggetto di cui dubitare a causa della sua doppiezza (1382b, 18−20)19 e da cui prendere le distanze per sfuggire ai contraccolpi originati dalla sua efferatezza verbale (1379b, 30). 20 Il filosofo greco riconosce all’ironia anche un profilo burlesco: “[…] Gorgia disse che è necessario demolire la serietà dell’avversario con il riso e il riso con la serietà […]. L’ironia è più degna dell’uomo libero della buffoneria, poiché nel primo caso si crea il ridicolo per il proprio divertimento, mentre il buffone lo fa per quello di un altro” (1419b, 8,9). 21 Al soggetto che fa uso dell’ironia viene qui attribuito un particolare stile comportamentale ed espressivo, legato, più che alla retorica, all’etica (in realtà Aristotele affronta il tema dell’ironia nella parte III del suo trattato, in cui si dedica alla descrizione delle specificità del discorso). In ogni caso, il significato originale del termine pare discostarsi da quello attualmente riconosciuto e, soprattutto, rimane circoscritto all’ambito morale. La distinzione che egli opera tra ironico e millantatore, illustrata nell’Etica nicomachea, è oltremodo significativa: “Sembra che il millantatore sia uno che simuli cose illustri, che in realtà non possiede, o maggiori di quelle che possiede; l’ironico al contrario nega d’avere ciò che ha e cerca di diminuirlo” (1127a, 21−31)22. Quest’ultimo avrebbe dunque le caratteristiche del dissimulatore “modesto” e umile perché non si riconosce qualità superiori, o semplicemente le sminuisce, accettando i propri limiti e differenziandosi dal presuntuoso, il quale finge di possedere, invece, peculiarità esclusive, al fine unico di conseguire un vantaggio personale:

18 Maria Giaele INFANTINO, L'ironia: l'arte di comunicare con astuzia, Milano, Xenia, 2000, p. 7.

19 ARISTOTELE, Retorica, Milano, Mondadori, 1996 (2010), p. 171.

20 Ivi, p. 155.

21 Ivi, p. 379.

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Gli ironici […] dicendo meno del vero, appaiono più simpatici nei loro costumi (essi infatti non sembrano parlare per guadagno, bensì per sfuggire ogni sfoggio): e soprattutto costoro evitando le onorificenze, come faceva Socrate. Quelli poi che dissimulano anche nelle cose piccole ed evidenti sono detti affettati e sono più spregevoli […]. Chi invece usa moderatamente dell’ironia ed è ironico in cose non troppo comuni ed evidenti appare simpatico. Sembra dunque che al veritiero si contrapponga il millantatore: è infatti il peggiore.23

Si tratta dei medesimi presupposti teorici che sostengono la semplicità del metodo socratico e che insieme anticipano alcune costanti del pensiero ironico moderno, entro cui si ritrova sempre la possibilità di una tacita smentita: “[…] la ironía empieza justo cuando se empieza a ser consciente de que «lo que se dice ahora no parecerá muy convincente más adelante, que, de todo lo que digamos, siempre hay una parte que habrá que rechazar o modificar si se tienen en cuenta todas las cosas que se podrían decir»”.24

La teoria socratica e il sistema filosofico ad essa legato pongono l’accento sulla funzionalità investigativa dell’espediente ironico, che pretende di arrivare alla verità attraverso un percorso interlocutorio in cui un soggetto ingenuamente risponde e altrettanto spontaneamente si ritrova ad ammettere la precarietà delle proprie posizioni: in Socrate primeggia la volontà di stimolare l’altro al riesame critico delle proprie convinzioni affinché possa giungere, come sostiene Pessoa, alla “coscienza della propria coscienza”: “El hombre superior difiere del hombre inferior, y de los animales hermanos de éste, por la simple cualidad de la ironía. La ironía es el primer indicio de que la conciencia se ha tornado consciente”.25

La biforcazione semantica finora individuata ammette l’ironia tanto a livello del comportamento umano quanto a livello linguistico, come strategia; i distinti campi applicativi confluiscono nella nozione di ironia così come la intende Cicerone, che ricorrendo ad essa soprattutto per l’oratoria, riconosce la necessità di distinguerla da categorie affini, quali l’umorismo, il comico e il ridicolo. Nel libro II del De oratore, Cicerone specifica che: “Esistendo, infatti, due specie di

23 Ivi, pp. 100−101.

24 Pere BALLART, op. cit., p. 42 (la citazione riporta un passaggio di Platón, Defensa de Sócrates, trad. de Francisco Garcia Yagüe, in Obras completas, Madrid, Aguilar, 1966, p. 204).

