2. Il contenuto precettivo sostanziale della direttiva
2.2. La costruzione tecnica del giudizio di scorrettezza
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Esaurita la breve ricognizione del contenuto precettivo della direttiva sul piano sostanziale, conviene ricollegarsi alle premesse del ragionamento per verificare in che misura sia possibile trovare un denominatore comune alle singole fattispecie di divieto, in modo da ricostruire con maggiore certezza il significato della disciplina sotto il profilo dinamico.
Tralasciando la “lista nera”, sul cui ruolo ci si soffermerà comunque in seguito, può risultare utile mettere a sistema e
confrontare i criteri strutturali e funzionali che invece caratterizzano le clausole generali.
All’interno di ciascuna fattispecie sembra innanzitutto di potersi individuare uno schema articolato su tre livelli.
Il primo è costituito da una particolare qualificazione della pratica del professionista: essa potrà così colorarsi in vario modo, a seconda che «contenga informazioni false» (art. 6, par. 1), «ometta informazioni rilevanti» (art. 7, par. 1), presenti le stesse «in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo» (art. 7, par. 2), venga realizzata «mediante molestie, coercizione […] o indebito condizionamento» (art. 8), ovvero, nell’ipotesi più generale, sia «contraria a diligenza professionale» (art. 5, par. 1).
Il secondo livello presenta altrettanta varietà lessicale per descrivere l’effetto diretto della pratica richiesto onde pervenire ad un giudizio di scorrettezza.
Dalle singole previsioni si nota agevolmente come tale presupposto sia suscettibile di essere analizzato a sua volta sotto due distinti aspetti.
In primo luogo, le tipologie delle ricadute della pratica sul consumatore prendono in considerazione referenti non sempre omogenei. La clausola generale prevede che la condotta dell’impresa possa «falsare in misura rilevante il comportamento economico», il che si traduce in definitiva nell’idoneità ad «alterare sensibilmente la capacità […] di prendere una decisione consapevole». Sotto la disposizione in materia di omissioni ingannevoli si richiede che la pratica, nelle sue diverse configurazioni, si realizzi rispetto a quelle «informazioni rilevanti [necessarie] per prendere una decisione consapevole di natura commerciale». La definizione intermedia sulle pratiche aggressive si applica alle tre forme note che possano «limitare considerevolmente la libertà di scelta e di comportamento». Manca
invece uno specifico profilo di incidenza della pratica nell’ambito del divieto di azioni ingannevoli, dove la falsità o la correttezza fattuale vengono in rilievo nella misura in cui possano, appunto, «ingannare» il consumatore.
Gli aspetti presi in considerazione dal legislatore nel valutare la scorrettezza della pratica si riconducono quindi alle conseguenze della stessa sulla «decisione consapevole» («informed decision») del consumatore e sulla sua «libertà di scelta o di comportamento («freedom of choice or conduct»), rispetto alle quali è richiesta una limitazione o alterazione (c.d. impairment).
In secondo luogo, al di là dell’avverbio di volta in volta adottato, emerge con chiarezza la volontà del legislatore di temperare il rigore della disciplina attraverso l’introduzione di soglie di rilevanza a cui condizionare l’assoggettamento delle pratiche al divieto di scorrettezza46: la condotta dell’impresa deve presentare una certa consistenza, incidendo sulla capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole ovvero sulla sua libertà di scelta «sensibilmente» («appreciably»: art. 2, lett. e)) ovvero «considerevolmente» («significantly»: art. 8). Nell’ipotesi di omissioni ingannevoli tale valutazione è recuperata attraverso il duplice requisito della rilevanza coordinata alla necessarietà per l’assunzione di una decisione consapevole47.
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46 Si tratta del c.d. materiality test: cfr. H.-W. Micklitz, in Understanding EU
Consumer Law, cit., p. 86; particolarmente estesa l’analisi di M. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, cit., pp. 100 ss.
47 Solo apparentemente diversa, per il motivo che si vedrà subito, la posizione
di U. BERNITZ, The Unfair Commercial Practices Directive: Its Scope, Ambitions and Relation to the Law of Unfair Competition, in S. WEATHERILL, U. BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29, Hart Publishing, 2007, p. 40, il quale, in caso di omissione, rinviene l’apprezzabilità della distorsione direttamente nell’idoneità ad indurre il consumatore a prendere una decisione che altrimenti non avrebbe preso.
