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6. Il fallimento del debitore ceduto.

6.5 La Cessione pro soluto.

I formulari prevedono che se l'accettazione del factor si ha nel momento in cui il debitore è già sottoposto ad una delle procedure attuate a causa dell'insolvenza, ovvero quando l'istanza di tale procedura è pendente, la cessione pro soluto è inefficace. Siamo di

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fronte al caso in cui il factor, ignaro dell'insolvenza e della procedura stessa che incombe sul cedente, ha deciso di accettare la cessione pro soluto, dunque il fallimento o comunque l'istanza è anteriore all'accettazione della cessione stessa.

Nel caso contrario, ovvero di fallimento successivo alla cessione pro soluto, la cessione non diviene inefficace; talvolta i formulari prevedono il potere per le società di factoring, di revocare ad

libitum l'accettazione delle cessioni pro soluto; con la sola

condizione che tale revoca arrivi a conoscenza del fornitore prima dell'esecuzione della fornitura. Si presume che tale potere venga esercitato quando i factors hanno paura che il ceduto stia per essere assoggettato ad una procedura fallimentare, o quando vengono a conoscenza del fallimento stesso.

In tal caso, il fornitore assume nuovamente la qualifica di creditore fallito e viene applicata la disciplina generale della compravendita non ancora interamente eseguita da entrambe le parti, ovvero del compratore fallito.

Quanto descritto non deve farci pensare che il factor sia indifeso, perché se gli organi della procedura concorsuale non riconoscono il credito ceduto nel suo ammontare, a carico del debitore, il fornitore cedente perde la garanzia della accettazione pro soluto; ne consegue che la cessione viene accettata pro solvendo ed il

factor vanta il diritto al rimborso delle somme versate

precedentemente al fornitore-cedente. 123

In fine l'art. 26, della legge 11.2.1994 n. 109 ha esteso le disposizioni della legge 21.2.1991 n. 52 ai crediti verso la pubblica amministrazione che derivano da contratti di appalto di lavori pubblici, concessioni di lavori pubblici, da contratti di progettazione nell'ambito della realizzazione di lavori pubblici; in

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Conclusioni.

Il fallimento è quella particolare condizione di crisi, (l'insolvenza) nella quale viene a trovarsi un imprenditore commerciale; ovvero nel momento in cui è incapace di adempiere, con i normali mezzi, ai rapporti obbligatori di cui è parte.

Sarà l’autorità giudiziaria ad accertare che l’impresa si trova in uno stato economico e patrimoniale tale da non essere più in grado di proseguire la propria normale attività economica e commerciale.

Dopo che il Tribunale dichiara il fallimento dell’azienda, che faceva capo all’imprenditore fallito, cessa la propria attività e subentra al posto dell'imprenditore fallito, una figura nominata dal giudice; ovvero il curatore fallimentare.

Il curatore è colui che valuta quali e quanti sono effettivamente i debiti del fallito e dopo la liquidazione dei beni, che deve avvenire secondo le regole del codice civile e della legge fallimentare, provvede a soddisfare i creditori.

Quanto appena descritto rappresenta la situazione che si verifica a causa dell'insolvenza di un imprenditore che non può essere assoggettato al diritto commerciale comune, ma ad un regime speciale; il tutto perché la continuità dell'impresa da una parte e la sua immediata soppressione dall'altra, possono influire negativamente sull'intero sistema economico. In altre parole, la crisi di un impresa può essere paragonata ad un virus che si espande fino ad arrivare a coinvolgere l'intero mercato.124

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Mi sono soffermata ad analizzare i contratti che l'imprenditore fallito ha sottoscritto prima del fallimento ed ancora in vigore al momento della pronuncia del Tribunale.

In particolare e come evidenziato nel Capitolo 2 è la disciplina generale, prevista dall'art. 72 della legge fallimentare, che stabilisce il destino dei contratti ancora pendenti alla data di fallimento e prevede che la loro sorte è sostanzialmente in mano al curatore. Alla data della sentenza di dichiarazione di fallimento, il contratto si intende “sospeso” fino a quando il curatore non decide di comunicare all’altra parte di subentrare nel contratto al posto della parte fallita, assumendosi tutti gli obblighi contrattuali, oppure di sciogliersi dal medesimo.

E' stato evidenziato che nel nostro ordinamento sono presenti, anche, i contratti “Atipici” ed è proprio il 2° comma dell'art. 1322 del codice civile, la norma cardine in materia di atipicità, perché fa riferimento all'autonomia negoziale o meglio all'attitudine delle parti di predisporre negozi giuridici al di fuori dello schema prefissato; in quanto non appartengono a nessuna categoria contrattuale riconosciuta nel nostro ordinamento.

Questi contratti nascono e si sviluppano perché permettono ai privati di soddisfare, in maniera più efficiente, i loro interessi personali ed inoltre diminuiscono il peso nei confronti dello Stato nel gestire le azioni di tipo personale. Nella prassi, sono molti i contratti definiti “innominati” e nella maggior parte dei casi, sono di derivazione per così dire “social giurisprudenziale”.

Nell' esposizione mi sono limitata a descrivere due degli istituti, a mio avviso, più diffusi ed in particolare:

tradizionale, perché da la possibilità alle imprese di non immobilizzare grandi risorse di denaro, solo per l'acquisto di un bene, ma gli permette di godere e di disporre dello stesso, pagando le rate stabilite; inoltre alla scadenza del contratto ha la possibilità di decidere se diventare proprietario effettuando l'acquisto a titolo definitivo o di restituirlo. Questa soluzione è molto apprezzata dalle imprese.