25 Fernando PESSOA, Libro de desasosiego de Bernardo Soares, Barcelona, Seix Barral, 1997, p. 41 (tit. orig. Livro do Desassossego). Il medesimo concetto appare anche in Bergson: “Non vi è comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano”, Henri BERGSON, Il riso. Saggio sul

11 facezie, la prima, quella diffusa in ugual misura per tutto l’arco dell’orazione, l’altra, consistente in battute rapide e pungenti, l’una fu chiamata dagli antichi

cavillatio, l’altra dicacitas”. 26 Si stabilisce un binomio fondamentale: la distinzione tra un’ironia più sottile, ramificata nelle varie sezioni del discorso e che lo rende brillante e piacevole, e un’ironia circoscritta alla presenza di singoli termini che emergono nel dibattito e il cui obiettivo è, chiaramente, quello di colpire l’avversario. È sempre Cicerone, inoltre, il primo a proporre una delle categorizzazioni più comuni legate alla fisionomia del processo ironico: è possibile rintracciare le arguzie e le contraddizioni dell’ironista tanto nei fatti, ossia scontrandosi con un’ironia essenzialmente situazionale, quanto nelle parole, in cui il gioco ironico prende invece forma solo in ambito verbale:

Son, dunque, queste, le specie di ridicolo contenuto negli atti e proprie del tipo di scherzo continuato, con cui si descrivono e rappresentano al vivo i costumi, in modo che, previo l’inserimento di qualche fatterello, si comprenda di quale specie siano tali costumi o si metta in evidenza qualche difetto notevole, che si presti ad essere ridicolizzato mediante una rapida caricatura. Il ridicolo basato sulle parole, consiste, invece, nella causticità di un termine o d’una frase. Ma, come nella specie precedente, quelle relative all’aneddoto o alla caricatura, l’oratore deve evitare di assomigliare ai mimi etologi, così in questa deve aborrire con tutte le forze dalla scurrilità dei buffoni di mestiere.27

Inoltre, nella sezione in cui Cicerone si occupa del ridicolo, le considerazioni relative all’ironia aiutano a mettere in evidenza un ulteriore elemento: essa risulta efficace quanto più si dimostra equilibrata, non aggressiva, e non rivolta esclusivamente al parossismo. Il suo potere come strumento espressivo avrà valore nel momento in cui ad ispirarla non saranno la dismisura e l’eccesso, bensì la discrezione e l’intelligenza. E non marginali rispetto all’esito al quale punta l’ironico sono anche la sua intenzionalità e il contorno contestuale, che permettono di leggere l’ironia in maniera sempre nuova e diversa, a

26 Cicerone, Dell’oratore, a cura di Amedeo Pacitti, Zanichelli, Bologna, 1982, vol. II, Libro II, v. 218, pp. 165−166. Le note che chiariscono i termini cavillatio e dicacitas precisano: il primo vocabolo “Si potrebbe rendere con «garbata ironia», e consiste nell’attitudine di chi parla, a conferire al suo dire brio, piacevolezza e festività, prive tuttavia di punte astiose”; dicacitas “Si potrebbe rendere con «mordacità», «dicacità», «sarcasticità» ed indica quel parlare piccante, con cui si suscita il riso degli ascoltatori con espressioni brevi, argute e pungenti”, p. 295 (note 219 e 220).

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dimostrazione del fatto che nulla, preso nella sua spoglia letterarietà, è prontamente e innegabilmente ironico.

Una particolare enfasi sul contesto la pone anche Quintiliano, che parla dell’ironia nella sua Institutio oratoria28 , e precisamente nel libro VIII, includendola all’interno delle figure retoriche più comuni e frequenti. L’ironia, al pari dell’allegoria, nasconde dietro le parole un significato differente, allude e suggerisce, ma non dice chiaramente; inoltre, ciò che la distingue dagli altri tropi è la sua neutralità linguistica: il termine non è ironico di per sé – e quindi immediatamente ascrivibile a un’idea ironica – ma acquisisce tale senso in rapporto a un contesto e a una situazione specifica. È per questa ragione che per una corretta decodificazione degli enunciati e delle situazioni ironiche, risulta necessario appoggiarsi a tutta una serie di indicatori che possono fornire soluzioni interpretative adeguate, ma anche spesso divertenti e dubbie. Nelle argomentazioni di Quintiliano ritorna anche l’ironia intesa come figura del pensiero, distinta dall’ironia come tropo, nonostante condivida con quest’ultima categoria la volontà di trasmettere un’idea latente: “[…] l’ironia, considerata come figura, quanto al genere non è affatto diversa dall’ironia considerata come tropo (perché nell’una e nell’altra si deve sempre intendere il contrario di quel che si dice)”29; le difformità, però, non mancano:

