L’apporto dell’economia comportamentale e della psicologia cognitiva alla disciplina d
2. Lettura in chiave comportamentale della direttiva 2005/
2.4. Il contributo delle discipline comportamentali all’interpretazione della direttiva e alla sua efficace
2.4.2. Prospettive di applicazione in senso
comportamentale della disciplina. Opportunità di anticipare la soglia di intervento
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Alla luce delle considerazioni svolte appare degno di nota, per la profondità di comprensione del fenomeno dimostrata, un orientamento consolidato tanto nella giurisprudenza dell’Autorità garante italiana quanto, ormai, nelle pronunce dei giudici amministrativi nazionali chiamati a decidere su ricorso contro i provvedimenti resi dalla prima: si è così affermato il principio della c.d. autosufficienza informativa, secondo il quale il giudizio di correttezza deve essere rivolto «al messaggio in sé […] indipendentemente dalle informazioni rese note in un diverso contesto»268 e pertanto, ai fini dell’accertamento di un’omissione ingannevole, «la completezza […] di un messaggio pubblicitario» deve essere verificata in relazione allo specifico episodio di comunicazione commerciale, senza che possano rilevare le «ulteriori informazioni che l’operatore pubblicitario renda disponibili solo a “contatto” e, quindi, a effetto promozionale avvenuto»269.
Tale interpretazione, particolarmente sensibile alle problematiche connesse all’effetto «di aggancio»270, testimonia in modo diretto i benefici in termini di efficacia che le clausole generali della direttiva possono ricevere allorché i loro elementi costitutivi e i criteri in esse stabiliti siano applicati in una prospettiva coerente con il quadro di conoscenze di origine comportamentale sull’effettiva dinamica dei rapporti, non solo economici ma anche psicologici, che intercorrono tra imprese e consumatori.
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268 Tar Lazio Roma, Sez. I., 8 gennaio 2013, nn. 104, Postemobile, e 106,
Poste Shop, in Bancadati Pluris.
269 Tar Lazio Roma, Sez. I., 4 febbraio 2013, n. 1177, Casafin, in Bancadati
Pluris.
Le fattispecie di divieto di pratiche aggressive e di omissioni ingannevoli si aprono così al fenomeno dell’influenza per tappe nei suoi diversi aspetti, offrendo strumenti per disciplinare ora il meccanismo di sfruttamento dell’asimmetria cognitiva esistente tra le parti, ora una particolare tecnica, come la mancata comunicazione di informazioni rilevanti, volta a creare tale asimmetria.
Occorre tuttavia una precisazione. La particolare struttura delle definizioni intermedie implicherebbe che l’effetto distorsivo identificato nel “fare ciò che non si sarebbe fatto” in termini di decisione di consumo sia verificato rispetto alla decisione finale, con cui il consumatore si vincola giuridicamente nei confronti del professionista. Nella prospettiva dell’influenza per tappe, però, ciò significa che sia il condizionamento indebito sia l’omissione di informazioni rilevano ai fini dei relativi divieti come qualificazioni di una condotta scorretta solo se accompagnati dall’accertamento dell’idoneità ad ottenere il comportamento desiderato, corrispondente al compimento del secondo (e definitivo) atto nella sequenza bifasica che caratterizza la tecnica in questione; di conseguenza, non viene considerato nel test tipico di tutte le fattispecie di pratiche scorrette il primo atto provocato in funzione prodromica ed agevolatrice, quando esso, come spesso accade, non si risolve in una scelta vincolante bensì nella sola formazione di una preferenza in astratto rivedibile in futuro, ovvero non costituisce ancora una vera e propria decisione di consumo o di acquisto.
Il risultato è che, in questi casi, anche qualora, ad esempio, sia imposto di verificare l’occorrenza di un’omissione già rispetto al primo “contatto” tra professionista e consumatore, il termine di riferimento per saggiarne l’ingannevolezza sarà costituito dall’idoneità ad ottenere da quest’ultimo la conclusione dell’operazione commerciale al quale la strategia di influenza è diretta: ne discende pertanto una maggiore difficoltà del test così strutturato al confronto
delle tecniche più articolate, a causa della necessità di individuare il nesso che collega un primo atto indotto ad uno finale desiderato e di svolgere un duplice giudizio controfattuale, con un evidente vuoto di tutela laddove il passaggio si riveli non immediato.