- Il factoring ha portato notevoli vantaggi alle imprese, perché

possono cedere i loro crediti, ad un soggetto professionale che ha l'obbligo di gestirli e riscuoterli. Oltre a ciò permette all'impresa di ottenere, subito, una liquidità di cui necessita; senza tale contratto ciò sarebbe accaduto solo alla scadenza del credito ed al momento della riscossione dello stesso.

Questi non sono gli unici contratti Atipici, ed in tal caso potrei fare un piccolo richiamo al franchising, che è un contratto atipico di provenienza americana e che nel commercio italiano ha assunto negli ultimi anni, una notevole importanza, nel settore della produzione dei brevetti o di altre conoscenze.

Il Franchising è un contratto a prestazioni corrispettive, attraverso il quale un imprenditore, detto franchisor (concedente o affiliante), attribuisce ad un altro imprenditore, detto franchisee (o affiliato), il diritto di vendere i propri prodotti, utilizzando il marchio del franchisor, nonché i suoi segni distintivi, il brevetto di invenzione, il Know-how ed un’assistenza commerciale per tutta la durata del contratto. La controparte, in cambio, deve pagare un corrispettivo all’atto della stipulazione del contratto per entrare nella catena, ed

un canone periodico.

La legge fallimentare vigente, non detta una norma specifica per i contratti di franchising e quindi sorge la necessità di verificare quali delle norme più generali, devono applicarsi al caso di fallimento di un imprenditore facente parte di un contratto di franchising.

Il contratto di che trattasi, fa parte della categoria dei contratti in cui l’elemento di fiducia personale tra franchisor e franchisee, assume un grandissimo rilievo; ne consegue che l’ipotetico subentro del curatore nella originaria posizione del fallito, risulta essere molto problematica.

Altra considerazione da fare è che il franchising si presenta come un contratto caratterizzato da una attività di impresa quotidiana, a differenza della procedura fallimentare che per la sua natura liquidatoria, non è finalizzata all’esercizio di un’attività economica.

Nonostante quanto appena detto, il curatore ha la possibilità di richiedere al giudice di essere autorizzato a proseguire provvisoriamente l’attività per tutelarne il valore (es: avviamento, clientela), ma finalizzata alla cessione della rete ad un terzo. Da tenere presente che il subentro del curatore contrasta con la natura fiduciaria e personale del rapporto tra le parti; d'altra parte in assenza di una autorizzazione provvisoria all’esercizio dell’impresa, il contratto di franchising rimarrebbe privo di contenuto; in quanto l’affilato potrebbe ritenere risolto il contratto e liberarsi dagli obblighi di carattere economico e di comportamento (es: conformazione alla rete, non concorrenza ecc.), ma per contro perderebbe il diritto di usufruire del marchio e il diritto all’assistenza da parte dell’affiliante.

In conclusione il franchising non è assoggettato ad una normativa certa e pertanto le soluzioni devono essere trovate, analizzando ogni caso concreto; cosi come si comportano i giudici.

A tal fine possiamo richiamare la sentenza n. 57 del 2009 del Tribunale di Nola, che stabilisce:

- Se a fallire è un franchisor di una rete in cui prevale la funzione di fornitura dei beni agli affiliati, il curatore potrebbe avere l’interesse di cedere i POS in blocco a chi interessato non tanto a rilevare il marchio o il know-how del fallito, ma bensì ad acquisirne la rete con le relative autorizzazioni amministrative e le location, per poi usare il proprio know-how e il proprio marchio.

In questo caso l’autorizzazione che è stata concessa al curatore per proseguire l’attività di impresa, consente ai franchisee di portare avanti il rapporto, prima col curatore e successivamente con chi acquisirà la rete dal fallimento. (Un caso concreto ha visto protagonista una catena in franchising di pizzerie con consegna a domicilio).

- Se invece a fallire è il franchisee dobbiamo capire quali sono state le ragioni : - se la causa è dovuta a fattori soggettivi, come l’incapacità dell’affiliato (es: problemi finanziari o scarsa capacità di gestione), non avrebbe senso un esercizio provvisorio dell’attività dell’affiliato fallito; da ciò il contratto si dovrebbe ritenere risolto, permettendo il subentro di un altro affiliato gradito al franchisor. - se la causa, invece, è la formula

di franchising non è opportuna né una continuazione provvisoria dell’attività, né il subentro di un altro franchisee; per tanto l'unica soluzione possibile è la risoluzione del contratto e la regolazione dei rapporti economici in sede fallimentare.

Per il franchising, in ambito fallimentare, è importante analizzare caso per caso prima di prendere una decisione.125

In questa sede, è impossibile descrivere tutti i contratti atipici e il loro rapporto con il fallimento ed ecco perché mi sono limitata a descrivere nel dettaglio il leasing ed il factoring ed a fare un veloce richiamo al franchising.

La mia intenzione è sottolineare come l'ordinamento tuteli contratti, non espressamente previsti nel codice, al fine di tutelare la libertà d’iniziativa economica privata garantita dall'art. 1322 cod. civ. ed ancor prima dall'art. 41 Cost. che consente l'aggregazione, l'affiliazione e la collaborazione d’imprese.

A conclusione, dopo aver analizzato la disciplina del leasing e quella del factoring in ambito fallimentare ed aver illustrato che tali istituti non sono espressamente previsti nel codice civile è emerso chiaramente che sono soggetti ad una notevole disciplina; per tanto a mio modesto avviso, dovrebbero trovare una loro tipicità, ovvero essere inclusi dal legislatore, nella categoria dei contratti Tipici per assoggettarli a meccanismi di regolazione.

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