[…] il tropo si lascia conoscere più facilmente e benché presenti un senso e ne contenga un altro, tuttavia non simula qualcosa di diverso dal vero, infatti quasi tutto ciò che lo circonda è chiaro e semplice […]. Ma nella figura si ha una dissimulazione dell’intenzione che si lascia conoscere, ma non si manifesta; cosicché là vi sono parole per altre parole, e qui c’è tutto un senso per un altro.30

Un sostanziale disinteresse nei confronti di un approfondimento teorico sul tema, unito ad un crescente abbandono della retorica come disciplina, caratterizza sostanzialmente tutta l’età medievale. La fisionomia della nuova società, teocentrica e quindi avversa a ogni forma di vaga interpretazione della parola (di Dio), a una rappresentazione ambigua del reale, non manifesta una particolare inclinazione all’impiego equivoco del linguaggio; e se lo spagnolo Gregorio

28 QUINTILIANO, Istituzione oratoria, a cura di Orazio Frilli, Bologna, Zanichelli, 1983.

29 Ivi, IX, v. 45, p. 161.

13 Mayans y Síscar dedica, a metà del Settecento, alcune parti della sua Retórica (1757) proprio allo studio dell’ironia, definendola come “traslación de la propia significación a la contraria” 31, sarà necessario attendere i nuovi movimenti ideologici che animeranno i primi anni del secolo successivo per incontrare riflessioni di un certo rilievo.

Il sentiero tracciato da Socrate, che viene ripercorso nel tempo a fasi alterne, ritorna in auge agli inizi dell’Ottocento, in cui la filosofia romantica recupera alcuni principi della classicità e ne propone una propria specifica rilettura. Si mette di nuovo in evidenza il carattere dissimulatorio dell’ironia e il gioco enigmatico che essa sottende, ma anche il concetto di “coscienza”, che l’ironia mira a smuovere, nonché quello di “verità”, fine ultimo dell’ironista che, dietro il complesso allestimento di sdoppiamenti e sottointesi, vuole portare a galla. Ciò che getta le premesse per un riesame dei procedimenti ironici è innanzitutto la nuova percezione della realtà che anima i romantici: caduta ogni certezza e venuto meno il convincimento di vivere in un mondo stabile e uniforme, i nuovi pensatori danno libero sfogo alla voce del singolo, ai suoi slanci mistici, alle sue stravaganze creative e, soprattutto, alla unica, possibile, forma di rappresentazione del reale, che viene ritratto in tutto il suo potenziale relativismo.

A caratterizzare l’interpretazione che il Romanticismo ci fornisce dell’ironia – conferma Ballart – è la sua entrata, a pieno titolo, nella sfera della produzione artistica e letteraria: “Más que un principio de sabiduría que asiste a la razón de su indagación sobre el mundo o que una táctica persuasiva que cabe emplear en disputas dialécticas, la ironía se coloca en el centro mismo de la relación entre el creador y su obra, explicándola y fijando sus límites a la par que tratando de abolirlos”.32 L’ironia diventa dunque l’occasione per meditare sulla relazione tra il creatore e la sua opera, di riflettere sulla effettiva possibilità di descrivere l’ambiente, la società, la vita stessa degli uomini, in termini assoluti, da parte di chi può contare, invece, su uno strumento limitato e ridotto come è il linguaggio. Le vie di scampo sfuggono ai pensatori del tempo, i quali, mentre prediligono la rappresentazione delle più visibili dinamiche oppositive (come lo è,

31 Gregorio MAYANS Y SÍSCAR, Retórica, in Obras completas, vol. III, ed. di A. Mestre Sanchís, Valencia, Publicaciones del Ayuntamiento de Oliva, 1984, cap. V “De los tropos”, p. 348.

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per esempio, il contrasto tra finito ed infinito33), ammettono l’impossibilità di far confluire, nell’opera letteraria, tutte le diverse sfumature dell’esistenza.