Infatti, nonostante per ipotesi l’effetto distorsivo si sia già verificato, sia pure in relazione ad un atto “neutro”, l’impossibilità di dimostrarne l’idoneità a ripercuotersi su una scelta concretamente di consumo a motivo della natura non univoca delle conseguenze ad esso associate rischia di sottrarre al giudizio di scorrettezza molte strategie di influenza capaci di assicurarsi un vantaggio cognitivo determinante in tempi e con modalità tali da eludere le soglie fissate per l’operatività della disciplina in materia.
Una soluzione potrebbe risiedere nell’individuare una serie di azioni o, più in generale, momenti di contatto tra professionisti e consumatori a cui empiricamente risulta connesso un effetto di priming tipico e nell’anticipare la tutela (la valutazione di scorrettezza) alle pratiche di induzione di tali atti o degli atti compiuti in tali circostanze, a prescindere da una loro connotazione commerciale e dalla necessità di riscontrarne in concreto la strumentalità rispetto ad una distinta operazione economica di scambio.
Nel contesto della disciplina vigente, da un punto di vista tecnico- giuridico, l’elemento nel quale trasporre le precedenti acquisizioni teoriche è la nozione di «decisione di natura commerciale», intorno alle cui vicende è costruito il test di scorrettezza nelle sue diverse versioni: una lettura estensiva sarebbe assai preziosa per semplificare l’applicazione della disciplina e garantire allo stesso tempo l’inibizione delle condotte cui le imprese ricorrono con l’obiettivo di ottenere dal consumatore un comportamento (solo) psicologicamente vincolante.
A supporto delle riflessioni svolte in precedenza, pare apprezzabile la direzione ermeneutica prospettata dalla Corte di
giustizia, quando, nel ribadire che ai fini della qualificazione di una pratica come ingannevole «essa deve in particolare essere idonea a indurre il consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso»271 ha ritenuto opportuno affrontare la questione «se atti preparatori all’eventuale acquisto di un prodotto […] possono essere considerati costitutivi di decisioni di natura commerciale»272.
La definizione intermedia dell’art. 6, nel cui contesto si colloca la pratica all’esame dei giudici, richiede che l’inganno colpisca una serie di elementi riportati dalla medesima disposizione — tra i quali compaiono in particolare l’«esistenza» e la «disponibilità» di un prodotto, rilevanti per il caso di specie — ma che, allo stesso tempo, per l’interpretazione ormai consolidata, sia idoneo a riverberarsi sulla capacità del consumatore di compiere una scelta consapevole «di natura commerciale», appunto: dovendosi intendere tale espressione come riferimento ad una scelta assunta nel contesto (della conclusione) di un’operazione economica di scambio tra impresa e consumatore, con esclusione di quelle azioni estranee ad una dimensione di mercato.
La Corte, invece, argomentando dalla latitudine temporale dell’ambito di applicazione della disciplina sancito dall’art. 3, con una forzatura evidente del tenore letterale della definizione di cui all’art. 2, lett. k), ha ampliato la categoria delle azioni alla stessa riconducibili, statuendo che la fattispecie ricorre ove sia accertato anche solo un «nesso diretto» con la decisione di acquistare o meno un prodotto,
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271 Corte di giustizia, sentenza del 19 dicembre 2012, C-281/12, Trento
Sviluppo, ECLI 2013:859, par. 33; ma v. già Corte di giustizia, sentenza del 15 marzo 2012, C-453/10, Pereničova, ECLI 2012:144, par. 47; Corte di giustizia, sentenza del 19 settembre 2013, C-435/11, CHS Tour Services, ECLI 2013:574, par. 42.
come avviene in particolare nel caso della decisione «di entrare in un negozio»273.
Sebbene non sia dato scorgere nel succinto ragionamento dei giudici alcuna motivazione di stampo cognitivo, si può nondimeno condividerne la conclusione raggiunta nella misura in cui ammette un’interpretazione del diritto vigente condivisibile e persino opportuna rispetto alle esigenze di tutela messe in luce dalle scienze comportamentali.
La traslazione del sistema di riferimento del test di scorrettezza ad un punto logicamente e cronologicamente anteriore rispetto alla transazione commerciale vera e propria, infatti, consente agli organi chiamati ad applicare la normativa di valorizzare lo strumentario delle clausole generali vietando le condotte ingannevoli, anche omissive, la cui alterazione del comportamento economico del consumatore consiste nell’indurre in quest’ultimo un atto, anche non del tutto omogeneo con i successivi, ma che, per la forza dei meccanismi psicologici coinvolti, provoca una sostanziale propensione a scelte di consumo non riscontrabili in assenza della pratica stessa.
2.4.3. Ridefinizione della fisionomia del «consumatore