Le formule menzionate impedirebbero così applicazioni formalistiche del divieto di pratiche scorrette alle ipotesi in cui, nonostante la non assoluta irrilevanza della condotta del professionista, una valutazione normativa e sociale tipica ne escluda l’attitudine ad influire in modo determinante sulle scelte del consumatore48.
Il criterio di «apprezzabilità» nelle sue diverse forme può ritenersi risolto nella proposizione di chiusura delle singole fattispecie, che rappresenta, secondo lo schema proposto, il terzo livello della costruzione dei divieti in esame.
Questa lettura, sebbene non del tutto pacifica a causa dell’opposta opzione interpretativa che tende a ravvisarvi un elemento costitutivo autonomo, da integrare separatamente, merita di essere accolta sulla base di argomenti, oltre che logici, anche sintattici e grammaticali — si noti in particolare l’impiego ripetuto della congiunzione «pertanto» e il nesso causale così stabilito49.
Tale requisito, strutturato come un test, descrive l’effetto finale della pratica, che in ultima analisi ne giustifica la repressione.
Infatti, l’attitudine della pratica alla limitazione o all’alterazione della capacità decisionale del consumatore in modo sufficientemente rilevante può e deve essere verificata alla luce della circostanza che la stessa «induca o sia idonea a indurre [il consumatore] ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».
Si tratta di un giudizio normativo di particolare centralità: a testimonianza di ciò esso è presente, senza eccezioni, tanto nella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
48 Su tali parametri ritiene che debba svolgersi la valutazione M. LIBERTINI,
Clausola generale e disposizioni particolari, cit., p. 103; particolarmente suggestivo si rivela l’accostamento del requisito in esame al criterio de minimis consolidata nell’ambito della disciplina antitrust.
49 In senso conforme, G. DE CRISTOFARO, in IDEM (a cura di), Pratiche
clausola generale (che lo incorpora in via indiretta, tramite il noto rinvio all’art. 2, lett. e)) quanto nelle definizioni intermedie.
Se si richiama ancora una volta la definizione di «decisione di natura commerciale» quale manifestazione di una qualsivoglia «scelta di mercato» da parte del consumatore, è possibile ottenere una prima visione generale del significato del divieto di pratiche commerciali scorrette50.
Il quadro risulta forse ancora più chiaro attraverso la descrizione sintetica e polivalente che si ricava dal secondo pilastro della clausola generale (art. 5, par. 2, lett. b)), il quale si esprime nei termini di “idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori”.
Esso condensa, in un’unica espressione, ciascuno degli elementi ora esaminati, i quali, comuni a tutte le fattispecie di pratiche vietate, costituiscono il nucleo della disciplina.
Il criterio della c.d. material distortion comunica infatti alcune informazioni essenziali per la comprensione delle coordinate cui il legislatore ha scelto di ancorare l’intervento in materia di pratiche scorrette: il coinvolgimento dei consumatori, l’alterazione delle loro decisioni di consumo rispetto ad una situazione–base e la sussistenza di un margine di apprezzamento di tale scostamento.
Il dato ulteriore che emerge tanto dalla formula appena esaminata quanto dalle clausole generali minori, anche in questo caso nessuna esclusa, consiste nel fatto che si rivela sufficiente ai fini dell’applicazione della direttiva la mera “idoneità” della pratica a produrre l’effetto distorsivo del comportamento dei consumatori.
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50 G. DE CRISTOFARO, in IDEM (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e
Si tratta della conferma di un’intuizione già avanzata: una volta constatata, all’esito dello studio della categoria delle pratiche commerciali sotto il profilo oggettivo, l’intrinseca finalizzazione delle medesime all’instaurazione di un rapporto negoziale con un consumatore (per tale dovendosi intendere in concreto l’«operazione commerciale» di cui all’art. 3, par. 1), era stato segnalato come una simile, necessaria connessione fosse rilevante soltanto da un punto di vista teleologico. La riprovazione normativa alla base del giudizio di scorrettezza prescinde dalla effettiva conclusione del contratto tra impresa e consumatore.
Ottenuto riscontro di ciò sul piano del dato di diritto positivo, tuttavia, è immediato considerare i forti elementi di incertezza che tale conclusione introduce, in quanto strettamente collegata alla complessa ed equivoca nozione di “consumatore medio”.