È Friedrich Schlegel il primo a diffondere il termine “ironia” nell’ambito degli studi letterari e sarà sempre lui a interpretarla non solo come un “dovere”34 artistico, quanto soprattutto come un adeguato strumento di rappresentazione del mondo, forse l’unica forma possibile per catturarne l’essenza paradossale e contraddittoria:

[…] la figura in cui l'ironia si esprime è il paradosso, che unisce in un’unica costellazione l’inconciliabile. L’ironia rovescia il movimento classico della filosofia, che muove dal concetto all’idea. L’idea diventa, per Schlegel, «il concetto condotto fino all’ironia, sintesi assoluta di antitesi assolute, la continua autogenerantesi alternanza di due pensieri in dissidio fra loro» (“Athenaeum”, 121). Il risultato di questa operazione non potrà essere unità e armonia, ma un frammento, oppure «un sistema di frammenti».35

Del pensiero schlegeliano ci interessa anche il concetto di “libertà” artistica, che egli associa all’utilizzo dell’ironia e che risulta particolarmente interessante se rapportato alle intenzionalità creative di Miguel Delibes: “Representar irónicamente las limitaciones equivale a transcenderlas” – precisa Ballart quando analizza Schlegel −, “a liberarse de sus ataduras y contemplarlas desde lo alto. […] el espíritu del artista debe conservarse en perpetua libertad”.36 E se lo scrittore di Valladolid ha modo di affermare che l’arte è, principalmente, una questione di “sensibilidad”, riconosce anche che essa “[…] exige una entrega incondicional, absoluta, ilimitada”.37

33 “El elemento común del concepto romántico de la ironía es presentar a ésta como expresión de la unión de elementos antagónicos, tales como la Naturaleza y el Espíritu, lo objetivo y lo subjetivo, etc. Por la ironía no se reduce uno de los elementos al opuesto, pero tampoco se funden los dos completamente; la ironía deja traslucir la “tensión” constante entre ellos”, in José FERRATER MORA, Diccionario de filosofía, vol. I, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 19655, p. 993 (disponibile anche online al seguente link: http://www.scribd.com/doc/5925122/Diccionario-de-Filosofia-Jose-Ferrater-Mora). In rapporto all’ironia romantica si veda: Domingo HERNÁNDEZ SÁNCHEZ, La ironía estética: estética romántica y arte moderno, Salamanca, Universidad de Salamanca, 2002.

34 Friedrich SCHLEGEL, Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Torino, Einaudi, 1998, p. 163 (titolo originale: Fragmente zur Poesie und Literatur, in Kritische

Friedrich-Schlegel-Ausgabe, hrsg. von E. BEHLER unter Mitwirkung von J.-J. ANSTETT und H. HEICHNER, XVI/I, Paderborn-München-Wien, Zürich, 1981, p. 124).

35 Franco RELLA, L’estetica del Romanticismo, Roma, Donzelli, 1997, p. 13.

36 BALLART, op. cit., p. 72.

37 Miguel DELIBES, La creación literaria, in Obras completas, vol. VI. El periodista. El ensayista, Barcelona, Destino, 2010, p. 275.

15 La questione pone le premesse per l’analisi di altri aspetti fondamentali che si relazionano con l’ironia, come quello dello “sdoppiamento dell’io artistico”, che ammette la dialettica tra svariate sfumature della realtà, e il concetto di “distanza”, che deve necessariamente crearsi tra colui che scrive (vale a dire colui che fa dell’ironia) e la materia trattata.38 L’ironista non solo rappresenta e aggrega il molteplice, ma “[…] es capaz de convertir el mundo y, con él, a sí mismo, en un espectáculo, en un theatrum mundi para su disfrute particular. El desapasionamiento de su mirada le dará no pocos motivos de comicidad, que, no obstante, revertirán en un estadio superior, transcendente, de interpretaciones completamente serias de la existencia”.39

Le riflessioni sull’ironia raggiungono esiti interessanti negli accurati lavori che ad essa vengono dedicati da alcuni dei più grandi filosofi dell’Ottocento e del Novecento; ci riferiamo in particolare agli studi di Søren Kierkegaard, che scrive, nel 1841, Sul concetto di ironia40, e Henri Bergson, autore de Il riso (1900). Il filosofo danese mutua il suo concetto di ironia da Socrate, sia come espediente persuasivo, sia come struttura comunicativa metodica e razionale, e dedica buona parte del suo lavoro all’influenza che Socrate stesso ebbe sulle interpretazioni successive del termine. La parte che certamente ci fornisce indicazioni utili per la nostra indagine è quella che Kierkegaard sviluppa nella II parte del suo libro (che titola Sul concetto di ironia), in cui include l’ironia non solo nell’ambito della retorica, ma la relaziona, ricalcando i presupposti della filosofia romantica, alla vita stessa:

È la forma più comune dell’ironia dire seriamente quanto invece non si prende sul serio. Più rara l’altra, di dire per ischerzo, scherzando, quanto si prende sul serio*.